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Rapporto tra lavoro e vita privata

Capitolo 2 – I drivers del work engagement

2.5 Rapporto tra lavoro e vita privata

Il rapporto tra lavoro e vita privata è un altro driver importante per l’engagement. Più precisamente molteplici studi hanno dimostrato che l’engagement risulta influenzato sia dalla qualità dell’esperienza privata, sia dalla possibilità di conciliare adeguatamente la vita privata e quella lavorativa. Infatti, in merito al primo punto, Schaufeli e colleghi hanno riscontrato che i lavoratori nelle condizioni di vantare un’esperienza complessivamente positiva entro lo spazio privato, mostrano livelli significativamente più elevati di engagement in virtù del fenomeno già richiamato del contagio emotivo (Schaufeli, Salanova, in Naswall et al., 20089). D’altra parte anche la possibilità di godere la vita privata appare rilevante ai fini dell’engagement, ed è proprio in ciò che si evince la grande differenza tra i lavoratori engaged e quelli dipendenti dal lavoro. Questi ultimi lavorano intensamente per ossessione o obbligo morale; un bisogno compulsivo li spinge a lavorare e non fermarsi, anche a costo di annullare la propria dimensione privata. Si tratta quindi di persone che, se non lavorano, si sentono inutili, in colpa, tese e incapaci di rilassarsi (Schaufeli et al., 2012). Al contrario i lavoratori engaged lavorano altrettanto intensamente perché provano piacere e danno valore all’attività che svolgono, ma attribuiscono grande importanza anche al tempo libero, per cui investono nella vita privata, nella famiglia, negli hobby o nelle amicizie. Ecco quindi che il tema del bilanciamento tra i due ambiti di vita diventa cruciale, necessitando di opportuna gestione.

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Da questo punto di vista gli operatori HR risultano senza dubbio protagonisti in quanto sono loro a farsi carico dei bisogni dei dipendenti. I manager di linea possono certamente coadiuvare le direzioni HR, ad esempio portando alla luce eventuali situazioni di tensione o malcontento sfuggite al loro presidio. Ma il compito di intercettare le esigenze mutevoli dei lavoratori, fornendo loro risposte adeguate, spetta a coloro che hanno il privilegio di chiamarsi “responsabili delle risorse umane”. In tal senso è fondamentale, innanzitutto, progettare strumenti e strategie che consentano di accogliere la voce dei dipendenti, in modo da instaurare una comunicazione autenticamente a due vie tra l’organizzazione e le persone che la popolano. Si tratta di un aspetto centrale ai fini dell’engagement, tanto è vero che già nel report Engaging for Success la voce dei dipendenti è inclusa tra i fattori facilitanti. Secondo gli autori, infatti, una delle caratteristiche più evidenti delle organizzazioni ad alto livello di engagement consiste proprio nella loro capacità di sollecitare e ricercare il punto di vista dei dipendenti; questi ultimi sono realmente ascoltati nelle loro istanze e percepiscono che il loro giudizio conta e fa la differenza (MacLeod, Clarke, 2009). Naturalmente questo aspetto lo ritroveremo centrale anche al livello micro, seppur con sfumature diverse; per il momento, però, ci interessa entrare nel merito delle pratiche HR tese ad originare una comunicazione two-way. In tal senso si possono individuare sostanzialmente tre approcci (Bridger, 2016): un approccio tradizionale che si avvale di rappresentanti, dai classici sindacati ai team di progetto costituiti da dipendenti che periodicamente si riuniscono per affrontare questioni specifiche da portare all’attenzione dell’azienda; un approccio diretto che si avvale di strumenti dedicati come sondaggi e questionari, forum sulla intranet aziendale, gruppi di ascolto on-line e off-line, briefing faccia a faccia; infine un approccio più informale che si avvale della collaborazione dei manager nel ruolo di mediatori tra i lavoratori e le direzioni HR (come anticipato, il management di linea può comunque giocare un ruolo).

Chiaramente una volta raccolte e comprese le istanze dei lavoratori bisognerà ricercare e progettare soluzioni adeguate. In particolare, per quanto riguarda il tema della conciliazione tra lavoro e vita privata (work-life balance), gli operatori HR possono ricorrere agli strumenti di welfare aziendale o dello smart working. Nel primo caso facciamo riferimento all’insieme di azioni attivate dall’azienda al fine di erogare servizi integrativi, di supporto ai dipendenti e le loro famiglie. Il welfare aziendale può articolarsi in diverse forme, dai servizi di cura (es. asili nido aziendali, servizi di baby sitting o di assistenza per gli anziani) a quelli pensati appositamente per risparmiare tempo (es. disbrigo di pratiche burocratiche e amministrative, consegna della spesa in azienda, servizi di lavanderia e stireria o di lavaggio e assistenza auto) o denaro (es. mensa aziendale, buoni pasto, convenzioni per l’acquisto dei libri per i figli o per i servizi medici, bancari, assicurativi, servizi di car-sharing). Per smart working, invece, si intende quell’insieme di azioni volte a consentire uno svolgimento della prestazione flessibile rispetto all’orario o al luogo di lavoro.

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Pensiamo ad esempio al lavoro a tempo parziale, o alle forme di lavoro a distanza abilitate attraverso la tecnologia, o ancora alle forme di organizzazione del lavoro per fasi o cicli. Inoltre l’indagine Cranet, a buona ragione, include tra le pratiche di work-life balance anche i congedi legati alla genitorialità (maternità, paternità, parentale) oppure allo studio e alla formazione. Dunque, si capisce perfettamente come simili misure, garantite dalla legge o progettate dai responsabili HR sulla base di specifiche esigenze dei lavoratori, abbiano un impatto notevole in termini di conciliazione e ottimizzazione della vita privata e di quella lavorativa, con ovvie ricadute sull’engagement.

Tuttavia, da questo punto di vista l’indagine Cranet evidenzia le maggiori lacune. Ad esempio, nonostante le aziende partecipanti abbiano dichiarato di offrire ai propri collaboratori misure aggiuntive rispetto a quanto già previsto per legge, nel settore privato si registra una diminuzione di tutte le pratiche di work-life balance, in specie quelle riguardanti i congedi (di paternità, parentale, per studio e formazione). Gli stessi servizi di welfare e di smart working, in Italia, stentano a decollare, sia per una questione culturale (nel nostro paese non si sono compiute ampie sperimentazioni né pubbliche né aziendali sui temi di welfare) sia per una questione tecnico- economica (si tratta di misure sicuramente costose per l’azienda, basti pensare allo smart working che necessita di una solida architettura tecnologica per la gestione). E’ chiaro quindi che su questo terreno ancora molto, moltissimo, può essere fatto.