• Non ci sono risultati.

De Oliveira, Oxley e Petry II: l'installazione nel nuovo millennio (2003)

6. Stato dell'arte (installativa): i primi anni Duemila – interesse “debate specific”

6.1 De Oliveira, Oxley e Petry II: l'installazione nel nuovo millennio (2003)

De Oliveira, Oxley e Petry ritornano a distanza di nove anni sull'argomento del loro primo volume65. L'obiettivo del nuovo libro è quello di presentare le diverse pratiche che sono arrivate a ridefinire la categoria dell'installation art negli anni a cavallo del 2000, testimoniando la loro evoluzione mediale e il loro sviluppo globale al di là dei limiti imposti dalle categorie artistiche tradizionali.

Nella premessa del volume Jonathan Crary, riferendosi alle nuove strategie messe in atto nei processi di informazione sensoriale, sottolinea: «We are now in a material environment where earlier 20th-century models of spectatorship, contemplation and experience are inadequate for understanding the conditions of cultural creation and reception. […] It is within this generalized epistemological crisis that some of our most important contemporary artists, grouped here under the term “Installation art”, are rethinking the nature of research, challenging hegemonic uses of media and testing out new ways of assembling and presenting information» (pp. 6-7). Secondo Crary, per comprendere lo strano tipo di associazioni e dislocazioni che oggigiorno costituiscono la realtà soggettiva, divisa fra la condizione spaceless del mondo elettronico-tecnologico e il physical extensive terrain in cui si situano i nostri corpi, può essere d'aiuto proprio l'installation art, in cui «experience (and art) is constituted out of the paradoxes and discontinuities of this mixed heterogeneous zone» (p. 8). L'installation art offre una zona plurale di attività creativa perché propone modelli flessibili di narrazione in cui il campo percettivo rivela continuamente molteplici modalità di entrata e uscita, coinvolgendo sia centro che periferia. Ma nel fornire queste possibili contro-strategie spesso si rivelano anche le ambizioni utopiche dell'arte installativa: «It provides a rough outline of alternate forms of living, creating and thinking which might become hopeful

65 N. DE OLIVEIRA, N. OXLEY, M. PETRY, Installation Art in the New Millennium: The Empire of the Senses,

anticipations of a highly variegated but more egalitarian global future» (p. 8).

All'inizio dell'introduzione Nicolas de Oliveira racconta come, nella seconda metà degli anni Novanta, l'installazione abbia conquistato una posizione di rilievo nella cultura visuale contemporanea, passando da una posizione marginale a un mainstream status. Citando un articolo del 1993 della critica statunitense Roberta Smith (in cui si poteva leggere: «These days installation art seems to be everybody's favourite medium»66), de Oliveira sottolinea come in un decennio l'interesse rispetto all'installazione si sia spostato da quello medium specific a quello debate specific. Per sua natura l'installazione («a form of art that is not defined in terms of any traditional medium but in terms of the message it conveys by whatever means», p. 14) suggerisce un approccio critico più fluido e aperto, meno convenzionale, sulla scia delle modalità fiorite negli anni Ottanta in relazione al postmoderno. La stessa esperienza delle opere è spesso open-ended (come nelle installazioni dello statunitense Renée Green o del beninese Meschac Gaba) esemplificando in maniera emblematica lo spostamento d'attenzione dalla conoscenza oggettiva all'esperienza soggettiva, arrivando in alcuni casi (come per il già citato Ilya Kabakov o per la statunitense Ann Hamilton) alla creazione di veri e propri spazi teatrali, ambienti completamente immersivi in cui, con l'abolizione dell'arco di proscenio, la tradizionale divisione fra attori e pubblico non risulta più netta: «The “theatricality” of the work, once seen as a weakness because of the reliance on entertaining the audience, has become a virtue» (p. 18)67.

Ma la teatralità non è l'unica idea su cui si basa l'installation art del nuovo millennio: ad esempio Double Blind, la labirintica installazione che lo spagnolo Juan Muñoz ha presentato alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra nel 2001, rimuove volontariamente la possibilità di una singola prospettiva da parte di un osservatore statico. Questa idea di spazio “multiplo” è sviluppata anche da tutte quelle installazioni che iniziano a utilizzare i telematic media: «This term is used to describe the range of new tele-technologies that enable us to instantaneously and simultaneously transmit sound and vision to any number of locations. This simultaneity has a disorienting impact on our experience of space and time and has become an important issue in the development of Installation» (p. 21). La diffusione delle tecnologie digitali ha offerto nuovi strumenti per gli artisti, trasformando i PC in veri e propri studi virtuali: in linea con le teorie di Bourriaud si può affermare che l'attività dell'artista assomiglia sempre di più a quella del programmatore o del DJ68. Ma la condizione immersiva di molte installazioni deriva anche dal cinema: «Therefore, in spite of the proliferation of home entertainment, the resurgence of cinema-going since the 1980s reveals a continuing desire for

66 R. SMITH, “Installation Art, a bit of the Spoiled Brat”, New York Times, 3 gennaio 1993.

67 Il riferimento diretto per De Oliveira è l'articolo del curatore statunitense Robert Storr “No Stage, No Actors, But it's

Theatre (and Art)”, New York Times, 28 novembre 1999.

68 Cfr. N. BOURRIAUD, Postproduction (2002), trad. it. Postproduction. Come l'arte riprogramma il mondo,

immersion in a communal activity with repetitive conditions» (p. 23). L'esperienza del film (la sua condizione di visione, la sua sequenza narrativa e il suo utilizzo dello spazio rappresentato) viene decostruita fino ad arrivare a una condizione perturbante, come, ad esempio, in Der Sandmann del canadese Stan Douglas (1994-97) ma anche nelle installazioni della britannica Sam Taylor-Wood e dello svizzero Ugo Rondinone: «Artists are using the physical apparatus of film-making, the language of cinematography and the subject matter of filmic narrative as a means of exploring the conditions of viewing when film is taken out of the cinema and installed in the gallery context» (p. 26). Dunque, in pochi anni, la definizione di installation art si espande fino a descrivere un gran numero di discipline in relazione fra loro attraverso una vasta gamma di media (intervento, interazione, interior art, ambiente, evento, progetto, ecc...). Le opere dello statunitense Matthew Barney, a metà fra cinema, installazione, teatro e scenografia, sono emblematiche di questa confusione di confini fra le discipline: «The practice of Installation, then, is increasingly characterized by its multifariousness and polyphony. […] Installation is seen to be moving from a position of homogeneity to one that stresses its heterogeneous nature» (p. 28).

Non più necessariamente legati alla site-specificity i progetti per le installazioni (sia in spazio pubblico che privato) si sono fatti più mobili e flessibili, configurando spazi dialettici negoziati dagli artisti durante il processo di realizzazione nella location designata (come fa lo svizzero Thomas Hirschhorn). In questi casi il sito si struttura in maniera (inter)testuale, sviluppando una tendenza nomadica per cui l'artista lavora con un ruolo più simile a quello della guida turistica e dell'archivista o, per dirla con Forster, dell'etnografo69. Si tratta in questo caso di un passaggio che supera il concetto di site-specific per approdare prima al site-oriented70 e, infine, al functional site71. Nel primo caso si vuole sottolineare come «a place is not about fixity, nor the extraction of a definite meaning from a site» (p. 29), nel secondo si rimane su questa scia ma specificando che un “sito funzionale” «is a process, an operation occurring between sites, a mapping of institutional and discursive filiations and the bodies that move between them (the artist's above all). It's an informational site, a locus of overlap of text, photographs, and video recordings, physical places and things. It is a temporary thing; a movement; a chain of meanings devoide of a particular focus» (p. 31).

Così interpretato, lo spazio pubblico diventa terreno d'incontro fra arte pubblica monumentale e installazioni temporanee, contribuendo alla crescita del cosiddetto “urbanismo rigenerativo”. Questi

69 Il sesto capitolo de Il ritorno del reale è intitolato appunto “L'artista come etnografo”.

70 Cfr. M. KWON, One Place after Another. Site-Specific Art and Locational Identity, The MIT Press, Cambridge

(Mass.), 2002.

71 Cfr. J. MAYER, The Functional Site or The Transformation of Site Specificity, in E. SUDERBURG (a cura di),

progetti di new genre pubblic art, come li definisce Suzanne Lacy72, offrono una significativa alternativa alle restrizioni imposte dai tradizionali spazi espositivi, ma devono anche scontrarsi con le imposizioni dettate dalle autorità locali che commissionano i lavori. Se è vero che l'internazionalizzazione del mercato dell'arte contrasta con questo movimento dalla galleria alla città, è altresì vero che in molte installazioni create appositamente per il contenitore museale è più facile notare una riscoperta della soggettività dell'artista e dello spettatore: «In this instance, both models – public space and museum – are replaced by privacy and introspection» (p. 34). I modelli di spazio soggettivo, in cui lo spazio reale si confronta con un concetto ideale, si sviluppano per tutto il Novecento (a partire dagli esempi storici di Piet Mondrian, Kurt Schwitters e Marcel Duchamp, fino alle definizioni di Brian O'Doherty73) e hanno una grande influenza per lo sviluppo dell'installazione ambientale che va a marcare sempre più la differenza fra spazio rappresentato e spazio esperito (experienced space). Si vedano, per esempio, The King's Part (1991) del canadese Rodney Graham e A House for Pigs and People (1997) dei tedeschi Carsten Höller e Rosemarie Trockel: «Each of these two examples presents a particular model which questions the viewer's perception of their own presence. The viewer's sensation is heightened by the artwork's ability to propose an altered relationship between the individual and their social environment (Höller/Trockel) and the actual bodily experience through the muting of sound (Graham). In each case the model creates artificial conditions and provides an environment separate from the external world. At the same time, it is functioning environment which offers a parallel experience in real time» (pp. 36- 37).

Alcune installazioni sono pensate appositamante per restare alla scala dei modellini (come quelle del belga Hans Op de Beek). Questi modellini, seppur differenti da quelli funzionali usati in architettura, offrono spazi a scala ridotta in cui la fruizione dello spettatore si concentra esclusivamente sull'esperienza visiva e immaginativa per poter accedere all'interno dell'opera: «The space of the installation need not be entered to be perceived and enjoyed» (pp. 37-38). Lo spazio esperienziale è ulteriormente messo alla prova dallo sviluppo della realtà virtuale, come già anticipato da Nicholas Negroponte nel suo libro Being Digital74. Con i loro ambienti simulati e paralleli, basati sia su immagini del mondo reale che su realtà immaginate, queste tecnologie sono

72 S. LACY, Mapping the Terrain: New Genre Public Art, Bay Press, Seattle, 1995.

73 Il nome dell'artista e critico statunitense Brian O'Doherty ritorna anche nelle pubblicazioni di Rosenthal e Bishop,

per il suo fondamentale saggio Inside the white cube pubblicato in tre parti (fra marzo e novembre 1976) su “Artforum”. Qui O'Doherty afferma che nello spazio “irreale” della galleria d'arte, che non cambia mai poiché l'esterno non vi penetra, il bianco delle pareti avvolge l'opera fino a farle assumere un valore assoluto e lo spettatore diventa soltanto occhio. Il saggio è stato poi ripubblicato in un libro, con l'aggiunta di un nuovo articolo pubblicato anch'esso su Artforum nel 1981 (The gallery as a gesture): B. O'DOHERTY, Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Space (1986) trad. it. Inside the White Cube. L'ideologia dello spazio espositivo, Johan & Levi, Milano, 2012.

diventate parte integrante dell'installation art, presentando delle vere e proprie “eterotipie”, per dirla con Michel Foucault: «These “techniques” have been integrated into their work by artists, often highlighting the artificiality of the medium» (p. 40). Simulazioni di un altrove, queste installazioni possono anche presentare entrambi i modelli, sia quello in scala ridotta che quello virtuale, come in The bedroom in which I still wake up (1996-2002) dell'olandese Frank Halmans, una delle sue installazioni in maniatura: «Their attraction resides in the facts that the viewer is confronted with simultaneous sites: the visible simulation and its real counterpart» (p. 42). Chiave di lettura di questo tipo di opere sono le riflessioni di Gilles Deleuze sui concetti di reale e di copia, poiché il virtuale può essere considerato una pre-condizione del reale.

Tutti questi tipi di installazioni hanno modificato, di conseguenza, anche le modalità espositive: «As new forms of Installation move into the mainstream, questions of value are inevitably raised and addressed. Museums, commercial galleries and collectors have been instrumental in this change. Since more Installation art has found its way into large-scale exhibitions and, subsequently, into major collections, the relationship between the artist, the curator and the collector has been altered. While questioning exhibition practices, Installation has been central in changing the display and collection activity of institutions» (p. 44). L'installazione odierna, pur rimanendo legata all'idea di interazione con il pubblico, vi combina un approccio sensibile all'allestimento, mettendo sempre più in questione la sua natura e i suoi contenuti: «Interaction is then not simply an opportunity to ensure the audience's participation, but instead suggests a creative engagement with the content of the artwork which directly impacts on the evaluation of the museum itself. These developments and discussions are well under way in many contemporary institutions and have introduced new forms of display» (p. 46). Sempre più spesso, si dà più importanza a come un'opera viene esposta piuttosto che all'oggetto in sé che l'opera costituisce. Questa problematica è stata sollevata da Hans-Ulrich Obrist nei termini di una necessaria distinzione fra oggetto e life-works75: «Although objects provide the backbone of the institution, it is arguable that new forms will continue to be added to collections which challenge the format and direction of the museum» (p. 45). Riferendosi all'opera Break Down del britannico Michael Landy, de Oliveira conclude così la sua introduzione al volume: «It is arguable that Installation art, with its shift in emphasis from site to open-ended projects, leads to a “belonging-in-transience” for artists, a state that is neither dependent on lasting objects nor on fixed locations. Accordingly, Michael Landy's installation proposes the wholesale removal of the object: the destruction of the belongings that make up the artist's material life presents a vast installation as a process culminating in dust» (p. 47)76.

75 Cfr. H. U. OBRIST, Kraftwerk, Time Sorage, Laboratory, in G. WADE (a cura di), Curating in the 21st Century, New Art Gallery, Walsall, 2000, pp. 45-60.

Escape: l'installazione immersiva

L'esperienza di un'installazione a carattere immersivo è mediata necessariamente dal corpo e può essere descritta come una mescolanza fra piacere sensoriale e piacere narcisistico che viene offerta allo spettatore. Lo sviluppo di spazi ermetici riflette, dunque, un desiderio di piacere sensuale, fornendo allo spettatore un'“opera totale” che lo sommerge fino a fargli perdere l'orientamento. Questo tipo di lessico è espressamente derivato da quello utilizzato da Jameson nei suoi studi sul postmoderno, e in questo stato di confusione il pubblico torna a fare affidamento sulle proprie sensazioni soggettive che, spesso, sono così preponderanti da prendere il posto dell'oggetto d'arte tradizionale: «The “immersive mode”, referred to above, has become a key condition fo viewing: it appears to indicate a withdrawal into the self, to a place of bodily sensation. It allows artists to propose an escape from perceived reality which no longer offers stable boundaries. […] The way we think about space is therefore wholly experiental and is reliant on a series of stimuli, which renders our perception of it much more fluid and transient» (pp. 49-50).

In questa forma di discontinuità e incertezza, la percezione spaziale si accomuna alle riflessioni sui “non-luoghi” e, non a caso, il capitolo si apre con una citazione di Augé. Ma nell'installazione immersiva questo senso di rimozione (displacement) non porta a un desiderio di fuga verso l'esterno, ma a un desiderio di fuga in sé stessi con una forma di contemplazione individuale o collettiva che, passando attraverso le sensazioni corporee, trasporta lo spettatore lontano dalla sua condizione quotidiana: «The notion of immersiveness indicates the broadening of references and attitudes towards space and its relation to the spectator's body» (p. 51).

Alcune opere si mostrano come veri e propri ambienti che funzionano contemporaneamente sia come punti focali dell'attenzione dello spettatore che come luoghi d'incontro, cambiando gli atteggiamenti e le aspettative del pubblico. D'altronde, non è un caso che in molte installazioni si possa scorgere una connessione con la club culture: «The ambiance in clubs is at once introspective, immersive and social; these spaces provide compelling examples of human activity which may cross over into the production and reception of art» (p. 51). Altre connessioni si possono istituire anche con la lifestyle culture, il design e la musica, nonché con la vera e propria architettura, come nel caso del già citato Blur: «Diller+Scofido made use of extensive sensory stimuli to immerse their audiences in environments that fostered sociability through shared experience» (p. 52). Le radici di molte opere possono anche essere trovate nelle sperimentazioni degli artisti minimalisti sulle

Van der Pool, Barbara Kruger, Blast Theory, Stefan Brüggemann, Wendy Bornholdt, Alexandra Ranner, Carl von Weiler, Bruce Gilbert, Sarah Sze, Olav Westphalen, Spencer Tunick, Keith Wilson, Janet Cardiff, Snøhetta, Alexander Brodsky, Sven Påhlsson, Micha Ullman, Chris Burden, Francesc Torres, Steven Pippin, Monica Bonvicini, Maurice van Tellingen, Martin Dörbaum, Paul Noble.

nozioni di “sito” e “non sito” ma senza più alcun carattere critico rispetto al sistema espositivo: «Yet, a crucial change in current artists' attitudes has emerged: no critique of the exhibition system is intended, instead, the focus rests with the viewer as a sentient body» (p. 53).

In conclusione: «The immersive space remains fundamentally an experiental and sentient place, though it is also a means of escaping our everyday conditions. Often departing from the artist's body, needs and imagination it succeeds in disconnecting the spectators from their everyday surroundings and transporting them to a place of contemplation» (p. 53)77.

Author and institution: l'installazione “da museo”

A partire dagli anni Sessanta è cresciuta l'importanza della relazione fra l'opera d'arte e il luogo in cui viene esposta, in special modo se si tratta di un luogo istituzionale, come può essere un museo, verso il cui potere accentratore l'artista può instaurare un atteggiamento di resistenza critica. Gli artisti possono, dunque, decidere di realizzare spazi alternativi al tradizionale “white cube” definito da O'Doherty, ma devono comunque lasciare traccia nel mondo dell'arte delle loro realizzazioni temporanee (ecco l'importanza dei cataloghi e delle riproduzioni fotografiche). Inoltre, «though alternative display spaces have been instrumental in the presentation of new and challenging works, their strategies have also been adopted by mainstream galleries» (p. 78). Proprio per la loro crescente complessità, sempre più spesso la realizzazione delle installazioni richiede l'assistenza dei musei, per risolvere questioni pratiche, amministrative ed economiche: «Although artists acknowledge the importance of the gallery space as a means of disseminating their work, the idea of fusing the exhibition with the concept of the gallery has gained ground. In so doing, Installation artists are able to circumvent the agenda of the institution, albeit by appropriating its language and organizational structures» (p. 78). Risultato di questa serie di collaborazioni è la creazione di una piattaforma di discussione sul senso dei progetti e delle istituzioni che li ospitano. Citando un concetto caro alla curatrice svedese Maria Lind78, si afferma che «the institution is not dismissed or rejected by these projects, but is “problematised”» (p. 79).

L'installazione diventa così un esperimento flessibile e open-ended che trasforma l'istituzione artistica in un laboratorio culturale, come suggerito in varie occasioni già da Obrist. Questo tipo di pratica laboratoriale è stata sperimentata anche nelle pubblicazioni in cui questi progetti sono stati riprodotti: «The key difference between the traditional catalogue and these examples, is that the

77 Altri artisti citati nel capitolo (con opere riprodotte) sono Børre Sæthre, Andrea Zittel, Gregor Schneider, Lee Bul,