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Capitolo 2 – I drivers del work engagement

2.9 Riflessioni conclusive

In questo capitolo abbiamo analizzato i principali drivers, le leve dell’engagement, evidenziando che una parte di loro dipende direttamente dai sistemi di gestione implementati a livello macro- organizzativo (corrispondenza persona-lavoro-organizzazione, retribuzioni, sicurezza lavorativa e/o occupabilità, sviluppo di carriera, formazione, bilanciamento tra lavoro e vita privata); mentre un’altra parte, ugualmente importante, dipende dallo stile di gestione e conduzione adottato a livello micro-operativo (attività sfidanti, autonomia, finalità, atmosfera lavorativa, sostegno, possibilità di confronto e condivisione, gestione costruttiva dei conflitti, chiarezza dei ruoli e degli obiettivi, partecipazione, feedback, empowerment). Particolare enfasi è stata posta sull’individuazione delle pratiche HR in grado di sostenere e sviluppare l’engagement; attraverso un’analisi della letteratura abbiamo quindi riscontrato l’importanza di:

• processi di reclutamento e selezione volti a ricercare la coerenza persona-lavoro- organizzazione;

• politiche retributive e piani di sviluppo carriera personalizzati e in ogni caso basati sul merito;

• valutazione delle prestazioni focalizzate sui risultati ma anche sui comportamenti;

• adozione di strumenti e tecnologie che garantiscano una comunicazione two-way tra azienda e collaboratori;

• sistemi di work-life balance che vanno incontro alle esigenze dei lavoratori, permettendo una reale conciliazione tra vita privata e lavorativa;

• e soprattutto, interventi formativi ad ampio spettro che puntano al saper essere della persona, oltre che al sapere e al saper fare.

Tali pratiche, altrove definite commitment-based (SDA Bocconi, Towers Perrin Italia, 2009) proprio perché orientate a stimolare l’impegno e l’identificazione dei lavoratori nei confronti della propria azienda, rappresentano, in sostanza, i principali strumenti a disposizione degli operatori

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HR nella prospettiva di un miglioramento dell’engagement.

D’altra parte, è emerso chiaramente che anche i manager hanno un ruolo decisivo: hanno la responsabilità non solo dei risultati delle persone con cui lavorano, ma del loro benessere, della loro soddisfazione, della loro motivazione e del loro empowerment. Di conseguenza l’attenzione si è focalizzata sulle zone di responsabilità congiunta, la cui ampiezza ha confermato la necessità di una vera e propria partnership tra le due funzioni chiave della people strategy.

L’indagine Cranet, ha evidenziato che anche a livello italiano si sta procedendo in questa direzione: i manager sono maggiormente coinvolti nei processi di reclutamento e selezione, nella definizione delle politiche retributive e degli avanzamenti di carriera, nella valutazione delle performance. E allo stesso tempo, analizzando la letteratura è emersa la portata del sostegno che le direzioni HR possono apportare al management di linea, ad esempio attraverso la predisposizione di audit di benessere finalizzati al miglioramento dell’atmosfera e dell’ambiente lavorativo; attraverso l’implementazione di strumenti e tecnologie che consentano di raccogliere le esigenze e i contributi dei lavoratori; che permettano loro di aiutarsi e/o congratularsi reciprocamente, di condividere conoscenze, di conoscersi personalmente, di collaborare, nella ricerca di soluzioni come nello sviluppo di innovazioni.

Ma soprattutto le direzioni HR possono e devono collaborare assieme al management per sostenere l’apprendimento e lo sviluppo continuo dei lavoratori, così da innescare quel sentimento positivo di valorizzazione che è alla base dell’engagement. Shaufeli e Salanova ci ricordano, a questo proposito, che le azioni di formazione devono porsi l’obiettivo prioritario di modificare i comportamenti rilevanti per la performance intervenendo attivamente sugli atteggiamenti, le credenze e i valori dai lavoratori (Schaufeli, Salanova, in Naswall et al., 2008). Questo significa, in sostanza, coltivare il saper essere delle persone, le loro risorse, i loro punti di forza, le loro abilità, i loro talenti, il loro senso di responsabilità.

In tal senso, l’indagine Cranet evidenzia che anche nell’ambito della formazione si sta sviluppando la partnership di cui dicevamo: nel 51% dei casi le direzioni HR coinvolgono i manager di linea per la progettazione e l’implementazione degli interventi formativi. Tuttavia, a nostro avviso, una media annuale di 5 giorni di formazione, riportata dalla citata indagine, non può considerarsi sufficiente per perseguire lo sviluppo dei lavoratori. Probabilmente, questo è uno dei motivi per cui la stessa indagine rileva ancora, a livello italiano, un’attenzione “selettiva” alle dimensioni della people strategy: in sostanza negli ultimi anni le pratiche HR non hanno trascurato in toto l’engagement dei dipendenti ma si sono focalizzate più sulle esigenze operative (es. allineamento delle competenze in funzione delle esigenze di mercato), riservando minore attenzione ai temi del coinvolgimento emotivo e del benessere individuale in azienda. A maggior ragione, bisogna tener

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presente che il campione di riferimento è composto da aziende di grandi dimensioni (con più di 200 dipendenti in organico); eppure il territorio italiano pullula di piccole e addirittura microimprese20, dove presumibilmente la situazione potrebbe essere ulteriormente sbilanciata in

favore dell’efficienza, piuttosto che dell’engagement, se non altro per la minore consapevolezza di simili aspetti gestionali. Per questo è fondamentale che il benessere, la valorizzazione, lo sviluppo, e per loro tramite, l’engagement dei lavoratori sia perseguito attivamente e quotidianamente da coloro che ne sono responsabili a livello operativo, siano essi manager, supervisori, diretti superiori o semplicemente capi.

All’inizio del capitolo abbiamo anticipato che l’engagement può essere inteso come il prodotto, da un lato di sistemi di gestione delle risorse umane definiti commitment-based; dall’altro lato, di stili di conduzione e gestione orientati all’empowerment dei dipendenti (SDA Bocconi, Towers Perrin Italia, 2009). L’entità e l’apporto dei primi è già stato analizzato; resta però da indagare il significato dei secondi e lo faremo, nelle pagine che seguono, entrando nel merito di una particolare metodologia definita coaching.

20 La struttura dimensionale del sistema produttivo italiano è dominata dalla forte prevalenza di piccole e micro imprese (rispettivamente con meno di 50 addetti, e meno di 10): le unità produttive di queste classi rappresentano il 99,4 per cento del totale, spiegano oltre i due terzi dell’occupazione complessiva e producono il 51,9 per cento del valore aggiunto totale. Fonte: rapporto Istat 2014 [on-line: http://www.istat.it/it/files/2014/05/cap2.pdf]

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