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Zinevra o Della fedeltà (II 9 –Filomena–)

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 61-66)

Di fedeltà coniugale parla invece esplicitamente la penultima novella della

Seconda giornata, e affronta il tema partendo da un enunciato teorico al qua-

le segue la dimostrazione del contrario, secondo un modulo già incontrato. Ancora una volta il titolo indica come protagonista un uomo, Bernabò da Genova; e in effetti nella prima parte della narrazione egli ed il suo antagonista Ambrogiuolo hanno un ruolo importante, appunto di definizione dell’ideolo- gia maschile riguardo alle donne-mogli. Poi la storia diviene quella di Zinevra, moglie di Bernabò, e del riscatto della dignità femminile attraverso la mani- festazione alta di virtù, fra le quali, di nuovo, la fedeltà coniugale costituisce piuttosto lo sfondo narrativo –come per la marchesa del Monferrato– che non l’esempio specifico.

La novella è ricca di notazioni attente alle caratteristiche psicologiche dei personaggi, e si apre con un quadro bellissimo, di un albergo in Parigi nel quale un gruppo di mercanti italiani consuma la sera fra risate e nostalgia:

e, avendo una sera fra l’altre tutti lietamente cenato, comincia- rono di diverse cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando pervennero a dire delle lor donne, le quali alle lor case avevan lasciate (II 9, 284).

Poi, quasi a voler esorcizzare la debolezza del ricordo domestico -pericolo- sissima a trovarsi a Parigi, quando per tornare a casa ci vogliono settimane di viaggio-, parte la giostra dell’esibizione di prorompente mascolinità, opportu- namente decorata di cinico realismo:

“Io non so come la mia si fa; ma questo so io bene, che quan- do qui mi viene alle mani alcuna giovinetta, che mi piaccia, io lascio stare dall’un de’ lati l’amore il quale io porto a mia mogliere e prendo di questa qua quello piacere che io posso”. L’altro rispose: “E io fo il simigliante, per ciò che se io credo che la mia donna alcuna sua ventura procacci, ella il fa, e se io nol credo, sì ‘l fa<...>” (II 9, 284-285).

Il coro riprende e amplia il tema, come accade in questi casi. Sogni, timori, angosce si confondono nel rassicurante consentire del pubblico. Per questo ur- tante appare la voce di dissenso di Bernabò, con la sua bella moglie perfetta e fedele, tuffato e adagiato nella nostalgia, abbandonato alla dolcezza del ricordo:

Un solamente <...> disse il contrario, affermando sé di spezial grazia da Dio avere una donna per moglie la più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello dee avere, che forse in Italia ne fosse un’altra (II 9, 285).

Si diffonde così a proporre in curiosa sequenza immagini comunque care46,

che per forza turbano i colleghi impegnati in un altro gioco. La reazione sarà dunque dura. Alla conclusione che trae

affermando con saramento niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cosa egli credeva certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuori di casa dimorasse, che ella mai a sì fatte novelle non intenderebbe con altro uomo (II 9, 286),

scoppia la vendetta del gruppo, sotto forma di derisione, per riaffermare la ras- sicurante regola del buon senso comune che non ammette eccezioni:

<...> Ambrogiuolo da Piagenza <...> di questa ultima loda che Bernabò aveva data alla sua donna cominciò a fare le maggiori risa del mondo; e gabbando il domandò se lo ‘mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli uomini del mondo conceduto (II 9, 286).

All’ironia segue il paternalismo pedagogico, che tradisce una volontà apo- logetica:

46 “Per ciò che era bella del corpo e giovane ancora assai e destra e atante nella persona, né

alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come di lavorare lavorii di seta e simili cose, che ella non facesse meglio che alcuna altra. Oltre a questo niuno scudiere, o famigliare che dir vo- gliamo, diceva trovarsi il quale meglio né più accortamente servisse a una tavola d’un signore, che serviva ella, sì come colei che era costumatissima, savia e discreta molto. Appresso questo la commendò meglio saper cavalcare un cavallo, tenere un uccello, leggere e scrivere e fare una ragione che se un mercatante fosse; e da questo, dopo molte altre lodi, pervenne a quello di che quivi si ragionava...”: ibidem.

“Bernabò, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma per quello che a me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento di sì grosso ingegno, che tu non avessi in quella cognosciuto cose che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E per ciò che tu non creda che noi, che molto largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo avere altra moglie o altrimenti fatta che tu, ma da un naturale avvedimento mossi così abbiam detto, voglio un poco con teco sopra questa materia ragionare” (II 9, 287);

quindi l’enunciazione teorica:

“Io ho sempre inteso l’uomo essere il più nobile animale che tra’ mortali fosse creato da Dio, e appresso la femmina; ma l’uomo, sì come generalmente si crede e vede per opere, è più perfetto; e avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di fermez- za e così ha, per ciò che universalmente le femmine sono più mobi- li, e il perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare stare. Se l’uomo adunque è di maggior fermezza e non si può tenere che non condiscenda, lascia- mo stare a una che ‘l prieghi, ma pure a non disiderare una che gli piaccia, e, oltre il disidero, di far ciò che può acciò che con quella esser possa, e questo non una volta il mese ma mille il giorno avve- nirgli; che speri tu che una donna, naturalmente mobile, possa fare a’ prieghi, alle lusinghe, a’ doni, a’ mille altri modi che userà uno uom savio che l’ami? Credi che ella si possa tenere? Certo, quan- tunque tu te l’affermi, io non credo che tu il creda; e tu medesimo di’ che la moglie tua è femina e ch’ella è di carne e d’ossa come son l’altre. Per che, se così è, quegli medesimi disideri deono essere i suoi o quelle medesime forze che nell’altre sono a resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque ella sia onestissi- ma, che ella quello che l’altre faccia...” (II 9, 287-288).

Si è richiamata per intero la dichiarazione di Ambrogiuolo, perché è in- sieme documento del giudizio comune del tempo sulla naturale inclinazione femminile alla lascivia; e documento dell’intento consapevole dell’Autore di contrapporvi una storia che ancora una volta sposta il piano del discorso dal dominio delle ambigue naturali inclinazioni alla capacità di intendere e vole- re, e quindi del dominio su di esse. Bernabò, infatti, introduce in risposta la distinzione fra stolte e savie, che corrisponde a un criterio interpretativo assai attendibile dei diversi destini che nel Decameron incontreranno le donne; ed anche la motivazione da lui addotta –“hanno tanta sollecitudine dell’onor loro,

che elle diventan forti più che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardar- lo”(II, 9 288)– introduce una possibile interpretazione di onore difforme da quella enunciata subito dopo da Ambrogiuolo –“‘l guastamento dell’onore non consiste se non nelle cose palesi”– e altrove ritrovata47, che rinvia pur essa a

un criterio di giudizio non obiettivo ma dipendente dal soggetto agente. La storia che segue, infatti, smentisce radicalmente la teoria di Ambrogiulo; ma smentisce anche la sicurezza di Bernabò, confinando tutte le parole spese nella prima parte della novella entro i confini del ragionamento maschile. E alla fine madonna Zinevra apparirà ancora più grande di come Bernabò l’aveva descritta e Ambrogiulo l’aveva sperimentata.

La discussione dei due mercanti ha termine con una infausta scommes- sa –anch’essa ben coerente con la competitività tipicamente maschile–, e Ambrogiuolo si impegna a portare le prove della sua vittoria sull’onore della casta moglie di Bernabò. Ma a Genova, dove la donna risiede,

con molta cautela informatosi del nome della contrada e de’ costumi della donna, quello e più ne ‘ntese che da Bernabò udito n’avea: per che gli parve matta impresa aver fatta. (II 9, 290);

così, malgrado le conclamate esperienze di conquista, abbandona immedia- tamente il proposito dimostrativo e ripiega sull’inganno. Con uno stratagem- ma si introdurrà nella camera della donna per carpire le prove della sua vittoria; ma in realtà egli esce sconfitto senza dar battaglia. Eppure, tornato a Parigi, non esita a chiamare coloro che erano stati presenti la sera della scommessa, affermando

sé aver vinto il pegno tra lor messo per ciò che fornito aveva quello di che vantato s’era (II 9, 292).

L’inganno gli fa guadagnare il premio e tuttavia non lo fa vincere. Ma egli sovrappone le due cose, e finisce per credere, lui per primo, a ciò che racconta. Lo si vedrà, dopo le vicende della parte centrale della novella –Bernabò ordina di uccidere Zinevra, che ottiene salva la vita dal sicario; si imbarca per terre lontane vestita da uomo col nome di Sicurano, conquistando, col suo valore, il padrone della nave; entra nel favore del Soldano d’Alessandria, che lo invia

47 Per tutte valga il riferimento alle parole dell’abate nella novella I 4, (87): “<...> peccato

come capo della guarnigione ad Acri, ove si teneva una gran ragunanza di mercanti cristiani e saraceni, e vede sul banco di Ambrogiuolo alcuni oggetti appartenutile e sottratti in occasione della scommessa–, quando, richiesto di narrare il modo con cui si era procurato gli oggetti già appartenuti a Zinevra, questi non esiterà a dire:

“Queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova chiamata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte che io giacqui con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi” (II 9, 297).

A distanza di tempo, senza più la necessità della scommessa, senza perico- lo di perder la faccia, del tutto gratuitamente Ambrogiuolo insisterà in una penosa menzogna, corroborandola con la citazioni di nomi, luoghi e fatti, senza riguardare all’ormai inutile disonore che procurava ad altri già copiosa- mente danneggiati da quella stessa menzogna. Perché ormai, sembra di poter dire, egli l’ha trasformata in verità, e continua a convincerne prima di tutto se stesso:

“Ora risi io per ciò che egli mi ricordò della sciocchezza di Bernabò, il quale fu di tanta follia, che mise cinquemila fiorin d’oro contro a mille che io la sua donna non recherei a’ miei piaceri: il che io feci e vinsi il pegno; e egli, che più tosto sé della sua bestialità punir dovea che lei d’aver fatto quello che tutte le femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene, per quello che io abbia sentito, la fece uccidere” (II 9, 297).

È pur vero che, nell’economia della novella, questo racconto costituisce il momento della svolta per l’epilogo della storia, ed ha dunque un carattere strumentale. Tuttavia esso corrisponde perfettamente all’immagine di Ambro- giuolo e dei suoi compagni definita fino dall’inizio. Zinevra/Sicurano, che fino a questo punto ha agito in secondo piano, diviene ora protagonista: scoperta l’infamia di Ambrogiuolo e la meschinità di Bernabò –“Io, vinto dall’ira della perdita de’ miei denari e dall’onta della vergogna che mi parea d’avere ricevuta dalla mia donna...” (II 9, 299), confesserà questi dopo che sarà stato svelato l’inganno, appunto ponendo al primo posto la perdita dei denari– vorrà punire chi è stato causa di tutte le sue sventure, ma vorrà anche manifestare la sua innocenza a Bernabò, nei confronti del quale sembra aver dimenticato ogni rancore. Nel momento in cui si accinge a disvelarsi, rivolta al sultano enuncia la vera morale della novella:

“Signor mio, assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa d’amante e di marito: ché l’aman- te a un’ora lei priva d’onor con bugie guastando la fama sua e diserta il marito di lei; e il marito, più credulo alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a’ lupi; e oltre a questo, è tanto il bene e l’amore che l’amico e il marito le porta, che, con lei lungamen- te dimorati, niun la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conoscete quello che ciascun di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo ‘ngannatore e per- donare allo ‘ngannato, io la farò qui in vostra e in lor presenza venire” (II 9, 299).

Ambrogiuolo è l’ingannatore, Bernabò l’ingannato: Zinevra sta su un altro piano, fuori dalle miserie della vicenda e ben oltre la fedeltà coniugale. Dispen- satrice di giustizia e di perdono, celebra con un trionfo la sua vittoria sui più

perfetti uomini.

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 61-66)

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