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Altre declinazioni del concetto di ambiente in B76

CAPITOLO I: DA “AMBIENTE/ARTE” AI “PARAPADIGLIONI” (1976-2011)

1. B76: la “nuova” Biennale fra arte, ambiente e partecipazione sociale

1.4 Altre declinazioni del concetto di ambiente in B76

Nel Catalogo generale tutte le partecipazioni nazionali sono raccolte sotto il titolo “L'ambiente” e in molti Padiglioni vennero presentate delle opere a dimensione ambientale. Vanno ricordate, in particolar modo, le seguenti:

Padiglione Danimarca: Willy Orskov, Sculture pneumatiche (1976); Padiglione Francia: Alain Jacquet, Sette oggetti (1971-76);

Padiglione Germania Federale: Joseph Beuys, Fermata del tram (1975-76); Jochen Gerz, Le difficoltà del Centauro a smontare dal suo cavallo (1976); Reiner Ruthenbeck, Doorway (1976);

Padiglione Gran Bretagna: Richard Long, Stone sculpture (1976);

Padiglione Israele: Dani Karavan, Gerusalemme città della pace (1975-76).

Ma non c'erano solo i padiglioni nazionali. Come detto, l'Esposizione Internazionale si presentava come un articolato insieme di mostre storico-critiche, in cui “Spagna / avanguardia artistica e realtà sociale / 1936-1976” e “Ambiente-Arte” occupavano un posto centrale. Mettendo in risalto le modalità operative laboratoriali della nuova Biennale, non si diede solo spazio alla fotografia (“Man Ray, testimonianza attraverso la fotografia”), ma l'estensione dei campi disciplinari di applicazione andò molto oltre, aprendosi alle pratiche artistiche del design, dell'architettura e del disegno del territorio (tecniche tradizionali di definizione dell'ambiente fisico). Questa impostazione “allargata” era stata fortemente voluta da Gregotti per «predisporre i punti di una strategia della loro continuità futura e della loro praticabilità da parte del pubblico»91.

Nel campo del design vengono organizzate quattro mostre specifiche (“Il Werkbund – 1907, alle origini del design”, “Ettore Sottsass, un designer italiano”, “Cinque Graphic Designers”, “Le forme

del vetro”) per delineare come la ricerche del design, vettore specifico di comunicazione di massa, siano esemplari per lo studio della costituzione dell'ambiente circostante. Gregotti insiste su questo punto sottolineando che: «L'insieme degli oggetti che costituiscono, secondo complesse gerarchie, il nostro ambiente è stato studiato come sistema e per rapporto all'idea di consumo come “sistema di segni”»92.

Nello campo specifico dell'architettura, B76 presenta due importanti mostre (“Europa-America, centro storico-suburbio” e “Il razionalismo e l'architettura in Italia durante il fascismo”) che stanno, chiaramente, particolarmente a cuore all'architetto Gregotti: «La specificità del sito, la costruzione del luogo come cosa, l'abitare come essere dell'uomo sulla terra, che ne sono i fondamenti disciplinari, pongono l'architettura in una posizione indispensabile rispetto alla costituzione e alla definizione dell'ambiente circostante»93. Nonostante gli scambi intensi di esperienze tra architettura e arti visive, la loro convivenza non era per niente scontata, in primis per il fatto che una mostra di architettura presentava l'ovvio problema dell'assenza dell'oggetto reale e la sua necessaria restituzione indiretta (progetto o riproduzione). Questa difficile convivenza è testimoniata dalle parole di Franco Raggi, organizzatore della mostra “Europa-America, centro storico-suburbio”: «La presenza dell'architettura in una mostra di “arti visive” è, insieme, impropria e di diritto. Impropria perché l'architettura, oltre a possedere una forma di produzione ed un circuito di distribuzione e di consumo indipendenti, si esprime in una situazione economica e tecnica così complessa che la riduzione all'unità dell'opera rende necessario un tramite: il progetto. Di diritto perché l'unità, tanto dell'opera che del progetto, è innanzitutto unità morfologica, di figura, nei confronti della quale ogni altro aspetto stilistico, ideologico, tecnico, estetico è solo di volta in volta un'angolazione interpretativa»94. Comunque sia, nello specifico dell'architettura, la mostra di Raggi, ospitata ai Magazzini del Sale alle Zattere (31 luglio – 10 ottobre 1976), ebbe una particolare importanza per impostare in un contesto ufficiale un'analisi sulla nuova generazione di architetti “inquieti” rispetto ai maestri del Movimento Moderno. Accettando il confronto fra contesti geografici e storici differenti, la mostra costituì una sorta di primo bilancio dell'architettura degli anni Settanta, e individuò prospettive che si sarebbero sviluppate nel decennio successivo.

Chiudiamo con la mostra “Attualità internazionali '72-'76” che, non perfettamente in linea con il tema centrale, intendeva proseguire il compito informativo sull'arte attuale che la Biennale aveva da sempre avuto, colmando i quattro anni di assenza della manifestazione. Gregotti, rifacendosi alla concetto di “s-definizione” dell'arte di Harold Rosenberg95, prende la mostra come esempio

92 Ibidem. 93 Ivi, p. 12.

94 F. RAGGI, s. t., in Ambiente Partecipazione Strutture culturali, op. cit., vol. II, p. 237.

accettato delle contraddizioni insite nella forma della nuova Biennale parlando di «mostra ricca di ambiguità e contraddizioni, forse lacunosa o ridondante, ma colma di vitalità e di temi di discussione»96. Ma fra tutti gli eventi espositivo di B76 questo fu quello più massacrato dalla critica per il suo carattere troppo eterogeneo e confusionario. La mostra era ospitata negli ex Cantieri alla Giudecca e forse questo è l'unico chiaro legame con la tematica ambientale che faceva da sfondo a B76. Nonostante ciò, anche in questa mostra erano esposte delle interessanti opere di arte ambientale, come quelle di Per Kirkeby (senza titolo, 1976) e Alain Shields (Ohio Blue Tip, 1972- 74). Sotto la guida di Olle Granath, la selezione delle opere era stata affidata alla Commissione Arti Visive della Biennale: Eduardo Arroyo, Enrico Crispolti, Raffaele De Grada, Pontus Hulten, Tommaso Trini. Ognuno di loro aveva scritto un piccolo testo introduttivo nel Catalogo generale, che accompagnava quello del curatore. La lettura di questi testi uno di seguito all'altro dà ulteriore testimonianza dei diversi approcci metodologici che Ripa di Meana e Gregotti erano stati capaci di tenere insieme nella struttura “democratica” della Biennale del 1976, ma lascia trasparire anche quella troppa eterogeneità colta dai critici sulla stampa specializzata.

Per Granath, la mostra ha un carattere aperto ed eclettico in cui si possono individuare quattro gruppi di opere: 1) pittura pura e sensitiva; 2) arte metaforica e narrativa; 3) ricerca ambientale (intesa nel senso più ampio: ambiente come natura con le conseguenti implicazioni ecologiche, situazione socio-politica, tensioni psichiche che vengono a crearsi nell'ambiente quando l'ego si confronta con la società); 4) arte critica delle strutture e funzioni del linguaggio (con un “Live Forum” a cura di Trini). Il curatore sottolinea come la crisi del modernismo può essere interpretata come una crescente consapevolezza critica sui limiti dei mezzi espressivi scelti e anche come tentativo di spostare e ampliare i limiti convenzionali dei mezzi espressivi stessi, poiché la scelta del mezzo di espressione viene decisa da ciò che dovrà essere espresso. Qui si esercita una critica continua del concetto dell'arte e di tutte le false premesse e delimitazioni che cercano con manipolazioni di far scomparire il vero significato del fatto artistico per l'ambiente circostante.

Arroyo insiste sul fatto che una mostra come questa eviti una concezione della cultura di tipo selettivo (la storia dell'arte è autonoma dalla storia reale). Anche De Grada ribadisce una posizione simile quando afferma che la mostra è il banco di prova di un criterio internazionale di valutazione, anche per l'opera della critica che deve appellarsi sempre al pubblico per far uscire il dibattito dall'ambiente chiuso degli esperti. Trini ci tiene a ribadire che il compito della mostra è quello di superare il momento tematico generale per offrire la varietà delle idee dell'arte attuale che hanno messo in crisi l'avanguardia come istituzione. Rimanendo focalizzato sulle opere esposte Hulten sottolinea come da alcuni anni l'arte non si occupa del prodotto finale ma del processo. E su questo

punto converge anche l'intervento più strutturato, quello di Crispolti, che delinea dei parametri interpretativi per la fenomenologia delle ricerche di quegli anni:

1) Ricerca convergente da “oltre il concettuale” e da “oltre lo strutturale”: superamento sia della privatività mentale dell'esercizio concettuale puro che dell'accettazione dell'evidenza oggettuale della pura stereometria elementare “primaria”. Dell'esperienza concettuale resta la capacità e volontà di controllo, resta la rastremazione dei mezzi e dei segni, ma è capovolto il traguardo, da impoverito ad arricchentesi, da meramente mentale alla riconquista del manuale e del sensibile. Per l'esperienza strutturale, invece, il segno e la forma non sono più assoluti ma relativi (non più un tutto quasi metafisico e impenetrabile, ma uno strumento operativo, un mezzo con il quale agire nello spazio, commisurarlo, qualificarlo, identificarlo). La forma non è mentale e distante ma nasce in un processo che converge in un circuito che collude direttamente realtà e progettazione, momento oggettuale e momento mentale, manualità e idea: il concettuale è una polarità, lo strutturale è uno strumento e il circuito si chiude sul fare concreto non più cieco, ma che interroga continuamente se stesso.

2) Utilizzazione eterodossa di media diversi: superamento dell'uso del mezzo feticizzato per tale (“extra media”: usare il mezzo in valore del tutto relativo e circostanziale; è l'urgenza del momento comunicativo che determina occasionalmente la scelta del mezzo).

3) Nuovo valore paradigmatico della dimensione processuale: l'opera non sussiste più nella sua unicità, si pluralizza in una dimensione molteplice, sfugge la dimensione contemplativa per farsi esperienza in atto (il tempo stesso si fa reale, tempo del fare, dell'accadere).