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Le opere ambientali a cui si riferiva Rosalind Krauss nel 1979 erano spesso realizzazioni di artisti che nascevano come scultori, ma ormai da anni le installazioni sembrano aver superato la categoria storica della scultura, tanto che nell'ultimo periodo si è assistito a un vero e proprio sviluppo architettonico di questo tipo di opere, concepite come spazi dove il confine tra le due discipline si fa labile e indistinto. Eppure, come spiega Francesco Poli e come vedremo più avanti, l'uso del termine “scultura” rimane ancora forte nelle pratiche artistiche contemporanee, «non solo per le opere realizzate con materiali e tecniche tradizionali (intaglio e modellato) ma anche, in un'accezione ben più vasta, per ogni altro tipo di lavoro con caratteristiche tridimensionali effettive, dalle costruzioni e assemblaggi agli oggetti, dalle installazioni spaziali agli ambienti e agli interventi in contesti esterni»15.

La scultura ambientale, madre dell'installazione ambientale, si è dissolta nello spazio, disintegrando le sue caratteristiche oggettuali e perdendo i suoi paradigmi tradizionali come l'unicità, la permanenza e l'attrattiva decorativa a favore della dispersione, della discontinuità, della perdita di centro. L'installazione ambientale è riuscita a superare le definizioni canoniche: non è più vista solo come un'evoluzione spaziale della scultura ma come un vero e proprio “spazio architettonico” che può essere permanente o temporaneo, costruito per lo spazio esterno o per quello interno, legato indissolubilmente a un sito specifico o adattabile a innumerevoli altri siti. Tant'è vero che la maggioranza delle installazioni odierne vengono proposte all'interno di contenitori espositivi canonici e non hanno più bisogno della potenza del paesaggio naturale per essere sempre più incredibili e spettacolari. Secondo Ludovico Pratesi si tratta di una risposta dell'arte contemporanea alle esperienze di realtà virtuale o aumentata sempre più accessibili al pubblico16. Per Massimilano Gioni si tratta di uno sviluppo parallelo a quello dell'economia dello spettacolo e della società dell'informazione17. In entrambi i casi è indubitabile che la caratteristica principale di queste opere sia l'interazione: il pubblico entra in uno spazio fisico, reale e non illusionistico come quello pittorico, potenzialmente frequentato anche da altri, in cui è chiamato ad elaborare un paradigma critico, a interpretare l'ambiente. Potremmo richiamare qui il concetto di genius loci, la certezza del luogo qui e ora, che vacilla a favore di un senso dilatato del presente che, come spiega la

15 F. POLI, La scultura del Novecento. Forme plastiche, costruzioni, oggetti, installazioni ambientali, Laterza, Roma-

Bari, 2015, p. V.

16 Cfr. L. PRATESI, Arte contemporanea. I protagonisti della scena globale da Koons a Cattelan, Giunti, Firenze,

2017.

17 Cfr. M. GIONI, Ask the dust, in R. FLOOD, L. HOPTMAN, M. GIONI (a cura di), Unmonumental. The Object in

Detheridge, «rende inutile, o meglio inconsequenziale, la tradizionale suddivisione delle arti classiche in pittura e scultura, contribuendo non solo all'usura dei linguaggi, ma ancora di più delle classificazioni e delle gerarchie convenzionali dell'arte occidentale»18. Il mio studio, dunque, non tralasciando tutta la bibliografia di riferimento sull'installazione, cercherà di allargarsi a queste nuove possibilità di analisi capaci di descrivere al meglio anche questo tipo di installazioni ambientali, la cui definizione non può prescindere da un'analisi dell'uso linguistico dei due termini (installation – environment) che circoscrivono il campo fenomenologico trasversale di queste pratiche. I loro significati vanno al di là delle definizioni da dizionario poiché, dalla metà del Novecento a oggi, queste due parole hanno assunto varie declinazioni dipendenti dal contesto culturale in cui sono state utilizzate, seguendo le modificazioni delle teorie di riferimento rispetto alle modalità con cui l'arte si è rapportata con la realtà.

Se oggigiorno il termine “installazione” è entrato nel linguaggio comune, fino a pochi decenni fa era utilizzato solo in ambito specialistico e con un significato diverso da quello con cui lo intendiamo noi attualmente. Infatti, negli anni Sessanta, mentre il termine environment inizia a prendere piede, il termine installation rimane circoscritto al tipo di allestimento scelto per le opere in mostra19. In ambito artistico contemporaneo la storia del termine “ambiente” è, dunque, più lineare rispetto a quella del termine “installazione”. Prima Lucio Fontana in Europa (con i suoi Ambienti spaziali) e poi Allan Kaprow negli USA (con i suoi Environments) usano questa parola in maniera strutturata già nei primi anni del secondo dopoguerra, sottolineando un radicale spostamento dell'asse di tensione dello spettatore che non si trova più di fronte a un oggetto ma dentro un ambiente. Sotto l'influenza di questi primi esempi, e in particolare degli scritti teorici di Kaprow20, nasce la corrente artistica internazionale dell'environmental art. Si tratta di una definizione “trasversale” sotto cui è possibile riunire pratiche ambientali diverse, dai progetti paesaggistici di Land Art agli interventi architettonici radicali, ma accomunate dalla realizzazione di opere d'arte a dimensione ambientale che forzano i tradizionali rapporti con lo spazio. Sviluppandosi nei decenni ma tenendo fede a questa idea iniziale l'environmental art ha delineato, quindi, un'arte in cui lo spettatore entra e viene invitato a interagire con l'opera, che è concepita

18 A. DETHERIDGE, Scultori della speranza, op. cit., p. 10. Per il concetto di genius loci rimando a: C. NORBERG-

SCHULZ, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Electa, Milano, 1979.

19 Quest'idea non è scomparsa e infatti, ancora oggi, le foto che testimoniano l'allestimento delle opere in una mostra

vengono chiamate installation views.

20 Si veda in particolare: A. KAPROW, Assemblage, Environments and Happenings, Abrams, New York, 1966. Già in

questo testo Kaprow evidenzia la comune natura partecipativa delle tre pratiche artistiche indicate nel titolo precisando come gli environments siano una conseguenza dell'estensione del medium pittorico iniziata con il collage e l'assemblaggio cubista e ampliata dall'Action Painting di Jackson Pollock, che anticipa la pratica dell'happening. Il termine “environment” compariva già in un suo articolo del 1958 proprio su Pollock (“The legacy of Jackson Pollock”, in Art News, vol. 57, n. 6, 1958) e nel titolo della sua mostra personale alla galleria Martha Jackson di New York del 1961 (“Environments, Situations, Spaces”).

come un vero e proprio ambiente in cui lo spettatore viene messo alla prova e, a sua volta, influenza l'opera con la sua presenza.

Come detto, il termine installation ha, invece, una storia meno chiara. Come lo intendiamo oggi inizia a prendere piede durante gli anni Settanta, entrando in uso nella lingua inglese per definire una particolare tipologia di opere a dimensione ambientale, ma ancora con un significato molto vago: viene utilizzato, praticamente, come un contenitore elastico in cui inserire quelle pratiche artistiche che sfuggono alle tradizionali definizioni di genere. La parola installation è inclusa nell'Art Index nel 1978 ma unicamente con un rimando a environment. Dieci anni più tardi, nel The Oxford Dictionary of Art del 1988, l'installazione viene definita: «Term which came into vogue during the 1970s for an assemblage or environment constructed in the gallery specifically for a particular exhibition». Sarà solo negli anni Novanta che per la nozione di installation art s'inizierà a costituire un campo semantico appropriato e il termine “installazione” verrà ad indicare precipuamente un'opera d'arte tridimensionale realizzata con materiali diversi, anche molto lontani dalla tradizione artistica, e congegnata in modo da occupare, temporaneamente o permanentemente, uno spazio con cui il pubblico può interagire. Sia la partecipazione diretta dello spettatore (con modalità e limiti variabili) che le caratteristiche del luogo in cui l'opera è “installata” sono parte integrante di queste realizzazioni, spesso caratterizzate da una progettazione site-specific. Ecco che è facile capire come, negli ultimi decenni, l'elastica e aperta “installazione” sia confluita nella pratica dell'environment finendo quasi per sostituirla dall'interno. Questo passaggio non è solo di natura lessicale ma sottende un cambiamento ideologico: «Se infatti nell'“ambiente” si estende la concezione del supporto dalla parete all'intera stanza includendo lo spazio come elemento determinante, nell'installazione, sulla scorta delle esperienze espositive, gli artisti sembrano fare un passo ulteriore, liberandosi dall'idea di una delimitazione spaziale predefinita per l'opera»21.

Dopo una prima fase di ampia diffusione negli anni Settanta, in cui l'installazione veniva letta come una diretta evoluzione dell'environment (a delineare ambienti realizzati in spazi espositivi canonici per la durata di una mostra), negli anni Ottanta l'installazione sembra riscuotere un minor successo. Ma, a partire dagli anni Novanta, torna ad essere una delle modalità espressive preferite dagli artisti contemporanei. In molti di questi progetti il linguaggio dell'installazione si dilata a tal punto da andare a inserirsi nel filone dell'environmental art, creando un'ancora più ampia ibridazione di linguaggi, ulteriormente potenziata dall'applicazione massiccia delle nuove tecnologie digitali e costruttive. Molte di queste installazioni ambientali sono realizzate in esterno, ma pur uscendo dagli spazi espositivi canonici trovano i loro prototipi in quelle installazioni ante litteram che per prime avevano focalizzato l'attenzione sulla relazione tra opera e spazio espositivo.

Da questo specifico fulcro concettuale ha avuto origine l'installazione, contaminando arte, design e architettura in una pratica multimediale. Eppure, ancora oggi, pur nel suo momento di boom, dare una definizione univoca dell'arte installativa risulta assai complesso, proprio per la sua natura ibrida, in cui si mischiano i linguaggi dell'arte, dell'architettura e di altre discipline. In un periodo storico in cui le proposte del contemporaneo si sono affermate e contestate una dopo l'altra in tempi brevissimi e senza soluzione di continuità, l'installazione, non costituendo di per sé un movimento artistico bensì rappresentando una sorta di contenitore mixed-media, ha dato modo di sviluppare al suo interno diverse maniere estetiche, anche contrapposte, che vanno dalle sculture abitabili agli ambienti praticabili, dalla public art all'arte nella natura.

Come testimoniato, ad esempio, da Amy Dempsey22, ci troviamo di fronte a una galassia di possibili definizioni per pratiche artistiche molto diverse fra loro (Land Art, arte site-specific, parchi di sculture, ecc.) il cui comune denominatore è la scelta di forzare i confini dei tradizionali spazi espositivi per esprimersi a dimensione ambientale anche nel paesaggio (sia urbano che naturale), come già notava John Beardsley alla metà degli anni Ottanta23. Tornando indietro nel tempo si potrebbe trovare un primo riferimento teorico nell'idea di Gesamtkunstwerk di Richard Wagner che già ne precorre diverse caratteristiche. Ma l'opera d'arte totale di Wagner rimane chiaramente all'interno di un carattere d'artificialità e non si pone l'obiettivo di (con)fondere arte e vita, come invece si proporranno di fare gli artisti d'avanguardia nel Novecento, in primis i futuristi con la loro idea di “sintesi delle arti”24. Dunque, l'ambiguità dell'installazione ambientale non esiste solo a livello di creazione, ma anche di fruizione. Di conseguenza, “installazione” è diventata una sorta di definizione trasversale per raccogliere e analizzare sotto uno stesso concetto pratiche artistiche molto differenti fra loro ma accomunate dalla dimensione ambientale e dalla possibilità di essere “praticate” dal pubblico.

Ma cosa s'intende, dunque, quando si parla di “installazione” nell'arte contemporanea?

Per capire la difficoltà di rispondere a questa domanda, confrontiamo gli incipit di tre fra i più importanti volumi sulla storia dell'installazione a livello internazionale.

1) N. DE OLIVEIRA, N. OXLEY, M. PETRY, Installation Art, Thames & Hudson, London, 1994 (pp. 7-8):

22 Cfr. A. DEMPSEY, Destination Art. Land Art / Site-Specific Art / Sculpture Parks, University of California Press,

Berkeley, 2006 (nuova edizione: Thames & Hudson, London, 2011).

23 Cfr. J. BEARDSLEY, Earthworks and Beyond: Contemporary Art in the Landscape, Abbeville, New York, 1984. 24 Per un approfondimento specifico su queste nozioni rimando a: G. SALVATORI, “L'Ombra di Wagner”: note sulla

fortuna critica delle nozioni di “Gesamtkunstwerk” e Sintesi delle arti, in F. ABBATE (a cura di), Ottant'anni di un maestro. Omaggio a Ferdinando Bologna, Paparo, Pozzuoli (NA), 2006 (2 voll.), vol. 2, pp. 749-756. Si veda anche: A. TRIMARCO, Opera d'arte totale, Luca Sossella Editore, Roma, 2001.

«Installation as a generic term, covers a large area of practice and enquiry within contemporary art. It is suggestive of the notion of “exhibition”, or “display”, and of an actual activity which is today as widespread as any other way of making art. […] Installation, in the sense proposed by this book, is a relatively new term. It is really only in the last decade or so that it has been used to describe a kind of art making which rejects concentration on one object in favour of a consideration of the relationships between a number of elements or of the interaction between things and their contexts».

2) J. H. REISS, From Margin to Center: The Spaces of Installation Art, The MIT Press, Cambridge (Mass.), 1999 (p. xi):

«The term “Installation art” is a relatively new one, emerging years after many of the works to which it can be applied were created. Although its definition is somewhat elusive, the term can be used to describe works that share certain key characteristics».

3) C. BISHOP, Installation Art: A Critical History London, Tate, 2005 (p. 6):

«“Installation art” is a term that loosely refers to the type of art into which the viewer physically enters, and which is often described as “theatrical”, “immersive” or “experiential”. However, the sheer diversity in terms of appearance, content and scope of the work produced today under this name, and the freedom with which the term is used, almost preclude it from having any meaning. The word “installation” has now expanded to describe any arrangement of objects in any given space, to the point where it can happily be applied even to a conventional display of paintings on a wall. But there is a fine line between an installation of art and installation art».

Come risulta chiaro da questi tre esempi, una definizione univoca per l'installazione artistica sembra impossibile. Ogni tentativo d'individuarne i caratteri fondamentali che ne definiscono l'ambito è destinato all'incompletezza e alla parzialità, poiché, di fatto, l'installazione può coinvolgere potenzialmente un numero pressoché illimitato di discipline, dall'architettura al bricolage: «L'installazione si situa infatti in un territorio di confine tra l'esposizione e la produzione di arte, determinando una sovrapposizione non solo formale ma anche semantica tra l'opera, la sua realizzazione e l'atto di esporla»25. Nella reciprocità di influenze tra lo spazio espositivo e l'opera si può arrivare a parlare dell'installazione come un medium, ma i tentativi di definirla esclusivamente come medium presentano anch'essi molte difficoltà poiché è nella natura stessa delle varie pratiche definibili come “installazioni” che risiede la sfida ai loro stessi confini. L'installazione, indicando al

contempo la pratica e l'opera stessa, evidenzia una specificità mediale articolata e complessa, eppure è questo termine che oggi ha soppiantato quasi del tutto lo storico utilizzo del termine environment.

Partendo da questo dato di fatto, forse ha senso provare in primis a definire l'installazione come una delle “tecniche” dell'arte contemporanea. Per questo tipo di analisi possiamo, ad esempio, riferirci a una serie di recenti studi italiani sulle tecniche artistiche dell’arte contemporanea, come quelli di Silvia Bordini, Angela Vettese, Fabriano Fabbri e Marina Pugliese.

Nel volume Arte contemporanea e tecniche curato da Silvia Bordini il capitolo 5 (pp. 101-116) è dedicato ad “Ambienti e installazioni”26. Il capitolo è redatto da Francesca Gallo e parte dalla definizione di “ambiente” inteso come spazio fisico qualificato dall'artista attraverso interventi di varia natura: «Un ambiente è un'opera costruita con le tecniche più diverse e che si caratterizza per la dimensione architettonica, vale a dire è un'opera dentro la quale il pubblico entra» (p. 101). Come già detto, il passaggio dalla dizione di ambiente a quella di installazione si consuma proprio tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta «per traslato dalla prassi degli allestimenti, del design e dell'architettura» (p. 104). Eppure, anche in questo caso, viene sottolineato come l'installazione sia un medium contraddittorio e di difficile definizione: «L'adattabilità è forse la principale caratteristica di queste opere, ribelli a qualsiasi definizione: esse mutano nelle diverse occasioni espositive, generando quindi un nugolo di variazioni intorno all'opera “madre”; variano come gli arrangiamenti di un pezzo musicale o le edizioni di un libro, quasi come se l'opera tendesse, un po' contraddittoriamente, ad identificarsi solo con la sua ideazione, a discapito della sua avvolgente fisicità» (p. 105). Se è vero che spesso l'installazione tende ad identificarsi con l'intervento creativo sul contenitore architettonico (interventi soft che rimodulano lo spazio e la sua percezione da parte del pubblico ma lasciano fisicamente inalterata la struttura architettonica), soprattutto «nel corso degli anni settanta, gli artisti incrementano la produzione di opere che assomigliano a strutture architettoniche che possono essere montate, smontate e rimontate ogni qual volta è necessario, oppure si modellano di volta in volta sul luogo in cui sono ospitate, a partire da un'idea germinale. Il metodo, per certi versi, è imparentato con quello dell'architetto, in quanto la fase creativa si riassume nell'ideazione progettuale dell'opera, concretamente realizzata con materiali e tecniche industriali» (p. 108).

Nel volume Si fa con tutto di Angela Vettese, l'installazione, proprio in quanto medium che ne racchiude in sé altri, è affrontata in diversi capitoli e da diversi punti di vista27. Si afferma che essa nasce da «un'evoluzione del lavoro verso lo spazio che fonda una nuova tradizione e che si stacca sia dalla scultura, ancorché ambientata, sia dall'architettura» (p. 65). E più avanti si specifica: «In

26 S. BORDINI (a cura di), Arte contemporanea e tecniche. Materiali, procedimenti, sperimentazioni, Carocci, Roma,

2007.

generale, le pratiche installative mettono i molti elementi di cui l'opera si compone in scena, in posizione, in uno stare temporaneo ma definito; per tutto questo sono portatrici salienti, forse le più evidenti, del senso attuale per l'impermanenza e per la contemporaneità» (p. 75).

Nel già citato Il buono il brutto il passivo, Fabriano Fabbri, basandosi su un'ossatura metodologica particolare, presenta una ricognizione delle tecniche dell'arte contemporanea che segue essenzialmente tre blocchi temporali: il primo esamina l'insieme di soluzioni offerto dalle avanguardie storiche negli anni Dieci-Venti, in cui i vari protagonisti gettano le fondamenta di tecniche successivamente evolutesi “alla seconda”, negli anni Cinquanta-Sessanta, e poi “alla terza”, negli anni Novanta-Duemila, con incremento esponenziale. I tre capitoli riguardanti l'installazione s'intitolano: “Installazione: in principio fu la Merzbau” (pp. 16-20); “Intallazione ²: la «dieta in bianco» del Minimalismo e il primordio «low tech»” (pp. 59-67); “Installazione ³: dallo «struggle for life» allo «struggle for file»” (pp. 101-109). Con il suo linguaggio colorito, che si evince già dai titoli dei capitoli, Fabbri definisce così l'installazione: «Adesso prendiamo il collage, l'assemblage e il readymade, poi immaginiamoli su scala ambientale, schierati a occupare spazi in cui sia possibile entrare, circolare, gironzolare, anche se non sempre. Ecco cos'è un'installazione: un ambiente percorribile, ad altissimo impatto percettivo, in grado di accendere nel visitatore la totale orchestrazione dei sensi. Il termine è intercambiabile con la parola “environment”, nonostante i pedanti tentativi di evidenziarne le differenze» (p. 16). Secondo Fabbri esistono principalmente due tipi di installazione: 1) attiva, in cui possiamo interagire con la struttura in vario modo (installazione sinestetica che transita da un senso all'altro); 2) passiva, pensata per essere osservata da una zona sicura e invalicabile, al riparo da un contatto diretto (installazione esclusivamente ottica).

Il volume curato da Marina Pugliese (Tecnica mista) presenta una sezione che si occupa dei materiali e delle pratiche dell'arte contemporanea in cui l'installazione ha un suo capitolo a parte (pp. 102-108), redatto dalla stessa Pugliese28. Qui si evidenzia nuovamente la difficoltà di una sua definizione e la sua derivazione dal collage e dall'assemblage: «Dare una definizione specifica di installazione risulta particolarmente complicato. Trattandosi di una pratica artistica ibrida, che si situa al confine tra scultura, allestimento, architettura, teatro e performance, sfugge a qualsiasi categoria rigida. […] Storicamente, il termine inglese installation si riferiva all'allestimento delle opere in mostra e la traslazione alla definizione di un genere è dovuta ai modelli espositivi ideologici degli anni settanta del Novecento, in cui contenuto e contesto spesso si sovrappongono. Tecnicamente le installazioni derivano dal collage e dall'assemblaggio, ma hanno dimensioni ambientali e presuppongono sia l'utilizzo di materiali e media diversi, messi in relazione con una