• Non ci sono risultati.

6. Stato dell'arte (installativa): i primi anni Duemila – interesse “debate specific”

6.3 Bishop: l'installazione come esperienza (2005)

importante per una storia generale dell'installazione87. Come, però, si evince subito dal sottotitolo, non si tratta di una semplice raccolta antologica ma di una “storia critica”. In che senso? La Bishop, riprendendo il concetto già espresso dalla Reiss, dichiara fin dall'introduzione che un'installazione artistica, per essere definita tale, ha sempre bisogno di un pubblico che entri fisicamente nell'opera per farne esperienza; quindi, una storia dell'installation art non può focalizzarsi solo sull'aspetto materiale delle opere ma deve dipanarsi attraverso la categorizzazione delle esperienze che ogni opera del genere fornisce allo spettatore. Per fare questo non basta esplorare le metodologie di lavoro degli artisti ma c'è bisogno di inserirle nel contesto teorico-critico in cui sono nate: in questo modo si capisce che non esiste una e una sola storia dell'installazione, ma che lo sviluppo di questo tipo di arte è andato avanti, e spesso procede ancora, su vari binari paralleli.

Anche questa pubblicazione parte da un'analisi dell'uso della definizione “installation art”, distinguendola dalla nozione di “installation of art”: «An installation of art is secondary in importance to the individual works it contains, while in a work of installation art, the space, and the ensemble of elements within it, are regarded in their entirety as a singular entity. Installation art creates a situation into which the viewer physically enters, and insists that you regard this as a singular totality» (p. 6). La presenza fisica dello spettatore nello spazio dell'opera differenzia l'installazione dagli altri media artistici: «Installation art presupposes an embodied viewer whose sense of touch, smell and sound are as heightened as their sense of vision. This insistence on the literal presence of the viewer is arguably the key characteristic of installation art» (p. 6). Lo spettatore è dunque il soggetto di questa esperienza “attiva” ma allo stesso tempo “decentrante” e i capitoli del libro sono organizzati «around four modalities of experience that installation art structures for the viewer – each of which implies a different model of the subject, and each of which results in a distinctive type of work» (p. 8)88.

The dream scene: il soggetto psicologico

Le “installazioni totali” di Ilya Kabakov, che presentano un scena narrativa e immersiva di cui lo spettatore è il centro, rappresentano un modello di viewing experience per cui lo spettatore è immerso in uno spazio a tre dimensioni non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico. È possibile vedere un'analogia fra questo tipo di esperienza e quella del sogno. Ne L'interpretazione dei sogni (1900), Sigmund Freud spiega come le tre caratteristiche principali del sogno sono l'immediatezza sensoriale della percezione cosciente, una struttura composita e il chiarimento del significato attraverso la libera associazione. Queste caratteristiche corrispondono precisamente al

87 C. BISHOP, Installation art: A Critical History, Tate Publishing, London, 2005.

88 Questa nozione di “decentramento” dimostra il debito della Bishop verso le teorie filosofiche post-strutturaliste,

modello di viewing experience proposto dalle “installazioni totali” di Kabakov.

Il prototipo di queste dream scenes è nelle Esposizioni Surrealiste, come quella del 1938 a Parigi, in cui si può notare una particolare attenzione ideologica all'allestimento (ideological hang) di tutte le opere, non solo per quanto riguarda i 1200 sacchi di carbone che Marcel Duchamp aveva appeso al soffitto: «The “dream scene” of the 1938 Surrealist Exhibition can be seen as a similar attempt to present the viewer with a psycologically charged encounter in order to rupture and destabilise conventional patterns of thought» (p. 22).

Risalendo il Novecento, lo sviluppo di questo tipo di approccio si ritrova negli environments di Allan Kaprow, dove l'artista materializza il suo desiderio di immediatezza in un ambiente in cui lo spettatore è un elemento attivo della composizione: «This “authentic” revelation of the subject through the immediacy of first-hand experience was to become a recurrent theme in the rise of installation art in the 1960s» (p. 26). Se in campo artistico i riferimenti di Kaprow si possono ritrovare in John Cage e Jackson Pollock, in campo filosofico il suo approccio è influenzato dalle teorie pragmatiste di John Dewey (Art as Experience, 1934). La scelta di utilizzare oggetti reali, piuttosto che rappresentati, ritorna anche nelle installazioni di altri artisti dell'epoca come Claes Oldenburg, Lucas Samaras, Ed Kienholz e George Segal. Anche se negli anni Sessanta a dominare la scena artistica statunitense c'è il minimalismo, è possibile trovare installazioni particolari come quelle di Paul Thek in cui il movimento dello spettatore nell'installazione si combina con una iconografia simbolica, influenzata anche dall'opera di Joseph Beuys: «Referring to his installation as “processions”, Thek alluded both to the ritualistic and social quality of the viewer's movement through the work, and to the fact that each piece was constantly “in process”» (p. 28).

Con il 1968, l'installazione assume una nuova importanza dal punto di vista politico: «Context became a crucial consideration in addressing art's relationship to the market and museum infrastructure, and installation art was but one of many forms that emerged as a result. Married to the physical architecture of a given space for a specific duration, works of installation art were dependent on the context in which were shown and were therefore difficult – if not impossible – to sell. Moreover, context-dependency redirected meaning away from the individual author and onto the work's reception: the specific circumstances in which it was experienced by a particular audience. The active nature of the viewer's role within such work, and the importance of their first- hand experience, came to regarded as an empowering alternative to the pacifying effects of mass media» (p. 32). Documenta 5 del 1972, esponendo un numero senza precedenti di installazioni, riflette questo nuovo tipo di approccio politico che si configura in una vera e propria critica istituzionale, come nelle opere di Daniel Buren o nel finto Musée d'Art Moderne (1972) di Marcel Broodthaers, che influenzerà le installazioni di Mark Dion negli anni Novanta.

Alcune installazioni, utilizzando un grande spazio che deve essere attraversato per essere visto nella sua totalità, offrono già l'opportunità di fornire più prospettive su una singola situazione. Una delle artiste che più hanno lavorato su questo carattere multi-prospettico e emancipatore dell'installazione è Mary Kelly: i suoi scritti sottolineano più volte la connessione che esiste fra una prospettiva unica e l'ideologia patriarcale, e le sue installazioni sfidano e sovvertono questa associazione, attraverso una rilettura psicanalitica dell'arte concettuale. Questo suo approccio è sviluppato da artiste femministe come Judy Chicago e Miriam Schapiro, la cui Womanhouse del 1972, mettendo in scena criticamente l'equazione simbolica fra spazio domestico e femminilità, sarà punto di riferimento per le installazioni di artiste come Louise Bourgeois, Mona Hatoum e Tracey Emin.

A partire dagli anni Ottanta, le più importanti mostre internazionali, come la Biennale di Venezia, si sono affidate all'installation art per proporre opere enormi e dal forte impatto visivo: «Much installation art of the 1980s is notable for its gigantic scale, and often involves an expansion of sculptural concerns to dominate a space, rather than a specific concern for the viewer's immersion in a giving environment» (p. 37). Ciò ha trasformato l'installazione da una pratica marginale a qualcosa di molto vicino al centro dell'attività museale, come aveva già sottolineato la Reiss. Cildo Meireles e Ann Hamilton hanno entrambi prodotto installazioni legate a questo clima di ambiziosa seduzione visiva, ma si distinguono per la specifica attenzione che pongono nei confronti dell'esperienza sensoriale dello spettatore: per il primo i materiali usati nelle installazioni sono delle allusioni metonimiche e simboliche, per la seconda, invece, devono cercare di indurre nello spettatore una catena individuale di reazioni associative: «The associational value of found materials – which had been used in the 1960s and the 1970s to connote “everyday life” (Kaprow), “low culture” (Oldenburg), or “nature” (Thek) – were by the 1980s harnessed for their sensuous immediacy, but as a way in which to subvert our ingrained responses to the dominant repertoire of cultural meanings» (p. 41).

Questa strategia trova origine nel Merzbau di Kurt Schwitters, un palinsesto di oggetti metonimici dalla forte valenza psicologica, che continua a influenzare il lavoro di artisti contemporanei come Christian Boltanski (Reserve 1990–) e, soprattutto, Gregor Schneider (Das Totes Haus Ur): «The Dead House Ur is an uneasy, uncanny space, not just because it demands our willing submission to its interiority, but because this is itself doubled – both within the house (its interred rooms, rubbish-logged crawl spaces, trapdoors and blind windows) and elsewhere (in its exhibited “limbs”)» (p. 44). Il lavoro di Mike Nelson è uno dei più rappresentativi per quanto riguarda l'installation art attuale ma ritorna ai valori originali degli anni sessanta: «its engagement with a specific site, its use of “poor” or found materials, and its critical stance towards both museum

institutions and the commercialisation of “experience” in general» (p. 44). Le sue installazioni, come The Coral Reef (2000), sono strutture complesse che integrano l'assorbimento psicologico e l'immersione fisica con una tematica narrativa di cui lo spettatore è protagonista.

Il capitolo si conclude con queste parole: «Yet because the installation seeks to trigger fantasies, individual memories or cultural associations in the viewer's mind, the simbolically charged “dream scene” provides the richest and most poignant model of comparison for our experience of these works. The use of found materials, whose worn patina bears the indexical trace of previous ownership, is prevalent in this type and acts as a further trigger for reflection and free association. The highly subjective criticism that circles around these often uneasy spaces, and the artists' insistence on our first-hand experience of them, reinforces this emphasis on a psychologistic mode of interpretation. Perhaps most important, the key idea that emerges in writing on this work is that traditional single-point perspective is overturned by installation art's provision of plural and fragmented vistas: as a result, our hierarchical and centred relation to the work of art (and to ourselves) is undermined and destabilised» (p. 47).

Heightened perception: il soggetto fenomenologico

Le installazioni di Carsten Höller, come Lichtwand (2000), sono dispositivi che, introducendo alterazioni nella stabile coscienza della vita quotidiana, dislocano e disorientano lo spettatore e, quindi, senza la sua diretta partecipazione risultano incomplete: «Perception is understood to be something mutable and slippery: not the function of a detached gaze upon the world from a centred consciousness, but integral to the entire body and nervous system, a function that can be wrong- footed at a moment's notice. […] Although at times the viewer may feel like a laboratory rat in this work, Höller aims less to prescribe a particular outcome or gather data (as in a scientific experiment) than to provide a playful arena for unique perceptual discoveries» (p. 48).

È negli anni Sessanta che iniziano a emergere opere di questo tipo all'interno del filone della scultura minimalista americana e sotto l'influenza della fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty89. Per il filosofo francese soggetto e oggetto non sono entità separate ma reciprocamente interdipendenti (l'oggetto percepito e il soggetto percepente sono due sistemi intrecciati), e la percezione non è solo una questione legata alla visione ma coinvolge interamente il corpo (l'interrelazione fra me e il mondo è dovuta a percezioni corporee). Queste teorie ebbero enorme risonanza all'interno della ricerca di alcuni artisti minimalisti come Robert Morris, Donald Judd e

89 Influenza convalidata anche dagli studi di Rosalind Krauss sulla scultura minimalista riportati nel già citato

Passages in Modern Sculpture (1977). Vedremo più avanti come, fra anni Cinquanta e anni Settanta, la filosofia fenomenologica (Husserl, Merleau-Ponty, ma anche alcuni scritti dell'ultimo Heidegger) influenzerà non solo il lavoro degli artisti ma anche quello degli architetti.

Carl Andre che costituirono un crocevia fra la tradizione della scultura e l'installation art, anche se un importante precursore del Minimalismo può essere già considerato El Lissitzky per il suo uso non simbolico ma letterale dei materiali all'interno dell'ambiente, come nella Stanza dei Proun del 1923.

Il critico Michael Fried già nel suo saggio del 1967 Art and Objecthood parlava di “theatricality” notando la connessione di questo tipo di opere con il teatro, piuttosto che con la scultura, per il fatto che esse condividevano il loro spazio (basato sull'ambiente contestuale) e il loro tempo (basato sulla durata) con quello degli spettatori. E anche la Krauss aveva insistito sul fatto che la scultura minimalista, come la successiva Land Art, fosse modellata sul pubblico, sullo spazio culturale piuttosto che sullo spazio privato della psicologia: «By stressing the interdependence of work of art and viewer, Krauss showed that Minimalist work pointed towards a new model of the subject as “decentred”. […] Her argument reflects the way in which Merlau-Ponty's ideas about the interdependency of subject and object came increasingly to perspectivalism implicit in installation art comes to be equated with an emancipatory liberal politics and an opposition to the “psychological rigidity” of seeing things from one fixed point of view» (p. 54). Ma gli artisti legati al minimalismo, seppur consapevoli dell'importanza della componente spaziale nelle loro opere, non consideravano quest'ultime delle installazioni o, come erano chiamate a quel tempo, “ambienti”: eliminando la componente psicologica, essi volevano staccarsi dalla narrazione e dall'emotività delle mise-en-scène precedenti (Oldenburg, Kaprow, Kienholz, Segal), ancora legate all'eredità dell'Espressionismo Astratto, per arrivare all'estetica del “what you see is what you see”, secondo le parole di Frank Stella. Comunque sia, già i critici dell'epoca come la Lippard, notarono in questi lavori e nei loro allestimenti una consapevolezza spaziale tale da poterli considerare una sorta di ambienti, poiché l'attenzione dello spettatore non era più focalizzata sulla singola opera ma sulla relazione fra le varie opere e fra queste e lo spazio.

Con l'incremento dell'importanza degli installation shots fotografici delle mostre (per opere realizzate in situ) anche l'uso del termine “installazione” si sviluppò per tutti gli anni Sessanta, iniziando a cambiare di significato, fino alla svolta della successiva generazione di artisti della West Coast degli Stati Uniti (Robert Irwin, James Turrell, Doug Wheeler, Bruce Nauman, Maria Nordman, Larry Bell e Michael Asher) che raccolse la sfida del minimalismo focalizzando l'attenzione più sul carattere effimero dell'esperienza sensoriale dello spettatore che sull'oggettività dell'opera. La definizione “Light and Space” fu coniata per sottolineare la predilezione di questi artisti per ambienti vuoti in cui la percezione dello spettatore di fenomeni sensoriali contingenti (luce, suono, temperatura) diventava il contenuto dell'opera: queste installazioni offrivano allo spettatore le condizioni per meditare sulla natura contingente e contestuale della propria percezione

sensoriale in relazione all'ambiente circostante. Le installazioni site-determined di Irwin sono paradigmatiche di questa risposta smaterializzata alla percezione fenomenologica poiché permettono allo spettatore di “percepire se stesso che percepisce”90. La maggiore consapevolezza dello spettatore, grazie alla sua inclusione nell'opera, rappresenta per Irwin una responsabilità etica, ma ciò non è da intendere con un accento politico: egli vuole aprire gli occhi dello spettatore rispetto al potenziale estetico del quotidiano e questa esperienza non può essere mai predeterminata dal punto di vista sociale e culturale. Le installazioni di Michael Asher sono molto vicine dal punto di vista estetico rispetto a quelle di Irwin (spazi architettonici vuoti, bianchi, inabitati e apparentemente neutri) ma in esse, con il passare degli anni, risulta più marcata la critica al ruolo economico e politico dei luoghi di esposizione e l'indagine sui prerequisiti ideologici delle opere d'arte: «This uneasy use of phenomenological means for conceptual ends hints at some of the problems to be encountered by 1970s artists dealing with the legacy of Minimalism» (p. 59).

La ricezione di Merleau-Ponty fu decisamente diversa in Brasile, dove la fenomenologia fu introdotta nel contesto artistico già negli anni Quaranta dal critico d'arte Mário Pedrosa e influenzò il Concretismo (prima ondata dell'arte astratta brasiliana) degli anni Cinquanta. Con il successivo Neo-Concretismo le forme geometriche astratte vengono manipolate per creare situazioni ambientali che circondano e coinvolgono lo spettatore, come nei pannelli di Lygia Clark. Le opere ambientali di Hélio Oiticica (vd: Tropicália, 1967) hanno, invece, un referente sociale e politico diretto: l'architettura delle favelas e le comunità che in esse vivono. Nei suoi scritti risulta cruciale la percezione dello spettatore, l'interattività e l'esperienza dal vivo (vivências): a sostenere i suoi ambienti tattili e sensoriali c'è il desiderio di superare l'esperienza passiva dell'osservazione di opere d'arte a due dimensioni. Questa enfasi sulla partecipazione attiva del pubblico è da leggere anche alla luce della particolare situazione politica del Brasile, che dal 1964 era controllato da una dittatura militare, tanto che Oiticica sviluppò il termine “supra-sensorial” per delineare il potenziale emancipatore delle sue opere che potevano liberare l'individuo dalla sua condizione di oppressione. Ma dal 1968 la censura politica aumentò e gli artisti emigrarono: Lygia Clark a Parigi, Oiticica a New York, come anche Cildo Meireles. Comunque sia, i principi sulla percezione incarnata (embodied perception) di Merleau-Ponty continuano ancora oggi a influenzare gli artisti brasiliani che si occupano di installazioni ambientali come Ernesto Neto e Ana Maria Tavares.

Nell'arte “occidentale” degli anni Settanta questa influenza fu indirizzata verso finalità più concettuali, soprattutto dagli artisti performativi come Vito Acconci, nel cui lavoro convergono

90 Secondo la definizione “site-determined” l'opera è da intendere come una reazione rispetto a un sito. Questo è

diverso rispetto al “site-dominant” (opera creata in studio senza considerare la sua destinazione), al “site-adjusted” (opera commissionata per una particolare situazione ma ricollocabile) e al “site-specific” (opera creata direttamente in una sede specifica e che non può essere ricollocata).

installazione, performance e arte concettuale (vd. Seedbed, 1972). Nelle installazioni di Acconci è importante il ruolo attivo e consapevole dello spettatore, ma in una maniera leggermente diversa rispetto a Oiticica: per il brasiliano l'aumento “sensuale” della percezione era visto come una forma di resistenza alla legge, mentre per lo statunitense ciò doveva servire da incoraggiamento per una relazione attiva con la società in generale, secondo il suo celebre aforisma «I never wanted to be political; I wanted the work to be politics». Dalla metà degli anni Settanta Acconci crea installazioni in cui il pubblico è invitato a partecipare, assumendo esso stesso il ruolo del performer (come in Command Performance del 1974).

Acconci era consapevole del fatto che il minimalismo aveva aperto le porte alla percezione incarnata, ma questo “corpo” non aveva mai avuto caratterizzazioni di genere o sessuali, come nelle sue performance-installazioni, in cui le idee spaziali minimaliste si uniscono alla corporeità esplicita delle performer femminili. Questo perché nello stesso periodo la fenomenologia viene attaccata da una prospettiva femminista e post-strutturalista secondo cui un corpo che percepisce non può mai essere un'entità astratta e neutrale, ma è legato a differenziazioni di tipo sessuale, razziale, economico e culturale. Seppur lontano da questi punti di vista politici, anche il lavoro di Bruce Nauman propone uno sguardo differente sulle teorie di Merleau-Ponty poiché la percezione stessa si mostra frammentata e scissa dall'interno, come in Live-Taped Video Corridor, in cui è centrale l'uso della tecnologia video a circuito chiuso. Questo uso del video crea una tensione fra l'esperienza precedente e quella attuale dello spettatore: «Nauman's influential output suggests that the body, rather than being a unified repository of sensory perceptions, is in fact in conflict with itself. […] Rather than providing a plenitudinous experience of perception, Nauman fails to reassure us that we are a synthesised unity (and seems to relish our discomfort). The glitches and misrecognitions that take place in these corridors suggest that there might be a blind spot in perception that becomes apparent only when our looking is returned to us by a camera or a mirror» (pp. 69-70). In queste installazioni post-minimaliste ciò che viene messo in pratica non è solo un decentramento dello spettatore rispetto all'opera (come già avveniva in alcune opere minimaliste) ma un decentramento del suo stesso apparato percettivo. Qualcosa di simile era già stato espresso da Merleau-Ponty in Il