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Alibech o Dell’Ingenuità (III 10 –Dioneo–)

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 102-107)

La novella conclusiva della Terza giornata sembra inserita a rompere il clima di tensione creato dalla novella di Giletta, come per dare respiro al lettore/ ascoltatore, prima della serie voluta da Filostrato re nella Quarta, dedicata alle pene d’amore; e segnatamente prima della drammatica novella di Ghismunda e Tancredi di Salerno, che la apre.

Il passaggio dalla novella della felice ventura procacciata dalla tenace costan- za di Giletta alla novella narrata da Dioneo è inconsuetamente brusco, quasi che l’Autore volesse lasciarne sospesa l’ambiguità del significato, se quello che è sembrato di intravedere corrisponde al suo intendimento, al di là dell’argo- mento e del tono del significante.

La novelletta di Alibech si presenta come racconto piano, senza particolare spessore: si svolge sul filo lieve dell’ironia, con un uso discreto e mai volgare dell’allusione per un argomento tutto rivolto a celebrare l’iniziazione della

semplicissima fanciulla ai misteri della fede e alla via della santità, consistenti

–suggerisce il testo– nella pratica assidua delle gioie dei sensi.

La morale enunciata da Dioneo è di maniera –“quantunque Amore che i lieti palagi e le morbide camere più volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso fra’ folti boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte spelonche non faccia le sue forze sentire” (III 10, 443-444); la ripresa, affidata a Filostrato nell’atto del suo insediamento come re –“tosto ci avedremo se ‘l lupo saprà meglio guidar le pecore che le pecore abbiano i lupi guidato”, aveva detto la

regina uscente consegnadogli le insegne; ed egli aveva replicato: “Se mi fosse stato

creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno non peggio che Rustico facesse a Alibech; e perciò non ne chiamate lupi dove

voi state pecore non siete” (III Conclusione)–, mantiene il tono dello scherzo. Nel mezzo, ancora una volta protagonista di una racconto pur lieve, una donna d’età

forse di quattordici anni –cioè da marito–, non cristiana –come Alatiel: quando

l’argomento è scabroso l’Autore preferisce non rischiare di compromettere quel che gli preme dire esponendosi ad accuse inutilmente distraenti–, e dunque an- che per questo –almeno a riguardo della santità e del servire Iddio– semplicissima. Sulla scena, sempre abbastanza vuota, compaiono alcuni personaggi maschili e due cori: uno all’inizio –“udendo a molti cristiani che nella città erano molto commendare la cristiana fede e il servire Dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera e con meno impedimento a Dio si potesse servire” (III 10, 444)–; l’altro a conclusione –“le donne domandarono come si rimetta il diavolo in Inferno. La giovane tra con parole e con atti il mostrò loro; di che esse fecero sì gran risa, che ancor ridono, e dissono: «Non ti dar malinconia, figliuola, no ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso teco Domeneddio»” (III 10, 450). Deuteragonista un romito giovane, Rustico, al quale la fanciulla si rivolge per es- sere avviata al servizio di Dio e che, “per volere fare della sua fermezza una gran prova, non come gli altri la mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua cella” (III 10, 445), per cadere presto vittima delle tentazioni. La storia narrata è pur essa semplicissima: la giovane –bella e gentilesca–, richiedendo come servire Dio, si sente rispondere che “meglio a Dio servivano che più delle cose del mon- do fuggivano, come coloro facevano nelle solitudini de’ diserti di Tebaida andati se n’erano” (III 10, 444); decide allora di recarsi presso i romiti per imparare la loro sapienza e servire come loro Iddio. Ma il primo di costoro, “veggendola gio- vane e assai bella, temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo ‘ngannasse, le commendò la sua buona disposizione” (III 10, 445), e la inviò ad un altro, che si comportò allo stesso modo, finché Alibech non giunse alla capanna di Rustico.

Il giovane, assai divota persona e buona, l’accolse, come si è visto; ma “questo fatto, non preser guari d’indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di co- stui: il quale trovandosi di gran lunga ingannato, da quelle senza troppi assalti voltò le spalle e rendessi per vinto” (III 10, 445-446). Come il fraticello della quarta novella della Prima giornata, la giovinezza è forza preponderante ed in fondo assolutoria: anche dalla semplice malizia adoperata per recare Alibech a’

suoi piaceri –la faccenda del rimettere il diavolo nell’Inferno– poiché ella stessa

ne risulta ben contenta –in quella sua semplicità che sembra sincera a Rustico ed al lettore,– e non appare mai nel ruolo di vittima.

Dioneo insiste con garbo nella metafora sessuale, senza mai forzare:

La giovane, che mai più non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di noia, perché ella

disse a Rustico: “Per certo, padre mio, mala cosa dee essere que- sto diavolo e veramente nemico di Dio, ché ancora al ninferno, non che altrui, duole quando egli v’è rimesso”. Disse Rustico: “Figliuola, egli non avverrà sempre così”. E per fare che questo non avvenisse, da sei volte, anzi che in sul letticel si movessero, vel rimisero, tanto che per quella volta gli trassero sì la superbia del capo, che egli si stette volentieri in pace (III 10, 447).

Il momento centrale della narrazione è ancora una volta affidato alla donna. L’esile trama infatti riesce a trovare lo spunto per sollevarsi fino al livello di enunciato teoretico ed etico, pur senza abbandonare il gioco delle metafore ed anzi complicandolo in una connotazione ancora una volta ambigua:

Ma ritornatagli poi [la superbia] nel seguente tempo più volte e la giovane ubbidiente sempre a trargliene si disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere e cominciò a dire a Rustico: “Ben veggio io che il vero dicevano quei valenti uomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra io ne facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimettere il diavolo in inferno; e per ciò io giudico ogni altra persona, che a altro che a servire Dio attende, essere una bestia”; per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico e gli dicea: “Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo in inferno” (III 10, 448).

Non ci si sottrae infatti all’impressione che le parole della semplicissima Alibech abbiano la funzione di suggerire l’inversione della metafora del servire

Dio, per recuperare un tema già incontrato nel Decameron: il valore della na-

tura, delle pulsioni naturali, del piacere donato e ricevuto –dai discorsi delle suorine di Masetto, alle ripetute invocazioni conclusive di tre delle novelle di questa Terza Giornata: “Molte altre notti con pari letizia insieme si ritrovaro- no: alle quali io priego Idio per la sua santa misericordia che tosto conduca me e tutte l’anime cristiane che voglia n’hanno” (III 3, 358); “E conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i basci dell’amante che quegli del marito <…> tenerissimamente da quel giorno innanzi l’amò, e savissimamente ope- rando molte volte goderono del loro amore. Idio faccia noi goder del nostro” (III 6, 388); “Tedaldo adunque, tornato ricchissimo, perseverò nel suo amare, e senza più turbarsi la donna, discretamente operando, lungamente goderon del loro amore. Dio faccia noi goder del nostro” (III 7,413)–, i valori che ap- punto le novelle d’amore mai disconoscono, sono riassunti nel gioco di parole

compiuto dalla donna capovolgendo la malizia di Rustico che appare ora –essa sì– semplice: per servire Dio –aveva detto il giovane monaco– si deve rimettere il diavolo in inferno, e le aveva insegnato a farlo; ora Alibech replica che a ri-

mettere il diavolo in inferno davvero si serve Dio, “e per ciò io giudico ogni altra

persona, che a altro che a servire Dio attende, essere una bestia”. Così Rustico ingannatore rimane ingannato dallo zelo della giovane, al quale le sue deboli forze di anacoreta non possono soccorrere. Ed è doppiamente vinto, poiché Alibech, grazie all’inganno subito, davvero meglio di lui, con il suo zelo e il suo essere “di buona fede” (III 10, 447), può essere ascritta al novero di coloro che più servivano a Dio nei diserti di Tebaida.

La conclusione affidata al coro, già ricordata, riprende il tema enunciato: “Neerbale ne servirà bene con esso teco Domeneddio”. Il coro amplifica la nuo-

va sapienza di Alibech, sia pure in ironico proverbio: “il più piacevole servigio

che a Dio si facesse era rimettere il diavolo in inferno: il qual motto, passato di qua da mare, ancora dura”; e consegna a Dioneo il testimone:

“E perciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, perciò che egli è forte a grado a Dio e piacere delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire” (III 10, 450).

Il coro e Dioneo giocano ancora con la semplicità di Alibech, e attraverso l’ironia in certo modo ripristinano l’ordine delle cose.

Ma affiora anche il ricordo di Matteo 5, 3: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli”.

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 102-107)

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