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La moglie, Pietro e il garzone (V 10 –Dioneo–)

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 177-187)

Le novelle di Dioneo sembrano assolvere al compito di decantare il tema della

giornata, specialmente quando –come nel caso presente, o nella Quarta giorna- ta– esso ha condotto i narratori –e i lettori– in un’atmosfera di commozione; o

Quella che ora narra richiama da vicino per alcuni tratti la decima della

Seconda giornata –Bartolomea e Ricciardo di Chinzica–, e senza utilizzare il

privilegio concessogli sta in qualche modo dentro al tema –“si ragiona di ciò che alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avve- nisse”–, sia pure per paradossale contrappunto.

Il racconto parla di donne, e vede protagonista una donna. Parla poi anche di un uomo vago delle donne come il can delle mazze (V 10, 703) –lo- cuzione già usata da Panfilo nella descrizione di Ciappelletto: “delle femine era così vago come sono i cani dei bastoni” (I 1, 53)–; e di garzoni pilotati a far compagnia a donne scontente, ma disponibili a starsi quando occorresse

o moglie o marito (V 10, 704). Poiché nella commedia umana anche questi personaggi hanno parte. Così questa novella scherzosa non appare più solo

confacente al ruolo che il B. si è riservato col suo Dioneo nella strategia del- l’equilibrio narrativo, quanto piuttosto capace di prendere a pretesto quel- l’equilibrio per porre in luce un altro aspetto della società contemporanea, esempio ulteriore della sua corruzione, particolarmente stigmatizzato dalla cultura e dalla morale dell’epoca. Come sempre nelle novelle di Dioneo, l’effetto comico pare avere la funzione di attenuare la gravità della vicenda narrata e delle affermazioni fatte dai protagonisti; ne fa fede la stessa sua

excusatio preventiva:

quantunque la materia della mia seguente novella, innamorate giovani, sia in parte meno che onesta, però che diletto può porgere, ve la pur dirò; e voi, ascoltandola, quello ne fate che usate siete di fare quando ne’ giardini entrate, che, distesa la dilicata mano, cogliete le rose e lasciate le spine stare; il che farete, lasciando il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua disonestà, e liete riderete degli amorosi inganni della sua donna, compassione avendo all’altrui sciagure, dove bisogna (V 10, 693).

E in certo modo ne fa fede anche l’inizio della conclusione della giornata:

Essendo adunque la novella di Dioneo finita, meno per vergo- gna dalle donne risa che per poco diletto…(V 10, 706)

Il racconto ha una trama semplice: due donne nascondono due loro amanti in casa per l’arrivo improvviso dei loro mariti; per un qualche incidente en- trambi i nascosti si fanno sentire, provocando la reazione spaurita delle donne e adirata dei mariti che pure sortisce esiti diversi –di violenza nell’un caso, d’ac-

comodamento nel secondo–. Ma questa è una novella molto parlata, e sono le parole pronunciate a interessarci.

La presentazione di Pietro non ammette incertezze89:

Fu in Perugia, non è ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale, forse più per ingan- nare altrui e diminuire la generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini, che per vaghezza che egli n’avesse, prese moglie (V 10, 694).

Ricco, noto per le sue tendenze omosessuali, per stornare la generale op-

pinion e per ingannare altrui Pietro prende moglie –non senza che questa gli

abbia dato grande e buona dota, si premura di notare il narratore, tanto per precisare il ceto di cui si sta parlando–. Anche la presentazione di quest’ultima è chiara, e corrisponde al tradizionale ritratto della malmaritata90, protagonista

comico-satirica delle ballate e quindi topos letterario dell’epoca:

e fu la fortuna conforme al suo appetito in questo modo, che la moglie la quale egli prese era una giovane compressa, di pelo rosso e accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove ella s’avvenne a uno che molto più ad altro che a lei l’animo avea disposto (V 10, 694).

Ma ancor più la situazione si chiarisce quando la donna –veggendosi bel-

la e fresca, e sentendosi gagliarda e poderosa– sfoga il suo malumore e il suo

disagio:

“Questo dolente abbandona me, per volere con le sue disonestà andare in zoccoli per l’asciutto, e io m’ingegnerò di portare altrui in nave per lo piovoso. Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota, sappiendo che egli era uomo e credendol vago di quello che sono e deono esser vaghi gli uomini; e se io non avessi creduto ch’e’ fosse stato uomo, io non lo avrei mai preso. Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le

89 “Fonte largamente di questa novella sono i capitoli 14-28 delle Metamorfosi di Apuleio,

uno scrittore amato, utilizzato e quasi trascritto varie volte dal B.”: Decameron, V 10, 692 n. 2, Cfr. anche ibi, 694 n. 2 per le notizie su Pietro di Vinciolo.

femine contro all’animo gli erano? Questo non è da sofferire. Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta mona- ca; e volendoci essere, come io voglio e sono, se io aspetterò diletto o piacere di costui, io potrò per avventura invano aspettando invecchiare, e quando io sarò vecchia, ravveden- domi, indarno mi dorrò d’avere la mia giovinezza perduta, alla qual dover consolare m’è egli assai buono maestro e dimostratore in farmi dilettare di quello che egli si diletta; il qual diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui; io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura” (V 10, 695).

Prima la requisitoria, articolata in tre parti: la scusa –“io il presi per marito <…> sappiendo che egli era uomo <…>; e se io non avessi creduto ch’e’ fos- se stato uomo, io non lo avrei mai preso”–; l’accusa –“Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le femine contro all’animo gli erano?”–; la giustificazione –“Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca; e volendoci essere <…>, se io aspetterò diletto o piacere di costui, io potrò per avventura invano aspettando invecchiare”. Quindi la sentenza: “<…> farmi dilettare di quello che egli si diletta; il qual diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui: io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura”.

Altre volte altre donne hanno proposto, nel Decameron, considerazioni simili, indipendentemente dal ceto di appartenenza, richiamando con decisione il valore delle proprie pulsioni, della propria giovinezza, della propria gagliardia.

Ricordiamo il fugace cenno sulla fanciulla che è la prima figura femminile che incontriamo (I 4, Dioneo), che non era di ferro né di diamante (p. 87); ma tutta la novella celebra la concupiscenza carnale (p. 84). Ricordiamo la bella vedova di Castel Guglielmo che ospita Rinaldo da Este (II 2, Filostrato), “al quale la donna avendo più volte messo l’occhio addosso e molto commendato- lo, e già per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi il concupiscevole appetito avendo desto” (p. 149). E così ancora le parole che la principessa di Francia rivolge all’amato (II 8, Elisa ):

la donna del figliol del re gli pose gli occhi addosso <…> sé giovane e fresca sentendo <…>. “Egli è il vero che per la lonta- nanza di mio marito, non potendo io agli stimoli della carne né alla forza d’amore contrastare, <…> essendo io negli agi e negli ozi <…> a secondare li piaceri d’amore <…> mi sono lasciata trascorrere” (p. 262).

O la riflessione introduttiva della novella di Masetto (III 1, 328); o la can-

dida confidenza della suorina:

“Io non so se tu t’hai posto mente come noi siamo tenute strette <…>, e io ho più volte a più donne che a noi son venute udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa rispetto a quando la femina usa con l’uomo” (p. 333).

Dello stesso tenore gli accenni alla moglie di frate Puccio (III 4, 362). D’eguale argomento il drammatico soliloquio della moglie di Francesco Ver- gellesi (III 5, 375-376). Così pure tutta la novelletta d’Alibech (III 10, Dio- neo). E ancora, in pieno dramma, le parole di presentazione di Ghismunda (IV 1, 472); E le parole ch’ella stessa dice di sé al padre piangente:

“Esser ti dovea, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovinezza” (ibi, 478-479).

Ugualmente, nella disperata novella di Lisabetta da Messina (IV 5, Filome- na), ancora alle gioie d’amore si riconduce il racconto: e sì andò la bisogna che

<…> fecero di quello che più disiderava ciascuno (p. 527).

Potremmo continuare con cenni alle novelle della Quarta e della Quinta

giornata, per modi diversi d’argomento amoroso. Ma generalmente in tutte

le novelle del Decameron l’amore si accompagna sempre al desiderio dei cor- pi –anche se spesso il desiderio dei corpi non riguarda l’amore–. Semmai si nota una sorta di sistematica divisione di due aspetti che potrebbero sembra- re congiunti: ma in una società in cui l’unione matrimoniale dei corpi non prevedeva l’amore, e il sacramento del matrimonio, lo ricordiamo ancora, aveva la funzione di remedium concupiscentiae, ben si comprende che le don- ne –i maschi provvedevano senza problemi, come si sa– potessero esigere che almeno a tale funzione il marito assolvesse quando d’amore –come accadeva di solito– non c’era da parlare. Che è più o meno quanto dice la moglie di Pietro nella novella di Dioneo.

Il quale –cioè l’Autore dietro di lui– copre questa elementare verità con grande fragore di comicità, come usa fare quando affida ai suoi personaggi affermazioni che turbano la pace ipocrita di tradizioni e consuetudini: lo si è visto, come s’accennava, nella novella di Bartolomea (II 10, 311-313).

Nella presente novella il ruolo comico è affidato a un’altra donna, anch’essa in certo modo esemplare:

una vecchia, che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi; la quale sempre co’ paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d’altro che della vita de’ Santi Padri ragio- nava e delle piaghe di san Francesco, e quasi da tutti era tenuta una santa (V 10, 695-696).

Ricevute le accorate confidenze della moglie di Pietro, la buona vecchia così la conforta:

“Figliuola mia, sallo Iddio che sa tutte le cose, che tu molto ben fai; e quando per niuna altra cosa il facessi, sì ‘l dovresti far tu e ciascuna giovane per non perdere il tempo della vostra giovinezza, perciò che niun dolore è pari a quello, a chi cono- scimento ha, che è d’avere il tempo perduto. E da che diavol siam noi poi, quando noi siam vecchie <…>? Degli uomini non avvien così: essi nascon buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto più vecchi che giova- ni; ma le femine a niuna altra cosa che a far questo e figliuoli ci nascono, e per questo son tenute care. E se tu non te ne avvedessi ad altro, sì te ne dei tu avvedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, che degli uomini non avvie- ne; e oltre a questo una femina stancherebbe molti uomini, dove molti uomini non possono una femina stancare. E per ciò che a questo siam nate, da capo ti dico che tu farai molto bene a rendere al marito tuo pan per focaccia, sì che l’anima tua non abbia in vecchiezza che rimproverare alle carni. <…> E acciò che io non ti tenga più in parole, ti dico infino ad ora che tu non potevi a persona del mondo scoprire l’animo tuo che più utile ti fosse di me; per ciò che egli non è alcun sì for- bito, al quale io non ardisca di dire ciò che bisogna, né sì duro o zotico, che io non ammorbidisca bene e rechilo a ciò che io vorrò. Fa pure che tu mi mostri qual ti piace, e lascia poi fare a me”(V 10, 696-697).

La consueta tecnica del ribaltamento fa intervenire una serie di luoghi comuni che contribuisce a banalizzare il tono della novella, riconducendo il racconto per un lato al topos della malmaritata –come si è detto–, ben noto e consolante; e dall’altro a tutto l’armamentario dei discorsi maschili sulle don-

ne, che già abbiamo incontrato nella novella di Masetto (III 1) –“Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini possono male o con fatica una femina soddisfare”, 335–, e prima ancora nelle

tesi di Ambrogiulo e dei suoi compagni nella novella di madonna Zinevra (II

9)91; in ogni caso noteremo che a una santa donna fa dire –con evidente senso

contrario– le stesse cose che predicavano delle donne gli uomini di Chiesa92.

La moglie di Pietro utilizza, come s’è visto, i servigi della pia donna, che le procura di volta in volta qualche bel garzone. Mentre una sera è a cena con uno di questi, approfittando del fatto che il marito è, per suo conto, a cena da un amico –tale Ercolano–, ecco che il repentino rientro di questi turba i piacevoli progetti e mette tutti in pericolo: così la donna nasconde in tutta fretta il gar- zone sotto una cesta in una loggetta esterna alla stanza da pranzo, e va ad aprire a Pietro. Il quale rincasava prima del previsto perché la moglie del suo ospite aveva organizzato a sua volta un incontro d’amore con un garzone, e a sua vol- ta l’aveva nascosto di fretta all’inopinato rientro del marito che veniva a casa con Pietro per cena. Fortuitamente scoperto l’inganno, l’uomo aveva voluto uccidere il garzone nascosto dalla moglie intanto fuggita, e solo l’intervento dei vicini aveva impedito la tragedia. Ma la cena era sfumata, ed ecco Pietro che tornava a casa, e voleva cenare. Racconta alla moglie tutta la storia e,

Udendo <…> la donna queste cose, conobbe che egli erano dell’altre così savie come ella fosse, quantunque talvolta sciagura ne cogliesse ad alcuna; e volentieri avrebbe con parole la donna d’Ercolano difesa; ma, per ciò che col biasimare il fallo altrui le parve dovere a’ suoi far più libera via, cominciò a dire: “Ecco belle cose; ecco buona e santa donna che costei dee essere; ecco fede d’onesta donna, ché mi sarei confessata da lei, sì spirital mi pare- va! e peggio, che, essendo ella oggimai vecchia, dà molto buono essemplo alle giovani. Che maladetta sia l’ora che ella nel mondo venne, ed ella altressì che viver si lascia, perfidissima e rea femina che ella dee essere, universal vergogna e vitupero di tutte le donne di questa terra; la quale, gittata via la sua onestà e la fede promessa

91 Cfr. supra, 35-36.

92 La tradizione misogina è d’antica data: un ampio campionario in Ildeberto di Tour, Car-

mina miscellanea, che si riconduce tanto alla Bibbia –per la nefasta influenza delle donne nei

casi di Salomone, David, Giuseppe, Assalonne, Sansone, ecc.–, quanto alla tradizione profana –Catullo, Seneca, Giovenale, Petronio– e ai Padri della Chiesa –Tertulliano, Gerolamo–, fino al più prossimo Jacopone da Todi.

al suo marito e l’onor di questo mondo, lui, che è così fatto uomo e così onorevole cittadino, e che così bene la trattava, per un altro uomo non s’è vergognata di vituperare, e sé medesima insieme con lui. Se Dio mi salvi, di così fatte femine non si vorrebbe aver misericordia; elle si vorrebbero occidere; elle si vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne cenere” (V 10, 700-701).

Un nuovo ribaltamento, e la donna di Pietro –come Ciappelletto e con pari ipocrisia, ma per meschina paura e non per superba ribellione– snocciola la sua invettiva. Ma fortuitamente scoperto anche il suo inganno, al marito che le rin- faccia queste così edificanti parole –“Or tu maladicevi così testé la moglie d’Er- colano e dicevi che arder si vorrebbe e che ella era vergogna di tutte voi: come non dicevi di te medesima? O, se di te dir non volevi, come ti sofferiva l’animo di dir di lei, sentendoti quel medesimo aver fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi ti induceva, se non che voi siete tutte così fatte, e con l’altrui colpe guatate di ricoprire i vostri falli; che venir possa fuoco da cielo che tutte v’arda, generazion pessima che voi siete” (V 10, 702-703)– la donna –“veggendo che nella prima giunta altro male che di parole fatto non l’avea”– replica arditamen- te, non senza aver notato “lui tutto gongolare per ciò che per man tenea un così bel giovinetto” –e passa dal voi al tu, mentre frequente ricorre il pronome di pri- ma persona, come nel soliloquio della moglie di Francesco Vergellesi–:

“Io ne son molto certa che tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte ci ardesse, sì come colui che se’ così vago di noi come il can delle mazze; ma alla croce di Dio egli non ti verrà fatto. Ma volentieri farei un poco ragione con essoteco per sapere di che tu ti ramarichi; e certo io starei pur bene se tu alla moglie d’Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia pic- chiapetto spigolistra e ha da lui ciò che ella vuole, e tienla cara come si dee tener moglie, il che a me non avviene. Ché, posto che io sia da te ben vestita e ben calzata, tu sai bene come io sto d’altro e quanto tempo egli è che tu non giacesti con meco; e io vorrei innanzi andar con gli stracci in dosso e scalza ed esser ben trattata da te nel letto, che aver tutte queste cose, trattandomi come tu mi tratti. E intendi sanamente, Pietro, che io son femi- na come l’altre, e ho voglia di quel che l’altre; sì che, perché io me ne procacci, non avendone da te, non è da dirmene male; almeno ti fo io cotanto d’onore, che io non mi pongo né con ragazzi né con tignosi” (V 10, 703-704).

La difesa ritorna sul tema iniziale: la sua situazione non è comparabile a quella della moglie d’Ercolano, alla quale nulla è sottratto. Certo Pietro non le fa man-

care nulla, ma viene meno a quel dovere d’esser remedium concupiscentiae –come, lo abbiamo ricordato, già il delfino di Francia per la giovane sposa (II 8), o Ric- ciardo di Chinzica per Bartolomea (II 10), o Francesco Vergellesi per la moglie (III 5)– che pure è dovere specifico degli sposi. La donna passa così dalla parte della ragione, e si fa da sé ragione come le illustri donne degli antecedenti richia- mati, perdendo in questo senso la connotazione caratteristica della tradizionale

malmaritata, che pure il B. sembrava avesse voluto conferirle.

Ma l’autore non lascia che la ragione della donna prenda il sopravvento, e Dioneo risommerge il tutto nella comicità:

“Pietro s’avvide che le parole non erano per venir meno in tutta notte; per che, come colui che poco di lei si curava, disse: “Or non più, donna; di questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di far che noi abbiamo da cena qualche cosa: ché mi pare che questo garzone, altressì ben com’io, non abbia ancor cenato. <…>”. Dopo la cena, quello che Pietro si divi- sasse a sodisfacimento di tutti e tre, m’è uscito di mente. So io ben cotanto che la mattina vegnente infino in su la piazza fu il giovane, non assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o marito, accompagnato. Per che così vi vo’ dire, donne mie care, che chi te la fa, fagliele; e se tu non puoi, tienloti a mente fin che tu possa, acciò che quale asin dà in parete tal

riceva (V 10, 704)93.

E così la novella ha finito per raccontare “di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse”, come aveva richiesto Fiammetta.

93 Ancora una ripresa letterale della novella di madonna Zinevra (II 9, 285). Si veda anche

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 177-187)

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