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Lisabetta e la follia (IV 5 –Filomena–)

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 122-126)

Filomena, con la sua novella, sembra voler ribadire la conclusione che si traeva dalla sfortunata storia di Gerbino e della sua amata:

La mia novella, graziose donne, non sarà di gentili di sì alta condizione come costor furono de’ quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sarà men pietosa (IV 5, 526).

La spietata legge del matrimonio obbligato è uguale per tutti. Nella storia di Filomena ancora una giovane donna deve soccombere al volere dei fratelli, che uccidono il giovane da lei amato segretamente e, mentre si consuma il suo dramma, continuano a mercatare impassibilmente, costringendola ad affermare la propria esistenza prima con la follia, e poi con la morte.

Erano dunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro <…>; e ave- vano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non avevano (IV 5, 527).

Che che ne fosse la cagione: non è difficile immaginare cagioni plausibili, co-

me il desiderio di ritardare l’esborso della dote, o la ricerca di un partito vantag- gioso; del resto il testo parla appunto di tre giovani “assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro”, che avevano una sorella –in questo caso quasi una parte aggiuntiva di patrimonio-. Dei suoi desideri, della sua volontà non

si fa ovviamente cenno; ma questo matrimonio rinviato senza termine appare come un diritto negato, un’eredità sottratta.

E Lisabetta compie una prima, tacita, forse inconsapevole ribellione:

E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in un lor fondaco un gio- vinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta guardato, avvenne che egli le comin- ciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, inco- minciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più desiderava ciascuno (V 5, 527).

Dunque i tre fratelli avevano anche Lorenzo, con la sua bellezza e leggiadria, e i suoi innamoramenti di fuori. E Lisabetta lo vedeva continuamente; e i fratel- li continuavano a non maritarla. Lorenzo, dal canto suo, quando se ne accorge, non può che esserne gratificato –è assai bella e costumata, ed è pur sempre la sorella dei padroni-; è in età da marito e pur continua a essere sola; gli manda messaggi chiari: incomincia “a porre l’animo a lei”. Lorenzo è lì, bello e vicino, leggiadro e disponibile, comodo e sicuro –non ha nessuna convenienza a rive- lare niente, ed è comunque un servitore-; e in casa, con il gusto sottile della rivalsa su quei fratelli preoccupati solo di sé e dei propri denari. “Non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più ciascuno desiderava”.

Ma troppa sicurezza divenne pericolo –come per la Spina (II 6) e per Ghi- smunda (IV 1)-. Il fratello maggiore una sera vide Lisabetta che andava dove Lorenzo dormiva,

il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna,varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò (IV 5, 528).

“Quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere”. Currado Malspina era rimasto “doloroso oltre modo”, a sorprendere la Spina abbracciata a Gian- notto; Tancredi di Salerno “dolente di ciò oltre modo”, a vedere la Ghismun- da e Guiscardo “insieme scherzando e sollazzandosi”: il primo li aveva fatti catturare ed imprigionare, costringendosi ad un sordo silenzio; il secondo era rimasto tacito a guardare, turbato e per noi conturbante. Ma si trattava di fi- glie e di dolore, e poi di oltraggio subito nelle proprie cose. Per i fratelli di Lisabetta

il dolore è forse diverso, e diverso è il comportamento: savio, egli pensa all’onestà –cioè ad evitare che derivi a sé e ai fratelli, e anche a Lisabetta, un disonore che avrebbe in ogni caso danneggiato l’interesse di tutti-. Decide allora di lasciare che la sorella vada da Lorenzo, per non rivelare una consapevolezza che compro- metterebbe ogni rimedio futuro. Infatti, a giorno, d’accordo con i fratelli

dopo lungo consiglio deliberò di questa cosa acciò che né a loro né alla sirocchia infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infingersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse avanti, si potessero torre dal viso (V 5, 328).

L’infamia avrebbe recato danno –si direbbe- alla loro immagine, ed avreb- be escluso la possibilità di un futuro matrimonio conveniente per la sorella. Per “torre dal viso” la vergogna sarebbe venuto tempo, “senza danno o sconcio di loro”: intanto che i due giovani proseguissero pure.

Con Lorenzo continuano a cianciare e a ridere; ma l’hanno già condannato a morte. Così un giorno, andatisene tutti insieme fuori città,

veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendea, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se n’accorse (ibidem).

A Lisabetta dissero che Lorenzo era stato mandato altrove per loro conto, e si dettero pace –in fondo, come Guiscardo, era pur sempre solo un servito- re infedele, che aveva ardito toccare cose non sue (Giannotto/Giuffredi s’era salvato solo perché disvelatosi di nobile lignaggio)-. Anch’ella per un po’ si dette pace. Però Lorenzo non tornava, ed allora cominciò a chiederne ai fratelli sempre più “instantemente”, “sì come colei a cui la dimora lunga gravava”; ed allora uno di loro, irritato, le rispose per le rime:

Che vuol dir questo? Che hai tu a far di Lorenzo, che tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene” (IV 5, 329).

Appare chiaro che l’animo del fratello non è per niente turbato dal com- messo omicidio; esibisce anzi la sicurezza di chi ha ragione, e fa fatica ad eserci- tare pazienza e clemenza. La povera Lisabetta ne resta schiacciata:

Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pieto- samente il chiamava e pregava che venisse; e alcune volte con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava (ibidem).

Il leggiadro Lorenzo non era dunque solo la consolazione per il matrimonio rinviato, o l’oggetto ed il soggetto di dolci desideri. Tenuta ristretta “da’ vole- ri, da’ piaceri, da’ comandamenti” dei fratelli, ci pare di veder rappresentata nell’amore per il giovane come una sua segreta indipendenza, un esercizio di discernimento e volontà, una libertà, che vanno certo ben oltre i meriti obiet- tivi che egli poteva essersi procurato; non per caso, si direbbe, l’Autore non ha mai fatto parlare Lorenzo, se non nel sogno di Lisabetta, e dunque è ancora lei a dargli voce e vita.

Il sogno è infatti la vita di Lisabetta nella seconda parte della novella: “te- mendo e non sappiendo che”, dopo aver molto pianto, ella evoca nel sogno l’amato e trova concretezza al suo timore, fino a farle immaginare dove i fratelli possano aver ucciso e sepolto Lorenzo. E “avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra” con una fante confidente va a verificare se l’intuizione onirica è veritiera: e trova il corpo di Lorenzo, e “manifestamente conobbe esser stata vera la sua visione”. Stacca la testa dell’amato e la depone in un vaso di basi- lico, che bagna continuamente con le sue lacrime, sì che esso cresce e diviene profumatissimo.

L’ultima parte della novella vede la consunzione progressiva di Lisabetta e il parallelo prosperare della pianta, quasi vita generata dal corrompersi della sua carne e della carne di Lorenzo, simbolo della vita negata a loro dalla cieca (per lei; in realtà molto ragionata) violenza dei fratelli:

E osservando la giovane questa maniera del continuo, più volte da’ suoi vicini fu veduta. Li quali, meravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano dalla testa fuggiti, il disser loro: “Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene la cotal maniera”. Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendola alcuna volta ripresa e non giovando, nascostamente da lei fecero portar via questo testo (IV 5, 531).

Il testo, il vaso del basilico, era restato l’unico spazio nel quale Lisabetta si riconosceva: con il dolore terribile che esso rappresentava, era pur la sola realtà della sua vita. Ed ora, con la stessa crudeltà con cui avevano ucciso Lorenzo, i fratelli uccidono Lisabetta e la sua ribellione. Le resta come extrema ratio la follia. Come nella novella di Ghismunda e Tancredi –sia pure in tono ben più

dimesso, corrispondente al diverso ceto- la novella parla più del drammatico rapporto di Lisabetta con i fratelli che non del suo amore per Lorenzo. Que- sti sta sullo sfondo della scena, occasione e pretesto di complicati sentimenti: rivalsa, rimpianto, rivendicazione, pulsioni (tutto amalgamato, come accade agli adolescenti, nell’impeto della passione), per Lisabetta; egoismo, cupidigia, senso del possesso, forse anche gelosia per i fratelli; sino alla fine, quando dopo aver seminato solo morte, sono costretti a fuggire per nascondersi.

E versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sì consumata che essi alla capigliatura non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temette- ro questa cosa si risapesse: e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli (IV 5, 531-532).

La loro vita senza storia, consumata nella crudele ottemperanza alla ragion di mercatura, si conclude in un anonimato senza speranza. Di Lisabetta e della sua disperata ricerca di vita risuonerà ancora a lungo almeno il mesto canto

“Qual esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta”, et cetera (IV 5, 532).

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 122-126)

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