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CAPITOLO I: DA “AMBIENTE/ARTE” AI “PARAPADIGLIONI” (1976-2011)

1. B76: la “nuova” Biennale fra arte, ambiente e partecipazione sociale

1.3 Crispolti e l'“ambiente come sociale”

Abbiamo già detto che per la mostra da organizzare nel Padiglione Italia vengono scelti come commissari delegati Enrico Crispolti e Raffaele De Grada. L'idea è quella di rispondere al tema progettuale di B76 presentando un'ampia documentazione di azioni di arte partecipata svoltesi in Italia negli anni immediatamente precedenti alla Biennale fornendo così «il quadro fenomenologico di queste proiezioni dell'operatore culturale, e visivo in particolare, nel contesto sociale, in un'esperienza cioè al di fuori dei termini canonici del consumo dell'arte: artista – oggetto estetico – galleria d'arte privata o museo – fruitore/collezionista»80.

La decisione di operare un'indagine sulle esperienze sperimentali in Italia venne presa nel settembre 1975 ma il percorso che portò alla realizzazione della mostra fu molto travagliato per la difficile definizione del tema. La prima proposta di De Grada partiva dal concetto socio-politico di “habitat”, inteso come «luogo in cui si concretano anche espressivamente istanze di progresso

78 P. GREGORY, Teorie di architettura contemporanea. Percorsi del postmodernismo, Carocci, Roma, 2010, p. 33. 79 Cfr. R. IRWIN, The Hidden Structures of Art, in R. FERGUSON (a cura di), Robert Irwin [catalogo della mostra],

The Museum of Contemporary Art-Rizzoli International, Los Angeles-New York, 1993, pp. 13-47.

sociale, politico e materiale»81. Questa nozione fu ampliata da Crispolti con l'utilizzo della definizione “ambiente come sociale”, in una visione estesa a molteplici tipologie di esperienze partecipate in cui l'artista si faceva “co-operatore”. A tal proposito, non sembra difficile ipotizzare che l'idea di dedicarsi al concetto di “ambiente come sociale” sia sorta anche sotto l'influenza della mostra “Avanguardia e cultura popolare”, organizzata da Giovanni Maria Accame e Carlo Guenzi alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna fra maggio e giugno del 197582.

Secondo Crispolti, l'“ambiente come sociale” può svilupparsi sia in ambito urbano che extra- urbano: «Intendere il tema dell'ambiente in quanto “ambiente come sociale” significa dunque voler caratterizzare la partecipazione italiana in questa Biennale in senso molto attuale e progressivo, e strettamente rispondente alla problematica di una condizione storica attuale del nostro paese»83. Questa modalità operativa rappresenta sempre un momento di forte partecipazione decisionale di base e di spinta decentrificante, in cui l'operatore culturale diviene, come detto, “co-operatore”; ovverosia, un provocatore di autocoscienza culturale altrui. Questa cosciente partecipazione del pubblico provoca un decentramento sia dal punto di vista territoriale che nell'ambito specifico dell'arte, attivando un dialogo che non è sentito come un dominio culturale e una partecipazione che non è vissuta come una colonizzazione84. In queste pratiche Crispolti vede un superamento sia delle avanguardie che delle neo-avanguardie perché, alla ricerca di un linguaggio più puro e elitario, si è dato «il diverso e concreto indirizzo di un'immediata corrispondenza e verificabilità sociale»85. La ricerca artistica si trasforma in ricerca sociale e in questa operazione l'arte non prescinde dal suo specifico ma ne amplia i confini.

Supportato da queste basi teoriche, il materiale della mostra era ordinato in cinque sezioni

81 ASAC, b. 4311 – fascicolo “Convegni”: Convegno internazionale dei rappresentanti dei paesi partecipanti alla

Biennale 1976, foglio 2. Questa tematica è dunque ancora valida alla data di questo incontro (9-10 gennaio 1976), ma viene poi sostituita dall'“ambiente come sociale”. Residui di questa prima idea si possono ancora notare nel testo di De Grada che compare come introduzione, subito dopo quella di Crispolti, alla mostra nel Catalogo generale di B76. In questo contributo, intitolato Per una mostra dell'«ambiente» (vol. I, p.109), possiamo leggere: «In Italia l'“ambiente” si è trasformato negli ultimi anni non soltanto perché si è completato il passaggio dalla struttura agrario-industriale in quella di un paese di grande industria […], ma anche perché le masse popolari hanno assunto in spazi sempre più vasti (p.es. le grandi città come Milano) la direzione del processo di trasformazione, in cui erano rimaste in posizione subalterna». In questi nuovi “habitat” è cresciuto, secondo De Grada, il bisogno di tradurre la meccanica dello scontro sociale anche in una dimensione estetica, spontanea e popolare. Rispetto a questo tema, ricordiamo che dal 27 maggio all'11 giugno 1976 si tenne a Vancouver la conferenza delle Nazioni Unite sugli insediamenti umani, dal titolo “Habitat”, a cui sia Gregotti che Ripa di Meana si erano interessati.

82 Per una prima ricognizione sugli eventi artistico-sociali in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta rimando a: C.

CHRISTOV-BAKARGIEV, Arte e ideologia, in F. ALFANO MIGLIETTI (a cura di), Arte in Italia 1960-1985, Milano, 1988, pp. 105-122.

83 E. CRISPOLTI, s. t., in Ambiente Partecipazione Strutture culturali, op. cit., vol. I, p. 106.

84 Crispolti ha continuato a ribadire questi concetti anche recentemente, poco prima della sua scomparsa, nel suo

intervento Fuori dalla storia dell'arte? Arti visive e partecipazione sociale tra Biennali e spazio urbano per la Giornata di studi a cura di Francesca Castellani e Emanuele Rinaldo Meschini “Lo scrittoio della Biennale (VII edizione). Biennale, Biennali. Politiche e identità tra globale e locale” (Università Ca' Foscari, Venezia, 18/05/2017).

secondo cinque aspetti problematici: 1) ipotesi e realtà di una presenza urbana conflittuale; 2) riappropriazione urbana individuale; 3) partecipazione spontanea (azione poetica e/o politica); 4) partecipazione in rapporto con o attraverso l'ente locale; 5) ipotesi di rapporto sociale attraverso l'ente statale (rapporto sociale a grande scala). Come spiega Sara Catenacci: «La natura stessa delle operazioni, per la maggior parte prive di un prodotto oggettuale o ancora in processo d'attuazione, ne escludeva l'esposizione dei “risultati”. La mostra si concentrò quindi sull'obiettivo di documentare queste iniziative attraverso i materiali forniti dai protagonisti e la presenza degli stessi, chiamati a discutere le proprie esperienze in un ciclo di mostre/dibattiti denominato appunto Documentazione aperta»86.

Materiali grafici, fotografici, audiovisivi e sonori relativi a esperienze molto diverse fra loro furono affiancati l'uno all'altro nella mostra: si andava dagli interventi scultorei di Mario Staccioli e Francesco Somaini (sezione 1) alle incursioni urbane di Ugo La Pietra e del Gruppo Salerno 75 (sezione 2), dagli interventi dell'architetto Riccardo Dalisi e dai laboratori teatrali di Vincenzo De Simone, entrambi svolti nell'hinterland napoletano (sezione 3), fino alle esperienze dei collettivi (Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese, Laboratorio di Comunicazione Militante) che accanto all'azione poetica, introducevano un'azione politica marcata (sezione 3). La quarta e la quinta sezione, insieme ai dibattiti per “Documentazione aperta”, presentavano una serie di casi emblematici come il Premio Piazzetta a Sesto San Giovanni o i progetti “Operazione Roma Eterna” e “Operazione Arcevia”. Il percorso espositivo, allestito da Ettore Sottsass jr. e Ulla Salovaara, si snodava in quattro sale dell'odierno Padiglione Centrale fra ambienti immersivi multivision, sale per visionare l'apparato documentale e spazi d'incontro, secondo un'idea di “percorso comunicazionale” per cui «la mostra appariva come un insieme di stimoli eterogenei quanto lo erano le operazioni documentate»87.

Probabilmente l'iniziativa più interessante fu l'organizzazione di un dibattito pubblico intitolato “Nuova domanda e modi di produzione culturale nel campo delle arti visive” che vide un confronto, anche aspramente polemico, fra i partecipanti alla mostra, in particolar modo rispetto alla perdita d'identità, alla spettacolarizzazione e alla istituzionalizzazione di pratiche artistico-sociali circoscritte a piccole esperienze territoriali.

Di sicuro l'impostazione del Padiglione Italia mette in luce gli aspetti metodologici cari a

86 S. CATENACCI, L'ambiente come sociale alla Biennale di Venezia 1976, in M. NICOLACI, M. PICCIONI, L.

RICCARDI (a cura di), In corso d'opera. Ricerche dei dottorandi in Storia dell'Arte della Sapienza, Campisano, Roma, 2015, pp. 317-324, p. 320. Il contributo approfondisce una parte della sua tesi di dottorato: S. CATENACCI, Dalla distruzione dell'oggetto all'“ambiente come sociale”. Esperienze in Italia tra arte, architettura e progettazione culturale, 1969-1978, Tesi di dottorato di ricerca in Storia dell'Arte (XXVII ciclo). Relatore Prof.ssa Carla Subrizi. Università Sapienza, Roma. Anno accademico 2015/2016.

Crispolti nella sua definizione di “ambiente come sociale”, che egli aveva sviluppato in anni di coordinamento di pratiche artistiche nello spazio pubblico, di cui parleremo ampiamente più avanti. Un approccio “pragmatico” (legato alle teorie filosofiche degli statunitensi Charles Sanders Pierce e John Dewey) pervade la sua attitudine propositiva, avvicinandolo più ai movimenti per le riforme civili che a posizioni partitiche o radicali.

Crispolti raccoglierà le sue idee l'anno successivo nel libro Arti visive e partecipazione sociale. 1. Da “Volterra 73” alla Biennale 1976. Fino al ventiquattresimo capitolo riassume tutto il suo lavoro di ricerca sul campo portato avanti dal 1973 al 1976, e nel venticinquesimo e ultimo (“L'«ambiente come sociale» alla Biennale di Venezia”, pp. 292-310) mette insieme una serie di materiali che avrebbero dovuto costituire la base per una pubblicazione specifica sulla mostra veneziana, purtroppo mai realizzata88.

Forse proprio per la difficoltà di trovare una definizione unica e una modalità espositiva valorizzante per interventi così diversi fra loro, furono solo altri tre i padiglioni stranieri che presentarono operazioni di questo tipo, affrontando il tema dell'ambiente in maniera simile al padiglione italiano, sia dal punto di vista oggettuale che umano: Olanda, Svezia e Svizzera.

L'Olanda presenta un padiglione senza un artista o un architetto specifico. La mostra, a carattere socio-culturale (il commissario Gijs van Tuyl la definisce anonima, senza “arte vera”), documenta recenti opere nel campo della progettazione ambientale in Olanda. Lo stesso commissario racconta il perché di questa scelta sullo sfondo della nuova impostazione della Biennale: «Nel maggio 1975 fummo informati che tema obbligato sarebbe stato l'ambiente, e questa è la nostra risposta. Ma non ci siamo limitati a seguire delle istruzioni. Il tema dell'ambiente venne scelto dalla Biennale insieme ad alcuni partecipanti e, per più di una ragione, l'Olanda insistette affinché si arrivasse a concordare un tema comune. Prima di tutto perché avrebbe permesso alla Biennale di trasformarsi in una manifestazione coerente invece che in una bizzarra collezione di mostre disarticolate. Poi perché questo approccio avrebbe stimolato contatti a livello internazionale fra esperti in settori specifici della cultura e dell'arte. Un terzo vantaggio concernente il tema dell'ambiente, è che si estende oltre i modelli dell'avanguardia occidentale, permettendo così ad altri paesi, come per esempio quelli del Terzo Mondo, di partecipare sullo stesso piano. (Specialmente quando il concetto di ambiente viene

88 E. CRISPOLTI, Arti visive e partecipazione sociale. 1. Da “Volterra 73” alla Biennale 1976, De Donato, Bari,

1977. Il volume marca un numero “1” che sottintende un numero “2” che però non uscirà mai. L'unica pubblicazione sulla mostra per B76 è un'opuscolo-guida, che allargava la documentazione già presente nel Catalogo Generale, con l'inserimento di alcuni brevi testi redatti dagli artisti intorno al tema proposto dal Padiglione. Per un approfondimento sull'attività di Crispolti nell'ambito di una più ampia analisi sul rapporto tra arte, territorio e società si veda il numero monografico che la rivista indipendente “Spazioarte. Periodico di analisi e studio sulle comunicazioni visive” dedicò a Il ruolo dell'operatore visivo (n. 8, 1977).

esteso al suo significato più ampio, e cioè l'architettura, l'urbanistica, e l'ecologia). La quarta ragione è che la Biennale di Venezia, scegliendo temi che abbiano un'implicazione sociale, può costruirsi un'identità che la distingue da altre esposizioni quali Documenta Kassel, la Biennale di Parigi, il Kunstmarkt di Colonia e Düsseldorf e la Kunstmesse di Basilea. E ultimo, ma non meno importante, un certo grado di impegno sociale è comunque positivo per la Biennale. Naturalmente, questo diverso orientamento richiede da parte della Biennale una maggiore sensibilità alle istanze del nostro tempo. Gli oppositori pensavano che la connotazione sociale potesse essere una questione di moda e che, venendo dalla Biennale 1976, non sarebbe stato altro che l'eco della contestazione del 1968. Ma le innovazioni devono pur avvenire, e meglio tardi che mai»89.

Secondo van Tuyl, questa integrazione dell'arte in un determinato contesto sociale può essere condotta su due fronti: 1) presentando l'arte non come una specializzazione per esteti (l'art pour l'art) ma come un processo storico in evoluzione e quindi modificabile; 2) interessando un pubblico più vasto. Ma tutto ciò presenta più di un problema per l'elitario mondo dell'arte e il commissario, con una certa vena polemica, conclude così il suo intervento: «Coloro che sono in favore di un ritorno al vecchio schema della Biennale d'arte, sostengono che il tema dell'ambiente esaurisce tutte le possibilità di integrazione sociale. Essi vedono l'arte come una categoria autonoma, diversa dall'architettura e dalle arti applicate come l'acqua dal fuoco. La loro conclusione vorrebbe essere: bene, nel '76 abbiamo avuto un tema con precise implicazioni sociali ma la prossima volta torniamo ai sicuri confini dell'arte come arte. Per noi, opporre l'arte autonoma all'arte applicata è errato, specialmente quando le due aree vengono collocate in una prospettiva storica. La Biennale di Venezia potrebbe continuare il suo processo di integrazione sociale presentando anche l'arte autonoma all'interno del suo contesto storico e senza quell'alone di santità che troppo spesso ostenta»90.

Il Padiglione Svezia presenta il progetto collettivo ARARAT (Alternative Research in Architecture, Resources, Art and Technology). Il commissario Bjorn Springfeldt parte dall'assunto che il termine “architettura” indichi la costruzione di una società e il progetto ARARAT tratta della costruzione di una società con tutta la sua produzione energetica e l'interazione di grandi e piccole comunità in un singolo sistema. La questione del ruolo esercitato dall'artista nella società del futuro è in relazione al problema centrale del rapporto dell'individuo con il gruppo e a come, in generale, sia possibile creare ruoli che diano spazio all'iniziativa, alla responsabilità e alla creatività.

La Svizzera presenta i risultati di un lavoro collettivo svolto nelle scuole con gruppi di artisti. Per il commissario Willy Rotzler l'interrelazione tra l'artista, l'arte e la società è affetta da un malessere

89 G. VAN TUYL, s. t., in Ambiente Partecipazione Strutture culturali, op. cit., vol. I, pp. 118-121, pp. 118-119. 90 Ivi, pp. 119-120.

che nasce dalla considerazione dell'arte come momento di evasione e va superato con una duplice opera convergente: 1) l'artista va familiarizzato col pensiero, col comportamento, con i problemi e i desideri della società in cui vive (ha bisogno di temi atti ad integrarlo nell'ambiente sociale); 2) il pubblico va reso consapevole che l'artista, con il suo lavoro apparentemente inutile, offre effettivi strumenti di vita e non solo un adornamento della realtà. Per questa occasione Bernhard Luginbühl presenta Il grande boss, scultura praticabile con uno scivolo situata all'esterno del padiglione, che fu una delle opere che riscossero più successo fra il grande pubblico di B76.