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La relazione di coaching

Capitolo 4 – Tra saper essere e saper essere in relazione

4.4 La relazione di coaching

Introducendo il tema del coaching, lo abbiamo definito come una metodologia totalmente orientata alla persona, ovvero all’empowerment, alla riuscita e all’autorealizzazione della stessa. Com’è emerso, si tratta di un processo/percorso che punta al saper essere dell’individuo, attraverso il sapere (conoscenza di sé e del contesto di azione) e il saper fare (cura di sé ma anche definizione di piani d’azione autodeterminati). Parliamo, quindi, di una metodologia propriamente educativa e formativa: il termine educare, infatti, deriva dal latino e-ducere che significa “tirare fuori”; mentre per formazione si intende proprio un’azione che dà forma. Entrambi i concetti non hanno nulla a che fare con l’insegnamento (dal latino in-signare, che significa “imprimere dentro”) inteso come più semplice inserimento o trasferimento di conoscenze, ma al contrario implicano un cambiamento, una trasformazione della persona che, evidentemente, coinvolge prima di tutto il suo essere. Ed è proprio questo aspetto che contraddistingue lo stile manageriale basato sui principi del coaching, in quanto il manager/coach teorizzato da Whitmore non si limita a dirigere i lavori, ma punta innanzitutto allo sviluppo dei propri collaboratori: all’espansione della consapevolezza, all’assunzione di responsabilità e al rafforzamento della fiducia in se stessi per esprimere a pieno il proprio potenziale. Tali presupposti, secondo l’autore, sono alla base di ogni azione efficace e di ogni sviluppo umano inteso, appunto, come progressiva trasformazione evolutiva.

E’ chiaro però che questo tipo di trasformazione è veicolata e sostenuta attraverso la relazione che il manager/coach sceglie di instaurare con i propri collaboratori. E difatti, tutti i contributi analizzati per quanto riguarda il coaching, vedono nella relazionalità positiva il presupposto necessario del coaching. Whitmore (2003), ad esempio, ribadisce più volte che il coaching è prima di tutto un modo diverso di guardare alle persone, una visione ben più ottimistica di quella a cui siamo comunemente abituati. Pannitti e Rossi (2012), d’altra parte, sintetizzano l’importanza della dimensione relazionale facendo riferimento al più noto degli assiomi della comunicazione definiti dalla Scuola di Palo Alto: ogni comunicazione umana ha una componente di contenuto e una di

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relazione, di modo che il secondo classifica il primo. In sostanza, tale principio afferma che nel processo di comunicazione non si trasmettono solo delle informazioni (contenuto), ma vengono definiti anche i rapporti di posizione reciproca, cioè il tipo di relazione che esiste tra i parlanti; ed è proprio l’aspetto di relazione a classificare quello del contenuto perché definisce il modo in cui quel contenuto deve essere recepito (ad esempio, come un’esortazione oppure un’imposizione). Tuttavia, l’aspetto relazionale, generalmente non è reso esplicito, ovvero non viene definito deliberatamente e con piena consapevolezza dai parlanti; anzi da questo punto di vista i teorici della pragmatica della comunicazione evidenziano solo che quanto più una relazione è “sana”, spontanea, positiva, e tanto meno si rende necessaria la sua definizione. Al contrario le “relazioni malate” sono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione recede sullo sfondo. Per questo Pannitti e Rossi insistono sulla dimensione relazionale: “senza una relazione positiva tra coach e coachee, le

dinamiche di aggiustamento e ridefinizione della stessa offuscherebbero il piano del contenuto”

(Pannitti, Rossi, 2012, p.40). Dunque, se è vero che nel coaching le competenze comunicative sono fondamentali dal momento che il principale strumento del coach è il dialogo, è vero anche che tali competenze comunicative sottendono una competenza relazionale più profonda che si traduce nella capacità del coach di instaurare relazioni positive, basate sulla compatibilità, sulla sintonia, ovvero sull’affinità. La stessa Julie Starr, che si concentra sull’applicazione del coaching in azienda, esorta manager e responsabili a ricercare l’affinità con i propri collaboratori, perché è da ciò che dipende la possibilità di generare un dialogo che sia effettivamente di beneficio per loro; e allo stesso tempo sottolinea che da questo punto di vista la differenza sta nelle intenzioni di coloro che dirigono (Starr, 2011). In altri termini i manager che agiscono secondo i principi del coaching, consapevolmente, si propongono di creare affinità! Perché nella relazione affine entrambi i partner (manager e collaboratore) si sentono a proprio agio, riescono ad essere se stessi e hanno di conseguenza una maggiore predisposizione a fidarsi e ad aprirsi reciprocamente (ibidem).

A questo punto la domanda è: i manager/coach come perseguono questo nobile intento? Come ricercano e costruiscono l’affinità con i propri collaboratori? Anche da questo punto di vista i contributi analizzati sono sostanzialmente concordi, individuando due ingredienti fondamentali: la capacità di riconoscere e ridurre l’influsso del proprio ego e la capacità di attivare l’empatia. Dunque, senza pretendere di entrare nel merito di analisi psicologiche che non ci competono, ci limitiamo a riportare e sintetizzare il pensiero di grandi autori italiani e internazionali (Scardovelli, 2007; Tolle, 2010; Masini, 2016) i quali, a proposito di ego ed empatia, giungono tutti alle medesime conclusioni: l’ego è nocivo per l’individuo e per la comunità; l’empatia e l’affettività, al contrario, arrecano beneficio sia all’individuo che alla comunità.

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L’ego, infatti, rappresenta la nostra individualità e il suo principale scopo è quello di salvaguardare il nostro essere e tenerlo lontano da ogni potenziale minaccia. La Starr (2011) lo descrive come una sorta di “programma preimpostato” che costantemente ci suggerisce chi siamo; è quella parte atavica di noi stessi che ci legittima a sentirci unici e separati dagli altri e dal mondo (Scradovelli, 2007). Questo, però, non è un bene, perché l’ego agisce al di fuori della coscienza e della consapevolezza; in altri termini è pura reattività che domina l’essere umano e si manifesta come chiusura difensiva (per tutelare costantemente il proprio status), tendenza al dominio e al controllo (per affermare l’io sull’alter), e giudizio (per dare ad ogni cosa, persona o evento, una precisa collocazione). Le conseguenze dell’ego sono chiaramente sintetizzate dalla Starr: esso crea dei limiti nel nostro modo di pensare e nelle nostre scelte, perché ci impone di rispettare l’idea che abbiamo di noi stessi; e allo stesso tempo l’ego ci impedisce di relazionarci al mondo altrui (Starr, 2011) perché la realtà è costantemente riferita al proprio io, prescindendo dall’esistenza di qualsiasi altro punto di vista (Masini, 2016).

Chiaramente con questi presupposti le relazioni non possono diventare oggetto di riflessione e investigazione; anzi, sono condannate ad essere il luogo principale in cui si riversano le pretese individuali (ibidem) e dove, di conseguenza, regnano l’incomprensione, l’ostilità e il conflitto (Scardovelli, 2007). Francesco Muzzarelli, che ha indagato in modo approfondito il tema della collaborazione tra “capi” e collaboratori, sintetizza in modo efficace questo quadro malsano e improduttivo, sostenendo appunto che il grande nodo della relazione tra capo e collaboratore è il modello egocentrico che entrambi usano per relazionarsi: ognuno teme di essere danneggiato dall’altro, si crede superiore all’altro, si concentra sulle proprie esigenze e tratta la controparte come un nemico da cui difendersi (Muzzarelli, 2010). Ma queste, nei termini di Eckhart Tolle, non sono altro che illusioni prodotte dall’ego (Tolle, 2010). E dunque, come si contrastano tali illusioni? La risposta dei vari autori è sostanzialmente unanime: attraverso la consapevolezza, cercando di riconoscere l’influsso dell’ego nei propri comportamenti e lavorando su se stessi per imparare a sostituire la chiusura egocentrica e l’ostilità con l’apertura empatica e l’affettività. E’ questo passaggio che consente di creare consapevolmente affinità relazionale, poiché quest’ultima non è altro che una disposizione all’apertura verso l’altro sorretta da empatia e affettività (Masini, 2016).

In precedenza abbiamo definito l’empatia come la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, ma a ben vedere essa è molto di più: Edith Stein, allieva di Husserl37, la definisce come una

37 Husserl fu un filosofo e matematico austriaco (naturalizzato tedesco) che fondò la fenomenologia, ossia quell’orientamento filosofico che assegna primaria importanza all’esperienza intuitiva, guardando ai fenomeni come punti di partenza e prove per estrarre da essi le caratteristiche essenziali delle esperienze e l'essenza di ciò che sperimentiamo. Fonte: Wikipedia online.

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partecipazione interiore all’esperienza vissuta dall’altro; quel momento in cui siamo presso il soggetto-altro e siamo volti con esso verso il suo oggetto (Stein, 1985, cit. in Masini, 2016). Pannitti e Rossi fanno eco a questa impostazione, affermando che essere empatici significa calarsi nell’esperienza dell’altro per cogliere e condividere la natura di ciò che egli vive, ma non l’intensità in modo da preservare un’indispensabile oggettività (Pannitti, Rossi, 2012). In altri termini l’empatia consente la massima comprensione interpersonale, e dove c’è comprensione reciproca, c’è anche sicurezza, c’è fiducia e apertura reciproca, ovvero c’è affinità relazionale. Non è un caso, quindi, che lo stesso Whitmore (2003) faccia riferimento all’intelligenza emotiva e includa l’empatia tra le migliori qualità del manager/coach: solo attraverso l’empatia si può giungere alla creazione di quella che Pannitti e Rossi definiscono, non già metodologia, ma

relazione di coaching. E quali sono gli ingredienti fondamentali di tale relazione? Gli stessi autori

procedono a definirli (Pannitti, Rossi, 2012):

• l’accoglienza, che si caratterizza innanzitutto come rispetto attivo dell’altro derivante dalla sospensione di giudizio (il giudizio è una forma dell’ego, non dell’empatia); ma l’accoglienza è anche accettazione di sé e dell’altro che si traduce immediatamente in reciproca valorizzazione. Non a caso gli autori fanno riferimento all’Analisi Transazionale di Eric Berne e in particolare alla posizione relazionale38 definita “io sono ok – tu sei ok”, dove l’Io si si sente adeguato, si apprezza, si accetta e proprio per questo si riconosce valore; e allo stesso modo si pone con l’altro, ovvero lo ritiene adeguato, lo apprezza, lo accetta e riconosce il suo valore;

• l’ascolto, che consente il riconoscimento di sé (ascolto interiore) e dell’altro (ascolto globale); in altri termini permette di comprendere l’atro “nei suoi desideri, nelle sue paure e nelle frustrazioni, ed anche nella confusione e nei suoi cambi di rotta” (Pannitti, Rossi, 2012, p.44), senza però sostituirsi all’altro con le proprie proiezioni;

• l’alleanza, ovvero la volontà di affiancarsi all’impresa altrui, fornendo un supporto leale e trasparente. Si tratta di un’alleanza simmetrica nell’interazione ma complementare nei ruoli: coach e coachee dialogano alla pari (simmetricamente) perché il coach non è un esperto o un consigliere, ma piuttosto un compagno di viaggio che si avventura assieme al coachee nel suo percorso di scoperta, alla ricerca delle proprie verità, dei propri valori,

38 Le posizioni relazionali sono definite da Berne come il valore che ogni persona attribuisce a sé, all’altro e alla relazione tra loro. Ciascuna posizione risulta dalla combinazione tra la relazione con se stessi (io sono ok oppure io non sono ok) e la relazione con l’altro (tu sei ok oppure tu non sei ok). La posizione “io sono ok – tu sei ok” genera un rapporto sano, aperto, fiducioso e collaborativo; la posizione “io sono ok – tu non sei ok” genera un rapporto in cui l’altro è sostituito, sopraffatto, oppresso; la posizione “io non sono ok – tu sei ok” genera invece un rapporto in cui l’Io si sente inadeguato, spaventato, remissivo; infine la posizione “io non sono ok – tu non sei ok” genera un rapporto in cui regna la negatività, la sfiducia, l’arrendevolezza, la passività. (Panniti, Rossi, 2012)

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delle proprie soluzioni, delle proprie qualità; complementare nei ruoli perché il compito del coach è quello di allenare e supportare il coachee, non di giocare la partita al suo posto; • autenticità, che fa riferimento all’integrità, alla coerenza con se stessi e con l’altro; essere coerenti con se stessi significa mettersi in discussione in prima persona, occuparsi prima di tutto della proprio benessere e della propria crescita, così da porsi nella relazione in modo vero, non falsificato, ossia come persona non perfetta, ma che piuttosto ricerca l’eccellenza; essere coerenti con l’altro significa riservargli lo stesso trattamento che riserviamo a noi, e quindi esprimere un interesse sincero, genuino, nei confronti della sua persona e del suo percorso di crescita.

Come si evince gli ingredienti della relazione di coaching sono tutti derivati dell’empatia; ed è questa che permettere di “evolvere nelle relazioni”, ovvero di costruire relazioni che, proprio perché basate sull’affinità, consentono di collaborare, condividere, crescere e migliorare. D’altra parte a questo punto dovrebbe essere chiaro che il coaching non è, e non sarà mai, un mero insieme strumenti di management, o peggio, di “tecniche di comunicazione efficace”; è piuttosto un modo salutare e costruttivo di entrare in relazione con l’altro, così come nelle intenzioni del suo padre fondatore. E difatti il manager che sceglie di agire secondo i suoi principi riesce:

• a far proprio quell’approccio elogiativo, totalmente focalizzato sulla persona, ovvero orientato al riconoscimento di ciò che è giusto per l’individuo, di ciò che funziona nella sua situazione contingente, di ciò che è necessario per arrivare all’obiettivo che si è posto; ma questa è la conseguenza di una scelta consapevole volta a ripudiare l’ipocrisia ed abbracciare l’autenticità nella relazione con l’altro;

• ad adottare uno stile non direttivo orientato all’autonomia, alla responsabilizzazione e all’apprendimento dei propri collaboratori; ma perché rinuncia alla posizione di esperto (colui che detiene costantemente nelle mani “il modo giusto” di fare le cose) suggerita dal proprio ego e con essa alle manie di controllo, concedendo invece fiducia alle persone, lasciandole libere di sperimentare e di contribuire attivamente

• ad assumere un approccio strenght-based orientato all’empowerment dei collaboratori; ma perché attraverso l’accoglienza è in grado di guardare oltre i ruoli e le performance per incontrare la persona e far emergere le sue risorse, i suoi talenti, le sue qualità

• ad essere risorsa per i propri collaboratori, ovvero a garantire tutto il supporto necessario alla loro riuscita, ad esempio perseguendo la chiarezza degli obiettivi, incoraggiando ad attivare risorse come la creatività o la determinazione, stimolando alla definizione di piani d’azione autodeterminati o comunque condivisi, offrendo feedback costruttivi di

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miglioramento che orientano l’azione; ma tutto questo parte dalla volontà del manager di essere il primo alleato dei propri collaboratori, in un rapporto collaborativo in cui ognuno si fa carico delle proprie responsabilità di ruolo in vista del raggiungimento degli obiettivi comuni

• ad accompagnare i collaboratori nella ricerca di ciò che vale nel proprio lavoro, ossia nella ricerca di scopo e di significato, nella scoperta dei valori individuali perseguibili nel lavoro e attraverso il lavoro; ma perché attraverso il dialogo fatto di ascolto globale e domande potenti, il manager accompagna la persona a scendere in profondità e a mettersi in contatto con la parte più autentica di sé per apportare trasformazione alla propria vita lavorativa. Tutto questo, come analizzato, alimenta l’engagement, la passione nel lavoro; la quale a ben vedere è veicolata, non da strumenti o tecniche sofisticate, ma dalla relazionalità positiva a cui il coaching stesso chiama. Ed in questo tipo di relazionalità è molto facile intravedere i segni della leadership supportiva, caratterizzata da elevati livelli di sostegno alla riuscita e allo sviluppo dei collaboratori (Xu, Cooper-Thomas, 2011); della leadership autentica che promuove il clima etico positivo e l’auto-sviluppo dei lavoratori (Walumbwa et al., 2010 cit. in Bridger 2016); della leadership trasformazionale che ispira e che trasforma, ovvero dà forma agendo sull’essere (Schaufeli et. al, 2012); insomma riscontriamo i segni degli stili di gestione strettamente collegati all’engagement. C’è, però, un ultimo aspetto da prendere in considerazione, che chiama nuovamente in causa l’integrità del manager e la sua capacità di essere di esempio. Agire secondo i principi del coaching, significa investire sul proprio miglioramento continuo e riservare lo stesso trattamento anche ai propri collaboratori attraverso la costruzione di relazioni basate su consapevolezza, accoglienza, ascolto, alleanza e autenticità. Il manager che sceglie di far propri tali principi, come evidenziato da Pannitti e Rossi (2012), diventa esempio di un modello positivo ed efficace di relazionalità applicabile alla vita, come al lavoro. E questo è di fondamentale importanza nella prospettiva dell’engagement perché i collaboratori, tendono ad imitare e rispecchiare gli atteggiamenti e i comportamenti dei leader. Dunque, quando gli stessi collaboratori introiettano l’esempio del manager/coach, iniziano autonomamente ad investire sul proprio sviluppo, sulla propria realizzazione e parimenti sulla qualità delle loro relazioni in modo da crescere, non più a scapito degli altri, ma assieme agli altri. E di conseguenza, prende forma quel clima rispettoso, supportivo e collaborativo, che sostiene ed alimenta l’engagement, ovvero un ambiente in cui ognuno si sente compreso nelle proprie istanze, accettato e valorizzato. Ma l’auspicio di Whitmore, il padre del coaching, era proprio questo: egli attendeva il giorno in cui la parola “coaching” sarebbe addirittura sparita dai vocabolari, essendo ormai diventato il modo comune di relazionarsi gli uni con gli altri sul lavoro e in ogni altra situazione di vita (Whitmore, 2003).

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Conclusioni

Nel report Engaging for Success si legge chiaramente che, per quanto il miglioramento delle performance e della produttività siano al centro dell’engagement, questo non può essere raggiunto con un approccio meccanicistico che tenta di estrarre sforzo discrezionale manipolando l’impegno e le emozioni dei lavoratori. Le persone, infatti, rintracciano simili tentativi molto facilmente, e questi portano al cinismo e alla disillusione (MacLeod, Clarke, 2009). L’engagement, al contrario, è soddisfazione, motivazione, identificazione e coinvolgimento; è orgoglio, lealtà, dedizione, ma anche entusiasmo e proattività; è voglia di fare, di sfidare lo status quo, di generare cambiamento, di apportare innovazione, di creare valore. L’engagement è autentica volontà di investire tutto il proprio essere nel lavoro; in una parola è passione, una passione che arde, dirompe e inevitabilmente contagia. In quanto tale, l’engagement richiede uno sforzo innanzitutto da parte di coloro che, in azienda, hanno i mezzi e l’influenza per migliorare l’esperienza lavorativa delle persone che la abitano. Tale sforzo si traduce, in ultima analisi, nel tentativo di creare e diffondere culture organizzative di valore, che mettano realmente al centro le persone, il loro benessere, la soddisfazione dei loro bisogni e aspettative di crescita, la valorizzazione e lo sviluppo dei loro talenti.

Tutto ciò, come analizzato, deve essere coerentemente perseguito attraverso le politiche di gestione delle risorse umane (livello macro) e gli stili di conduzione agiti al livello operativo (micro). Le prime, infatti, rappresentano la promessa di valore che l’azienda fa alle persone, quelle persone che la vivono e la rendono viva; lo stile di leadership, invece, rappresenta il modo in cui, di fatto, l’azienda mantiene la sua promessa. Difatti, in merito al primo aspetto, ad esempio, è emersa l’estrema importanza di strumenti come:

• gli audit di benessere, che permettono di prendersi cura dei lavoratori, in modo efficace e mirato;

• la contrattazione individuale e i premi di risultato, attraverso cui l’azienda riconosce il valore e l’impegno dei propri collaboratori;

• i piani di sviluppo carriera personalizzati e necessariamente basati sul merito;

• la valutazione delle prestazioni focalizzata, non solo sui risultati, ma anche sui comportamenti coerenti con i valori organizzativi e soprattutto sul potenziale inespresso delle persone;

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• le tecnologie che consentono una comunicazione two-way, in modo che la voce dei lavoratori, ossia le loro istanze e il loro contributo, risuoni in tutta l’organizzazione; • i sistemi di work-life balance, che rappresentano un ulteriore modo di andare incontro alle

esigenze delle persone, consentendo loro una reale conciliazione tra lavoro e vita privata; • le strategie di ridisegno delle mansioni, che consentono di prevenire fenomeni altamente

nocivi come il boreout, stimolando i lavoratori ad acquisire nuove conoscenze e abilità, coerentemente con i loro interessi e le loro potenzialità;

• e, non da ultimi, gli interventi di formazione e sviluppo, che come evidenziato dai teorici dell’engagement, devono porsi l’obiettivo di migliorare i comportamenti rilevanti per la performance intervenendo attivamente sugli atteggiamenti, le credenze e i valori; in altri termini devono puntare al saper essere, non solo al sapere e al saper fare.

Tali pratiche e strumenti risultano fondamentali proprio perché stimolano l’impegno e l’identificazione dei lavoratori nei confronti della propria azienda. E’ evidente, però, che la logica sottostante questo tipo di gestione è relazionale, non più transazionale: essa si spinge oltre il tradizionale scambio tra lavoro e salario, e presuppone invece una costante interazione tra azienda e lavoratori volta finalmente a conciliare e soddisfare interessi, esigenze e aspettative di entrambe le parti. In questo quadro, la funzione HR svolge un ruolo sicuramente cruciale, che è quello di mediare tra l’organizzazione e le persone che la popolano. Ma la mediazione, come noto, è un’arte che implica necessariamente la capacità di “stare in mezzo” ai contendenti e di “metterli in relazione”. La funzione HR, difatti, appartiene al medesimo spazio (l’azienda) delle parti storicamente in lotta (la proprietà e i lavoratori), ma si eleva al di sopra il conflitto, al livello della neutralità, dove c’è la possibilità di comprendere le reali ragioni che animano l’una e l’altra parte. E allo stesso tempo si attiva per trasformare lo scontro in incontro; un incontro che permetta agli