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Cavalleria, amore e morte: la novella di sintesi (IV 9 –Filostrato–)

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 137-140)

La novella raccontata dal re Filostrato riprende i temi delle novelle più drammatiche della giornata: la cortesia, la forza dell’amore, la gelosia e l’ira, il suicidio; e sullo sfondo, quasi sfumato, il matrimonio.

La presentazione dei personaggi ci porta nel contesto della nobile amicizia di due cavalieri, signori di due vicini castelli in Provenza, che percorrono tutte le contrade di Francia per partecipare “a ogni torneamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’una assisa” (IV 9, 564-565); poi compare la donna, in secondo piano sullo scenario prettamente maschile:

<…> avvenne che, avendo messer Guglielmo Rossiglione una bel- lissima e vaga donna per moglie, messer Guglielmo Guardastagno fuor di misura, non obstante l’amistà e la compagnia che era fra loro, s’innamorò di lei e tanto or con uno atto or con un altro fece, che la donna se n’accorse; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere le piacque e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui desiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richiesta. Il che non guari stette che adivenne, e insie- me furono una volta e altra amandosi forte (IV 9, 565).

Qui non vale la sapienza popolana della Salvestra –“ Io sono <…> marita- ta; <…> non sta bene a me d’attendere a altro uomo che al mio marito”-: la

donna castellana “conoscendolo per valorosissimo cavaliere <…> cominciò a porre amore a lui”.

Il conte di Rossiglione aveva lei per moglie, ma a lei era rimasto il suo amo- re, e ora lo donava a un valorosissimo cavaliere: come la principessa di Francia (II 8); ma anche, con le debite differenze, come Ghismunda (IV 1), o la donna

d’alto legnaggio (III 3), o l’Abate bianco (II 3); o come Bartolomea (II 10), o la

moglie di Francesco Vergellesi (III 5), o Ermellina (III 7); e in fondo la stessa Lisetta (IV 2) con suo agnolo Gabriello. Ma certo come Ginevra o Francesca da Rimini. Tradizione antica e prassi recente, accanto al matrimonio: nel quale gli uomini “se alcuna malinconia o gravezza di pensieri li affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare pescare, cavalcare <…>” (Proemio, 8), o torneare e giostrare e armeggiare, con amistà e

compagnia; e le donne, “il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere

racchiuse dimorano e <…> seco rivolgendo diversi pensieri” (Proemio, 8-9), si

lasciano trascorrere a amare (II 8, 262) –valorosissimi cavalieri, o gentiluomini

dai panni bruni, o valletti, o mercatanti sfortunati, o corsari, o giovanotti az-

zimati, o giovani nobili/pellegrini, o agnoli Gabrielli-, il che talvolta vuol dire

vendicarsi, o anche solo sentirsi vive.

Guglielmo Guardastagno e la moglie di Guglielmo Rossiglione –come al so- lito l’Autore, quando vuole sottolineare il ruolo, evita di indicare il nome della donna-, “men discretamente insieme usando”, vengono scoperti dal marito, il quale “il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì”: la vendetta è decisa subito, ma viene differita a un momento in cui può essere rea- lizzata con il massimo di significato. E infatti Rossiglione coglie l’occasione di “un grande torneamento” che “si bandì in Francia”, per invitare l’amico/nemico al suo castello “e insieme dilibererebbono se andare vi volessero e come”. La vendet- ta inizia dunque proprio dal contesto nel quale si manifestava il legame principale dei due uomini, l’esercizio delle armi: dove era nata l’amicizia lì doveva morire. La forma scelta dal Rossiglione per farsi giustizia unisce il rituale del torneo –“ar- matosi <…> montò a cavallo <…> con una lancia sopra mano gli uscì addosso”- , con quello del tribunale –l’accusa: “traditore”; la condanna: “tu se’ morto!”; l’esecuzione: “Il così dire e il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa”.

Il reo, come il reo Lorenzo (IV 5, 528)74, arriva disarmato –“sì come colui

che di niente da lui si guardava”: e Filostrato non può mancare di condannare il giustiziere –“fellone e pieno di maltalento”-; ma ormai le regole della cavalleria

non hanno più luogo, né quelle della pietà: l’orgoglio ferito –soprattutto, si di- rebbe, perché l’amico ha preferito sua moglie a lui: giacché per il tradimento del- la moglie non si ha un solo moto di dolore- conduce Rossiglione all’efferatezza:

<…> smontato, con un coltello il petto del Guardastagno aprì e con le proprie mani il cuore gli trasse, e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, comandò a uno dei suoi famigliari che nel portasse (IV 9, 566-567).

Poi, come già Tancredi di Salerno, la crudeltà diviene lucida follia:

<…> si fece chiamare il cuoco e gli disse: “Prenderai quel cuore di cinghiale e fa che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d’argento” (IV 9, 567).

Si siede a tavola con la moglie –già turbata perché il Guardastagno, atteso a cena, non era venuto-, “ma egli, per lo maleficio da lui commesso nel pensie- ro impedito, poco mangiò”. Così, quando il cuoco “gli mandò il manicaretto”, non ne toccò, mentre la moglie “ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa il mangiò tutto”.

Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l’ebbe man- giato, disse: “Donna. Chente v’è paruta questa vivanda?”. La donna rispose: “Monsignore, in buona fe’ ella m’è piaciuta molto”. “Se m’aiti Idio”, disse il cavaliere, “io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque”. La donna, udito questo, alquanto stette; poi disse: “Come? Che cosa è questa che voi m’avete fatta mangia- re?”. Il cavaliere rispose: “Quello che voi avete mangiato è stato veramente il cuore di messer Guglielmo Guardastagno, il quale voi come disleal femina tanto amavate; e sappiate di certo che egli è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io tornassi, del petto” (IV 9, 567-568).

Tancredi era stato meno truculento, forse perché più appassionato:

“Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una gran- de e bella coppa d’oro e messo in quello il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli

che quando gliele desse dicesse: “Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava” (IV 1, 483).

Ma le due donne –Ghismunda e la donna di Rossiglione- si mostrano ugualmente nobili e generose. Come la figlia di Tancredi aveva chiesto al padre di punire lei e non Guiscardo –“usa in me la tua crudeltà <…> sì co- me in prima cagion di questo peccato, se peccato è”-; così la donna dice al marito:

“Voi faceste quello che disleale e malvagio cavaliere dee fare; ché se io, non sforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese cavalie- re come messer Guglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada”. E levata in pie’, per una finestra, la quale dietro a lei era,

indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere. (IV 9, 568)75.

La tragedia è compiuta. Il gesto riparatore -come nelle novelle di Ghi- smunda (IV 1), di Lisabetta (IV 5), dell’Andreuola (IV 6), della Salvestra (IV 8)- sarà la sepoltura comune dei due amanti, a suggellare un amore che sem- bra non poter aver cittadinanza fra i viventi. Come i fratelli di Lisabetta, anche il Rossiglione se ne va lontano, uscendo dalla storia connotato per il suo folle livore senza dolore, senza gelosia e senza amore.

Nel documento RAGIONI D'AMORE. LE DONNE NEL DECAMERON (pagine 137-140)

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