Ancora una storia di matrimonio e d’adulterio, d’amore clandestino e pe- riglioso, di leggi inique e di coraggiose parole. Protagonista una gentildonna pratese, madonna Filippa moglie di Rinaldo de’ Pugliesi –grande famiglia di quei luoghi in quei tempi–96, che la sorprende
nella sua propria camera <…> nelle braccia di Lazzarino de’
Guazzagliotri97, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella
quanto se medesima amava (VI 7, 746).
Ira, sdegno, desiderio di vendetta –ma anche timore per le conseguenze–, e così Rinaldo rinuncia al primitivo proposito di uccidere i due amanti e ricorre invece a uno statuto allora vigente in Prato, nel vero non men biasimevole che
aspro,
il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse (VI 7, 745).
Noteremo che la distinzion suggerita riguarda la qualità dell’adulterio: tra- dire la fede coniugale per amore, sembra dire il testo, è altro dal tradirla per danaro. Dunque la donna viene portata davanti al podestà. Filostrato non na- sconde la sua simpatia:
La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler più tosto, la verità con- fessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta,
96 Ma le fonti non permettono di trovare fra i Pugliesi né un Rinaldo né una Filippa. Cfr.
Decameron, VI 7, 745 nota 7.
domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse (VI 7, 746-747).
Il pensiero di madonna Filippa riprende le parole di Ghismunda al padre (IV 1)98, ovvero uno dei più nobili interventi femminili del Decameron. Il suo
comportamento fiero suscita ammirazione:
Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimo- niavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire (ibidem).
E arriva a proporre alla donna una via di fuga, suggerendole di negare ciò di cui il marito l’accusa: “<…> per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’accusa” (ibidem).
Ma il proposito di Filippa, come s’è visto, è altro:
La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: “Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano. Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodi- sfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare” (VI 7, 747-748).
Madonna Filippa, dunque, prima di tutto invoca la distinzione: ella ama Lazzarino con buono e perfetto amore. Poi accusa l’ingiustizia delle leggi non
comuni e non eque: cioè, come si affermava con sentenza condivisa, devono
essere uguali per tutti e fatte col consentimento di coloro cui si riferiscono99; 98 Cfr IV 1, 478-479.
mentre lo statuto pratese riguardava solo le donne, ed era stato promulgato non solo senza il parere favorevole delle donne, che pure più ne erano colpite; ma addirittura senza sentirne il parere. Poi l’argomentazione scarta verso una direzione imprevista:
“E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no”. A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto. “Adunque” –seguì prestamente la donna– “domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare?” (VI 7, 748).
Filippa è abilissima: la domanda rivolta a Rinaldo sollecita il suo onore di maschio, ed egli prestamente rispose che sì, la domma a ogni sua richiesta gli
aveva di sé ogni suo piacer conceduto. Ci sarebbe mancato altro! Questo rende
l’uditorio ben disposto, e la donna abbandona il tono serioso per utilizzare, in una situazione disperata, l’unico vantaggio possile, della buona disposizione nei suoi confronti.
Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’ lor mariti facesser fallo (VI 7, 749).
Ben si vede che in questa novella non si parla di un leggiadro motto, ma di una gloriosa impresa –la donna lieta e libera alla sua casa se ne tornò glorio-
sa– vinta contro la presunzione maschile protetta dall’ipocrisia e dalla violenza
conseguenti ai matrimoni senza amore. Ma non sfugga la logica invocata dalla donna per salvarsi e per salvare insieme una prassi frequente quanto celata –“e anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno a’ mariti” (VI 1,
715)–: è quella della ragion di mercatura, che non vuole merce sprecata o gua- stata quando la si può ben impiegare senza danno altrui, magari a servirne un gentiluomo “che più che sé m’ama”.