E come altra volta tra noi è stato detto, quantunque Amor volentieri le case de’ nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ‘mperio di quelle de’ poveri, anzi in quelle sì alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da’ più ricchi si fa temere (IV 7, 546).
Così Emilia dà inizio alla sua novella, e ancora una volta sembra recuperare un tema tradizionale della letteratura amorosa medievale73, già evocato in altre
novelle e che in altre ancora si riaffaccerà. Ma allo stesso modo che annuncia
di voler rientrare con la sua novella in Firenze, dalla quale in questa giornata molti racconti si erano distaccati, Emilia sembra anche voler riportare il tema dell’amore a una realtà più prossima, meno paludata, più ordinaria, in modo da far risaltare la potenza della sua signoria. Come nella Prima giornata l’Autore ave- va voluto far precedere alla novella nobilissima della Marchesana del Monferrato la novelletta della fanciulla né di ferro né di diamante, si direbbe per non voler creare nel lettore l’aspettativa di una teoria di exempla –nel senso classico-; come altre volte la tensione di alcune novelle viene stemperata dalla accentuata comici- tà –vera o apparente- di quelle che s’interpongono (lo si è visto anche in questa
giornata, con la novella di Madonna Lisetta e dell’agnolo Gabriello collocata fra
quella di Ghismunda e la novella del tragico amore delle tre sorelle di Marsiglia); così dopo la serie di tragedie che appunto dalle tre sorelle, attraverso Gerbino, giunge a Lisabetta da Messina e all’amore puro e fedele dell’Andreuola, quello della Simona e di Pasquino è un tenero e fresco amore popolano:
Fu adunque, non è ancora gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona: e quantunque le convenisse con le proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli atti e con le parole piacevoli d’un giovi- netto di non maggior peso di lei, che dando andava per un suo maestro lanaiolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare. Ricevutolo adunque in sé col piacevole aspetto del giovane che l’amava, il cui nome era Pasquino, forte diside- rando e non attendendo di far più avanti, filando a ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. Questi dall’altra parte molto sollecito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere, più spesso che l’altre era sollecitata (IV 7, 547-548).
Emilia descrive i suoi personaggi con un sorriso di simpatia, quasi di rispet- to, sdrammatizzato da una bonaria ironia: e con estrema delicatezza racconta il lor primo abbraccio:
<...> avvenne che l’un più d’ardire prendendo che aver non solea, e l’altra molta della paura e della vergogna cacciando che d’avere
era usata, insieme a’ piacer comuni si congiungono; li quali tanto all’una parte e all’altra aggradirono, che, non che l’uno dall’altro aspettasse d’essere invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva incontro l’uno all’altro invitando (IV 7, 548-549).
Poi, quasi temendo di cadere nel patetico, l’Autore vira rapidamente, e fa entrare nella storia altri personaggi con nomi e soprannomi che sottolineano una volontaria diminuzione di tono: ecco allora la Lagina e Puccino detto lo
Stramba, che accompagnano i nostri due giovani alla perdonanza di San Gal- lo –tradizionale rito fiorentino-, per poi finire in un giardino fra amorazzi e
piaceri.
La tragedia che porta Pasquino e la Simona alla morte è persino banale: rimangono avvelenati per essersi stropicciati i denti con una foglia di salvia. Prima Pasquino, e poco dopo la Simona, accusata dallo Stamba e da altri due amici di Pasquino –l’Atticciato e il Malagevole- d’averlo avvelenato, e che a sua discolpa fa vedere come il giovane era morto, stropicciandosi anch’ella la salvia sulle labbra e rimanendo ugualmente avvelenata.
Emilia non abbandonerà i due giovani amanti alla loro sventura senza dedi- care loro un delicato epitaffio:
O felici anime, alle quali in un medesimo dì adivenne il fervente amore e la mortal vita terminare! E più felici se insieme a uno medesimo luogo n’andaste! E felicissime se nell’altra vita s’ama e voi v’amate come di qua faceste! (IV 7, 551-552).
Ma la chiusa è ancora squisitamente popolare, con la ricomparsa dello Stramba e del Malagevole e dell’Atticciato, e la scoperta di “una botta di meravigliosa grandezza” sotto la pianta di malva, che secondo la credenza tradizionale era velenosa, e causa quindi della morte dei giovani. E alla fine Pasquino “insieme con la sua Simona, così enfiati com’erano, dallo Stramba, dall’Atticciato, e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo seppelliti, della quale per avventura erano popolani” (IV 7, 553). Emilia l’aveva preannunciato:
Care compagne, la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna cosa altra alla sua simile, se non che, come l’An- dreuola nel giardino perde’ l’amante, e così colei di cui dir debbo; e similmente presa, come l’Andreuola fu, non con forza né con vertù ma con morte inopinata si deliberò dalla corte (IV 7, 547).