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La finezza di madonna Oretta (VI 1 –Filomena–) e la fierezza d

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 187-191)

Madonna Nonna

(VI 3 –Lauretta–)

L’introduzione alla giornata contiene già una sorta di novelletta sotto forma di dialogo comico affidato a due servitori della brigata –la fante di Filomena e il fante di Filostrato–, che riprende il tema della novella di Dioneo in chiusura della precedente, e che pare aver la funzione di animare la narrazione di una giornata connotata da un forte carattere didascalico. Il contrasto –ma più pro- priamente il soliloquio della donna– introduce una facile metafora oscena per ribadire le tesi esposte dalle donne della novella V 10:

E volendo già la reina comandare la prima novella, <…> fu un gran romore udito, che per le fanti e famigliari si faceva in cuci- na <…> la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore. Alla quale volendo Tindaro rispon- dere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no, e in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse: “Vedi bestia d’uom che ardisce, dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me”; e alla reina rivolta disse: “Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di Sicofante; e né più né meno, come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue;

94 Solo quattro novelle di questa pagina vedono la presenza di donne –più la fugacissima

comparsa (VI 4, 732) di Brunetta in quella di Chichibio, a tempo per farsi regalare la famosa coscia della gru dal temerario cuoco–: in tre casi con ruolo di protagoniste. Elissa ha proposto alla lieta brigata di discorrere di chi con leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con risposta o

avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno: tema caro alla cultura del tempo e al B., che già

si era soffermato sul valore dei leggiadri motti nell’introduzione di Pampinea alla decima no- vella della Prima giornata, peraltro ripresa da vicino nella novella di Filomena che apre questa

giornata. Due novelle, la prima e la terza, svolgono fedelmente il tema, mentre la settima si

e io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con gran piacere di quei d’entro. Ed è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno così sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando alla bada del padre e dei fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni più che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono, se elle s’indugiasser tanto! Alla fe’ di Cristo (ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro) io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito; e anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno a’ mariti; e questo pecorone mi vuol far conoscere le femine, come se io fossi nata ieri” (VI 1, 714-715).

Grandi risate seguono nella finzione scenografica della lieta brigata, con affidamento da parte della reina a Dioneo della causa, e con immediata pro- nuncia della sentenza, naturalmente a favore di Licisca. Certamente riuscito effetto comico per il lettore. Ma, nella prospettiva che guida queste note, le parole di Licisca costituiscono una testimonianza da non sottovalutare sui comportamenti e i costumi dell’epoca dell’Autore. Quella testimonianza, come la saggezza delle due donne della precedente novella di Dioneo, come le tante altre omogenee che si sono trovate e sottolineate nel Decameron, rappresenta una società che nasconde dietro un moralismo di facciata –quasi unica forma di ottemperanza alla morale religiosa– una realtà di violenza subita e inferta, ma sempre occultata perché non costituisca impedimento al prosperare della

ragion di mercatura. Tutti sanno e tutti tacciono, ad fuori della vox popluli che

qui il B. sembra elevare, con il pretesto del divertimento, ad alta forma lette- raria, per motivare tuttavia la crudezza della punizione divina. Il tutto sempre mescolato o mimetizzato –se l’ipotesi che delineiamo è probabile– con la co- micità, o con i temi alti, o con quell’itinerario edificante che va dalla Prima giornata alla Decima, dalla prima novella alla centesima, osservato –perché c’è– e così ben descritto dai critici, e inquadrato nella tradizione letteraria95.

Comunque, dopo la parentesi comica, la prima novella, brevissima, raccon- ta di una donna, madonna Oretta, e della finezza con la quale riesce usando appropriate parole a far capire a un maldestro cavaliere/narratore –che l’ha ospitata sul suo cavallo durante un tratto di passeggiata d’una nobile comitiva in campagna, con la promessa di raccontarle una bella novella– la mancanza di grazia e la sgradevolezza del racconto che sta facendo:

“Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a pie’” (VI 1, 719),

significando che se l’ospitalità era condizionata dal doverlo ascoltare, preferiva farne a meno. E il cavaliere, molto migliore intenditor che novellatore, inteso il

motto e quello in festa e in gabbo preso, senza sentirsi offeso capisce e agisce di

conseguenza.

Di maggiore spessore è la novella di Nonna de’ Pulci (VI 3), che senza lasciarsi intimorire dalla boria maschile coniugata con il potere, non esita a rintuzzare una sconveniente provocazione nientemeno che del potente vescovo di Firenze. Con grande umiliazione di lui, che trapassa dalla novella alla realtà, poiché i personaggi agenti in questa novella sono storici e contemporanei:

Essendo vescovo di Firenze messer Antonio d’Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano, chia- mato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto. Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande vagheg- giatore, avvenne che fra l’altre donne fiorentine una ne gli piac- que, la quale era assai bella donna ed era nepote d’un fratello del detto vescovo (VI 3, 727-728).

Antonio degli Orsi era stato vescovo di Fiesole dal 1301 al 1309, quando era divenuto vescovo di Firenze, non senza fama di simonia. Fu uomo famoso per la gloria militare e per la sua avarizia, donde forse le voci che hanno dato origine all’episodio narrato dal Decameron. Diego della Rath era un importan- te membro della corte angioina di Napoli, dove era giunto al seguito di Violan- te d’Aragona, prima moglie di re Roberto d’Angiò. Fu a Firenze come vicario del re nel 1305, nel 1310 e nel 1317-1318; e forse a questa ultima occasione si riferisce qui la novella. Nonna de’ Pulci era addirittura contemporanea:

“una giovane, la quale questa pestilenzia presente ci ha tolta donna, il cui nome fu monna Nonna de’ Pulci, cugina di messere Alessio Rinucci, e cui voi tutte doveste conoscere” (VI 3, 728).

La storia di sfondo al leggiadro motto di Nonna de’ Pulci è una squallida storia di violenza, di avarizia, di potere e d’inganni. Diego,

avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona fami- glia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d’oro, ed egli una notte con la moglie

il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d’ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede (ibidem).

“Come che contro al piacer di lei fosse”: il passaggio è velocissimo nella narrazione, ma non per questo meno drammatico, con l’aggravante dell’appar- tenere il marito a buona famiglia. E infatti:

il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s’infinse di queste cose niente sentire (ibidem).

Questi gli antefatti. Ora il vescovo, un giorno che cavalcava accanto a Die- go, avendo veduta Nonna ch’era allora “una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore” (ibidem), ponendo una mano sulla spalla del bello spagnolo e rivolgendosi alla donna, le disse:

“Nonna, che ti par di costui? Crederestil vincere?” (ibidem).

Sembra di leggere in queste parole come una sfida che trasferisce le doti della personalità di Nonna –fresca e bella giovane e parlante e di gran cuo- re– nell’agone tutto maschile della competizione sessuale. In questo senso interpretiamo la reazione della donna:

Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar negli animi di coloro, che molti v’erano, che l’udirono (ibidem).

Così la risposta giunge coraggiosa e tagliente:

“Messere, e’ forse non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta” (ibidem).

L’allusione colpisce entrambi i bersagli: il vescovo, per la parentela con la donna ceduta a danaro dal marito; Diego perché pagava le sue conquiste, e per- ché pagava con moneta falsa. Ma soprattutto umilia l’arroganza di chi si crede intoccabile. E invece i due potenti “se n’andarono senza più quel giorno dirle alcuna cosa” (ibidem). E Nonna de’ Pulci mostrò a loro e a tutti cosa voleva dire esser parlante e di gran cuore.

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 187-191)

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