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CAPITOLO I: DA “AMBIENTE/ARTE” AI “PARAPADIGLIONI” (1976-2011)

2. Celant e “Ambiente/Arte”

Dopo questo excursus sui vari eventi realizzati nell'ambito di B76, focalizzo ora l'attenzione sulla mostra più interessante per il mio studio: “Ambiente/Arte”. Questa mostra si approccia al tema della Biennale parlando il linguaggio interno al dibattito artistico, con un'impostazione che oggi definiremo prettamente “curatoriale”, come ben riassume la Catenacci: «Il taglio e la metodologia di Celant potevano essere collocati nell'interpretazione fenomenica di environment e costituivano un discorso che, ripercorrendo le tappe salienti dell'espansione spaziale della pratica artistica, narrava piuttosto la storia dell'“esporre” come atto linguistico, lasciando alla presenza delle opere e all'interpretazione dello spettatore il difficile compito di coglierne le diverse peculiarità»97. Questo

tipo di progetto espositivo rivela, per Alessandra Acocella, «un significativo spostamento d'attenzione, a livello critico, dalle forme e dai contenuti veicolati dalle singole opere verso un'operazione concettuale e realizzativa indirizzata a tematizzarle, selezionarle e strutturarle all'interno di un percorso articolato e vario»98. Seguendo, dunque, l'ordinamento curatoriale voluto da Celant, si volevano presentare testimonianze documentarie e ricostruzioni di ambienti storici dal futurismo fino agli anni Settanta. Ma qual era il background da cui Celant aveva sviluppato un'attenzione peculiare al tema dell'arte ambientale?

Nato a Genova nel 1940, Celant iniziò la sua carriera universitaria iscrivendosi alla facoltà di Ingegneria, ma già dal 1961 decise di cambiare indirizzo di studi e iscriversi alla facoltà di Lettere, dove insegnava Eugenio Battisti. Profondo conoscitore dell'arte antica e critico militante del contemporaneo, Battisti nel 1963 fondò “Marcatré. Rivista di cultura contemporanea”, seguendo un chiaro intento metodologico: produrre un'osmosi fra storia e attualità. Celant fu chiamato a collaborare con la redazione di questa che era una delle prime riviste interdisciplinari in Italia (si occupava di arte contemporanea, letteratura, architettura e musica), edita dalla casa editrice Lerici fino al 1970. In questo ambiente Celant entrò in contatto con importanti intellettuali, fra i quali Paolo Portoghesi, Umberto Eco e Edoardo Sanguineti, poeta membro del Gruppo 63, movimento a cui la rivista era legata. Grazie alla cronaca d'arte che redige per la rivista, Celant iniziò a specializzarsi come giovane critico d'arte ma decise di lavorare come free lance senza legarsi ad alcuna scuola. In quegli anni conosce e frequenta alcuni dei più importanti artisti, galleristi e critici italiani come Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto Arturo Schwarz, Plinio De Martiis, Gian Enzo Sperone, Carla Lonzi e Luciano Pistoi. Nel 1965 Alessandro Mendini lo chiama a Milano per curare la rubrica d'arte di “Casabella”, attraverso cui continua ad affinare il suo sguardo multidisciplinare, mischiando i linguaggi dell'arte, dell'architettura, del cinema e del design. Questo nuovo incarico lo immette in un circuito di rapporti e amicizie internazionali che saranno fondamentali per lo sviluppo del movimento dell'Arte Povera, di cui sarà promotore principale fra il 1967 e il 1971. Venendo da una formazione interdisciplinare (aveva frequentato il mondo del Radical design, conosciuto i membri del Living Theatre nel 1963, discusso con registi cinematografici come Jean-Marie Straub e intellettuali come Pier Paolo Pasolini) la sua visione dell'arte, influenzata anche dagli studi sull'arte programmata e cinetica di Umbro Apollonio e Gillo Dorfles, cerca un corrispettivo nel lavoro sperimentale dei giovani artisti italiani, di cui va in

98 A. ACOCELLA, Ripensare lo spazio espositivo. Il caso di Ambiente/Arte, Biennale di Venezia, 1976, in F.

CASTELLANI, E. CHARANS (a cura di), Crocevia Biennale, Scalpendi, Milano, 2017, pp. 257-267, p. 261. Per un ulteriore approfondimento rimando anche all'intervento di Vittoria Martini Il canone espositivo e il caso “Ambiente/Arte” per il convegno internazionale “Esposizioni/Exhibitions”, a cura di Francesca Castellani, Francesca Gallo, Vanja Strukelj, Francesca Zanella e Stefania Zuliani (Archivio-Museo CSAC, Parma, 27-28 gennaio 2017).

prima persona a visitare gli studi. Costruisce così, fra il 1963 e il 1967, un mosaico di nomi che, pur nelle loro differenze, sono accomunati da una visione iconoclasta rispetto alla pittura dell'epoca. All'affermazione di un'arte quale strumento di natura immutabile e perfetta (minimalismo) o capace di muoversi nelle delimitazioni rassicuranti dell'icona (Pop Art), gli artisti “poveri” contrappongono un atteggiamento e un procedere che tiene conto dei problemi dell'esistenza reale e si muove in relazione a molteplici tempi e contesti. L'attività critica di Celant punta a mettere questo movimento in relazione con le più importanti tendenze dell'arte del momento, come testimoniato dalla mostra “Conceptual Art Arte Povera Land Art”, aperta nel giugno 1970 alla Galleria Civica d'Arte Moderna di Torino. Negli anni Settanta, terminata l'avventura dell'Arte Povera, Celant è ormai un critico di livello internazionale e si distingue come curatore di eventi espositivi che mettono in connessione la cultura italiana e europea con quella statunitense, grazie alle molte collaborazioni che instaura con le più importanti istituzioni museali degli USA99. In tutti questi primi anni della sua carriera come critico Celant era stato attento ai rapporti tra arte e ambiente, ma è solo staccandosi dall'etichetta dell'Arte Povera che può concentrarsi in maniera trasversale sull'argomento, con una serie di studi e ricerche che sfoceranno prima nell'articolo Artspaces per “Studio International” del 1975 e poi nella mostra “Ambiente/Arte” per la Biennale 1976 che definiscono e storicizzano una genealogia dell'arte installativa che diverrà imprescindibile per tutti gli studi successivi sull'argomento.

Non è un caso, dunque, che Gregotti pensi subito a lui per l'organizzazione della mostra principale di B76. Un primo colloquio fra Celant e il direttore è attestato da un documento manoscritto su carta intestata “Gregotti Associati”, datato 4 ottobre 1975, in cui i due buttano giù una serie di appunti in ordine sparso sul tema della mostra100. La conferma dell'incarico «per la preparazione della mostra storico-introduttiva sul tema “L'ambiente”» arriva a Celant poco giorni dopo, con una lettera personale di Ripa di Meana del 16 ottobre 1975, a cui Celant risponde accettando l'incarico con una lettera del 28 ottobre 1975101. Da questa lettera apprendiamo che l'8 novembre 1975 Celant sarà a Venezia per incontrare nuovamente Gregotti e discutere dell'impostazione della mostra e degli ultimi dettagli contrattuali102.

Celant si mette subito al lavoro avviando contatti specifici con artisti, direttori di museo, galleristi e collezionisti. In questi primi mesi di lavoro la mostra compare nei documenti con il titolo

99 Per approfondimento sui rapporti fra Celant e gli artisti americani, rimando a: G. CELANT, Tornado americano.

Arte al potere 1949-2008, Skira, Ginevra-Milano, 2008.

100 ASAC, b. 4309 – fascicolo “Evidenza 1/10/75”: Colloquio con Celant 4 ottobre 1975 (documento manoscritto). 101 Entrambe le lettere sono conservate in ASAC, fondo storico arti visive, b. 248.

102 Il contratto per la mostra, insieme al contratto di edizione per il catalogo è conservato sempre in ASAC, fondo

“L'arte in/come ambiente: 1900-1976”103, ma intorno alla fine di marzo 1976 il titolo cambia in “Ambiente Arte / Ambient Art 1915-1976”, per poi assumere la sua conformazione definitiva. Il lavoro di preparazione è diviso in due parti: da una parte Celant raccoglie documenti (fotografie, modellini, disegni, film, diapositive, ecc.) per la parte storica della mostra, caratterizzata anche da una serie di ricostruzioni di ambienti abitabili, dall'altra avvia contatti diretti con gli artisti viventi a cui verrà poi chiesto di realizzare un ambiente in situ104. Il tutto è corredato da una serie di viaggi, in particolar modo negli Stati Uniti105, alla fine dei quali partono le lettere d'invito ufficiali per i tredici artisti chiamati a realizzare degli ambienti specifici, datate al 3 aprile 1976106. A ognuno di questi artisti veniva messa a disposizione una sala fra le venti, allestite da Gino Valle, in cui si snodava la mostra nel Padiglione Centrale ai Giardini di Castello107.

L'intento, come segnalato già nella prima bozza di comunicato stampa, era quello di «documentare, mediante tutti i media che possono riproporre gli esempi dell'osmosi tra ricerca volumetrico-visuale e spazio architettonico dato, i complessi rapporti di interazione tra arte e ambiente»108. Il testo introduttivo alla mostra pubblicato nel Catalogo generale è un piccolo saggio d'inquadramento storico-artistico che riprende le riflessioni sullo spazio formalizzate nell'articolo che Celant aveva pubblicato l'anno precedente sulla rivista inglese “Studio International” e che abbiamo già analizzato in precedenza109. Il testo in catalogo inizia così: «L'idea di stabilire una serie di relazioni fisiche e percettive tra lo spazio dell'ambiente e le ricerche artistiche data nel corso dei secoli, da quando l'artista, una volta che gli sia stato assegnato uno spazio, ha pensato di utilizzarlo non come “vaso” o “recipiente” che accoglie passivamente o indifferentemente una certa struttura, ma come parte interagente con il suo intervento»110. Dunque, per Celant, l'arte poteva creare uno spazio ambientale nella stessa maniera in cui l'ambiente creava l'arte, sottolineando l'importanza

103 Si veda, ad esempio: 1) ASAC, b. 4386 – fascicolo “Arti visive (1948-80)”: Iniziative promozionali per la 37a

Biennale (1976).

104 ASAC, fondo storico arti visive, b. 248: Arte in/come Ambiente a cura di Germano Celant: situazione organizzativa

e progettuale al 30 gennaio 1976.

105 Si veda, ad esempio la lettera che Celant scrive a Gregotti da New York il 26 febbraio 1976 (ASAC, fondo storico

arti visive, b. 248) in cui parla dei suoi contatti avviati con gli artisti statunitensi ma si dice preoccupato per il poco tempo a disposizione prima dell'apertura della mostra.

106 In ASAC, fondo storico arti visive, b. 246-247, compaiono le cartelle degli artisti invitati e i prestatori delle opere

per la mostra “Ambiente/Arte”. Fra questi documenti ci sono le lettere d'invito: si tratta di una stessa lettera in inglese (per Jannis Kounellis e Mario Merz è in italiano) indirizzata a tutti gli artisti (solo per Beuys è inviata al gallerista) invitati a realizzare «uno spazio concordato con il curatore stesso». Nella stessa busta si trovano anche tutta una serie di telegrammi di Celant per Vito Acconci, Daniel Buren, Dan Graham, Robert Irwin, Jannis Kounellis, Sol LeWitt, Palermo, Doug Wheeler.

107 Ricordiamo che l'architetto Gino Valle era già stato l'allestitore delle due mostre del 1975 organizzate dal Settore

Arti visive e Architettura ai Magazzini del Sale.

108 ASAC, fondo storico arti visive, b. 248: Comunicato Stampa “Ambiente Arte / Ambient Art 1915-1976”.

109 In ASAC, fondo storico arti visive, b. 248 compare – insieme a un elenco di artisti, opere e documenti per la mostra

– la traduzione in italiano dell'articolo Artspaces (pubblicato su “Studio International” nel 1975), dattiloscritta con note a margine scritte a mano, come quella nella prima pagina: «Si riportano qui alcune note ed appunti a carattere generale che formano la struttura di un libro a venire».

della collocazione, della condizione situazionale, della contingenza ambientale dell'opera: in questo modo il curatore, come spiega la Zanella, si dimostra «interessato principalmente ai meccanismi di mutamento di significato cui l'opera è sottoposta, alle sue metamorfosi»111.

Questa consapevolezza che ciascun lavoro d'arte sia relativo alla sua appartenenza ad un contesto ambientale, e alla sua osmosi spaziale con esso, si era rafforzato all'inizio del XX secolo con le pratiche futuriste e dadaiste. A partire da questi primi esempi in cui l'arte inizia a essere progettata dialetticamente con lo spazio, vincolandosi e vivendo con esso, lo spazio ambientale diventa la causale di molte operazioni artistiche di cui Celant ricostruisce la storia nel suo «excursus attraverso il secolo sub specie ambienti», come lo definisce la Zevi112. Ma è interessante notare come nel 1976 Celant possa affermare che l'arte ambientale fosse ancora un fare artistico “arduo e emarginato” (sic!) e che almeno fino alla metà degli anni Sessanta vi potessero rientrare un numero ridotto di casi. Nonostante ciò, questi esempi, pur non numerosi, aiutavano già a definire il termine “ambiente” in ambito storico-artistico per focalizzare un territorio di analisi successivo.

Pur legata strettamente all'ambito storico-artistico, l'analisi di Celant non risparmia, comunque, alcuni affondi politico-sociali: «L'unità pratica di arte e ambiente dimostra la volontà di strappare la materia lavorata dall'artista alla distribuzione selvaggia e alla pratica incontrollata dello scambio per attribuirle definitivamente un campo, pubblico o privato, progettato insieme all'intervento estetico ed ideologico»113. Dunque Celant imposta la mostra come un progetto di storicizzazione (e quale miglior luogo della Biennale di Venezia per “fare la storia”?) ma non rinuncia anche a una critica istituzionale, utilizzando lo stesso metodo dialettico che gli artisti chiamati a esporre nello spazio dell'istituzione per antonomasia dell'arte contemporanea utilizzeranno nella realizzazione delle loro opere in situ.

Se è vero che l'arte esiste in relazione a molti ambienti strutturati secondo vari livelli (oggetto, edificio, città e territorio), nel caso della mostra l'interazione a cui gli artisti sono chiamati a dare soluzione è quella con il livello ambientale interno dell'edificio del Padiglione Centrale ai Giardini114. Escludendo l'arte che adorna un ambiente dato e cercando di favorire un dialogo fra intervento artistico e contesto architettonico, Celant decise insieme a Valle di togliere dall'interno dell'edificio ogni sovrastruttura che occultava la sua concretezza ambientale, fatta di muri scrostati, travi di legno a vista e ampi lucernari, tentando in questo modo di rendere più neutro possibile lo

111 F. ZANELLA, Esporsi. Architetti, artisti e critici a confronto in Italia negli anni Settanta, op. cit., p. 117. 112 A. ZEVI, Peripezie del dopoguerra nell'arte italiana, op. cit., p. 431.

113 G. CELANT, s. t., in Ambiente Partecipazione Strutture culturali, op. cit., vol. I, p. 190.

114 In realtà, all'inizio del suo lavoro per la mostra, Celant aveva anche preso in considerazione di dedicare una parte

della mostra al rapporto fra arte e spazio aperto, ma aveva poi ristretto il campo a causa della difficoltà nel reperimento dei materiali. A questo proposito si veda la lettera di Celant a Gregotti del 22 febbraio 1976 conservata in ASAC, fondo storico arti visive, b. 248. Qui è conservata l'intera corrispondenza di Celant con Gregotti, Scarpa e Ripa di Meana per l'organizzazione della mostra.

spazio espositivo, riducendolo al suo “grado zero”115. Questa scelta allestitiva offre una chiave di lettura uniformante per tutta la mostra e può trovare un precedente nell'opera realizzata tre anni prima da Michael Asher alla Galleria Toselli di Milano: si tratta di «una vera e propria azione di riconversione estetica che svuota il Padiglione Centrale di tutti gli elementi funzionali (velari, pannelli, intonaci, ecc.) impiegati nel corso degli anni per la protezione e disposizione delle opere in mostra, così da rivelarne la sua essenza strutturale»116.

All'interno di questo spazio limitato esclusivamente da sei piani (pavimento, soffitto e quattro pareti) il concetto di spazio preso in esame dalla mostra si trovava a essere affine a quello di “campo topologico”, a cui lo stesso Celant rimanda direttamente. Questa nozione di campo, in cui esiste sempre una relazione della parte con il tutto, deriva dagli studi sulla “teoria del campo” dell'architetto Attilio Marcolli, indirizzati a individuare i fondamenti visivi di questa teoria in funzione della progettazione architettonica117. È lo stesso Celant a sottolineare l'importanza di questa base teorica nell'impostazione della mostra per delimitare l'indagine allo spazio circoscritto da superfici: «Pertanto, includere l'ambiente interno e il concetto topologico di spazio nell'ambito di questa indagine significa escludere quell'arte che adorna parzialmente le superfici ed i volumi di uno spazio dato, per considerare soltanto quella che assume la totalità spaziale dell'ambiente per strutturarla e caratterizzarla con una modificazione plastico-visuale»118.

Nell'ultima parte del testo introduttivo Celant riassume la storia delle strutturazioni plastico- visuali del XX secolo, che trovavano poi un corrispettivo sensoriale nelle ricostruzioni spaziali ospitate che “attivavano” la prima parte della mostra (sale 1-7). Nel clima delle avanguardie del primo Novecento, partendo dalla visione totalizzante del futurismo che propone un'arte che contempla all'interno di sé il tutto ambientale, la pressione a rendere malleabile lo spazio concreto si manifesta o secondo la natura istintiva del fare individuale (Schwitters) o seguendo l'aspirazione pubblica alla qualificazione socio-estetica dell'ambiente (Balla, El Lissitsky, Van Doesburg, Mondrian, ecc.). A partire dagli anni Cinquanta, caduta l'illusione di un fare che possa coinvolgere

115 Fra la corrispondenza di Celant conservata in ASAC, fondo storico arti visive, b. 248, vi è una lettera di Celant per

Gregotti (28 marzo 1976) che tratta nello specifico dell'allestimento delle sale insieme all'architetto Valle, in cui Celant afferma che lo spazio espositivo ridotto alle sue strutture portanti «risulta rafforzativo dell'idea di “ambiente”».

116 A. ACOCELLA, Ripensare lo spazio espositivo, op. cit., p. 263. La Acocella segnala, in maniera intelligente, come

proprio nel 1976 vengano pubblicati, su “Artforum”, i primi articoli di Brian O'Doherty sullo spazio del white cube.

117 A. MARCOLLI, Teoria del campo. Corso di educazione alla visione, Sansoni, Firenze, 1971. Qui la teoria del

campo è analizzata in funzione di quattro specifiche idee di campo: geometrico intuitivo, ghestaltico, topologico e fenomenologico. A queste se ne aggiungeranno altre tre nel secondo volume che Marcolli dedicherà a questo argomento alcuni anni più tardi: campo morfogenetico piano-volumetrico, morfogenetico sferico e ambientale (A. MARCOLLI, Teoria del campo 2. Corso di metodologia alla visione, Sansoni, Firenze, 1978). A proposito di “campo”, vedremo più avanti che Marcolli nel 1969 aveva partecipato a “Campo urbano” a Como con un intervento site-specific per cui, dopo aver studiato la topografia del colore nel centro città, aveva affidato a ogni tipologia di negozio una tinta attraverso leggere insegne in carta crespa.

utopisticamente il destino di un gruppo di individui ed esclusa la trasposizione dell'arte sul piano trascendentale, l'artista e l'arte aspirano a crearsi un “involucro” autonomo in cui agire (Lucio Fontana, Jackson Pollock, Yves Klein, Louise Nevelson, ecc.). A partire da questa esperienza totale giocata su opposte polarità (materiale/mentale, pieno/vuoto, concreto/invisibile, assenza/presenza) si sviluppa definitivamente un'arte ambientale che fa del rapporto ambiente-arte (e arte-ambiente) la costante della propria ricerca.

L'impegno ambientale della ricerca artistica subisce dal 1966 un salto metodologico testimoniato anche da diverse mostre che Celant cita espressamente come fonte d'ispirazione per la sua esposizione: “Lo spazio dell'immagine” a Foligno (1967), “Trigon 67” alla Neue Galerie am Landesmuseum di Graz (1967) e “Spaces” al MOMA di New York (1969). In particolare, il riferimento più prossimo per Celant è la mostra di Foligno da cui però “Ambiente/Arte” si distingue per spessore storico e respiro internazionale119. Inoltre, come spiega la Acocella, nonostante il tema indagato sia lo stesso, la mostra di Foligno può essere letta come il risultato di una dinamica di gruppi, che condividono orientamenti di ricerca condivisi, mentre «l'esposizione veneziana e, nello specifico, la sua sezione contemporanea, è interpretabile come l'esito di una serie di proposte artistiche individuali, tenute insieme da un univoco e preimpostato progetto curatoriale»120.

Le ultime battute del catalogo sembrano battezzare ufficialmente la nascita di una nuova sensibilità ambientale che preannuncia la nascita dell'installazione ambientale come la intendiamo oggi. Celant, parlando di queste opere, afferma che «attestano un fare costante e continuo che procede concretamente e ideologicamente con l'ambiente reale, assunto e dato»121. A testimonianza di ciò, nella seconda parte della mostra (sale 8-20) vengono presentati uno in ogni sala – scelta che rimanda direttamente alla mostra “Spaces” – ambienti realizzati appositamente da artisti che hanno assunto l'esperienza ambientale come ragione fondamentale del loro lavoro. L'elenco presenta un certo sbilanciamento verso gli Stati Uniti e, in particolar modo, verso gli artisti del gruppo “Light and Space” che Celant aveva avuto modo di conoscere in un viaggio in California: Vito Acconci, Michael Asher, Joseph Beuys, Daniel Buren, Dan Graham, Robert Irwin, Jannis Kounellis, Sol LeWitt, Mario Merz, Bruce Nauman, Maria Nordman, Blinky Palermo (pseudonimo di Peter

119 È interessante notare che, come racconta Mario Ceroli, anche Luca Ronconi fosse rimasto colpito da “Lo spazio

dell'immagine”, parlando di un'«esperienza spettacolare» che più che una mostra d'arte era teatro. La citazione è riportata in M. CALVESI, Cronache e coordinate di un'avventura, in M. CALVESI, R. SILIGATO (a cura di), Roma anni '60. Al di là della pittura [catalogo della mostra], Carte Segrete, Roma, 1990, pp. 11-36, p. 31. Proprio la particolarità dell'esposizione di Foligno avrebbe suggerito al regista di chiedere ad alcuni degli artisti presenti (Kounellis, Castellani, Pistoletto e Pascali) di realizzare ciascuno un lavoro da inserire nel progetto scenografico che Ceroli aveva impostato per il suo Orlando furioso, messo in scena nel 1969. Anche se il rapporto fra Ceroli e