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L’origine e i principi del coaching

Capitolo 3 – Il contributo del Coaching all’Engagement

3.2 L’origine e i principi del coaching

Nel capitolo precedente abbiamo anticipato la differenza tra management e leadership, facendo riferimento al contributo di Bellandi (2006). Il management, come abbiamo visto, è un processo razionale basato sul coordinamento di attività concrete che mirano a risultati tangibili. Il manager, infatti, è colui che pianifica (fissa gli obiettivi e il piano d’azione per raggiungerli), organizza/coordina (persone, risorse, attività) e controlla (se quanto programmato risulta via via conseguito). Si tratta, quindi, di un processo di gestione che, finché resta imprigionato nella logica della gerarchia e del comando, implica la passività del soggetto “esecutore”: è il manager che gestisce le attività e i collaboratori; questi ultimi semplicemente eseguono. La leadership, invece, in ambito aziendale, è un processo di guida finalizzato ad influenzare positivamente la performance dei dipendenti. Il leader, in altri termini, non pretende di sostituirsi ai propri collaboratori, i quali restano intesi come soggetti attivi e artefici dei loro stessi risultati; egli mira piuttosto ad ispirarli, motivarli, responsabilizzarli, coinvolgerli e supportarli nello sviluppo di capacità e nel raggiungimento di obiettivi. In tal senso non è un caso che il coaching si stia diffondendo nel mondo aziendale soprattutto come strumento per sviluppare la leadership dei manager22, ovvero per favorire il passaggio da una cultura manageriale focalizzata esclusivamente

sulla pianificazione e sui risultati, ad una nuova cultura focalizzata prima di tutto sulla persona e sul suo sviluppo, poiché è da questo che dipendono i suoi risultati.

22 Fonte: Rapporto Speciale 2017. Focus sul Coaching. A cura di Rosamaria Sarno, Harvard Business Review, luglio/agosto 2017, pp. 100-132.

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Ebbene: cos’è il coaching e quali sono i suoi principi? Il termine coach, nella lingua inglese, significa sia “allenatore”, sia “carrozza, veicolo”. Il primo concetto richiama il processo di miglioramento continuo volto alla realizzazione di performance sempre più elevate; il secondo concetto richiama il processo di accompagnamento verso il raggiungimento di una meta specifica. Il coach, quindi, è sia colui che stimola l’individuo (coachee) a scoprire, acquisire, attivare e sviluppare competenze e risorse che gli consentano di agire in maniera autonoma ed efficace, ottenendo risultati qualitativamente migliori nel proprio ambito di applicazione; sia colui che, concretamente, accompagna la persona da un luogo di partenza (stato attuale) ad un luogo di arrivo (stato desiderato), supportandola nell’identificazione della meta da raggiungere (obiettivo) e del percorso da intraprendere (piano di azione).

Volendo sintetizzare si potrebbe dire che il coaching punta allo sviluppo, all’autonomia e alla riuscita dell’individuo. Tali aspetti, oltre ad essere reciprocamente collegati, risultano strettamente connessi ai temi della motivazione e del benessere, che a loro volta rappresentano specifiche dimensioni dell’engagement. Abbiamo già visto, ad esempio, che lo sviluppo (inteso come ampliamento della sfera della competenza: sapere, saper fare, saper essere), e l’autonomia concorrono all’auto-determinazione individuale e costituiscono la base della motivazione intrinseca (Deci, Ryan, 2000); analogamente, secondo la teoria del goal setting, la definizione di obiettivi specifici da raggiungere (che è la condizione primaria per la riuscita) sottende importanti meccanismi motivazionali, come l’attenzione focalizzata, la regolazione dello sforzo, l’aumento della tenacia o l’ideazione di strategie d’azione alternative (Locke, Latham, 1990). Ma a maggior ragione la riuscita, che è frutto della volontà (autonomia) e dell’esercizio (sviluppo), rappresenta un’importante dimensione del benessere individuata da Seligman. L’autore, infatti, a distanza di circa dieci anni dalla pubblicazione de La costruzione della felicità (2002), rivisita e integra la Teoria della felicità autentica, a suo avviso incompleta alla luce di studi e ricerche più recenti. In particolare, le critiche che egli stesso muove alla precedente formulazione, riguardano (Laudadio, Mancuso, 2015): la mancata considerazione di variabili parimenti concorrenti ad accrescere il livello di felicità negli individui, ad esempio il raggiungimento di specifici risultati da cui deriva un appagante senso di riuscita; la distorsione derivante dalla comune concezione del termine felicità, il cui significato, essendo associato in via prioritaria all’emotività positiva (“l’essere di buon umore”, “il sentirsi allegri”), riesce a dar conto solo forzatamente delle altre due componenti del costrutto individuate dall’autore, ovvero il coinvolgimento e la finalità; ma soprattutto l’inadeguatezza del principale indicatore usato nella misurazione della felicità, ovvero la soddisfazione di vita, quindi un indicatore che, di nuovo, non può rendere conto di quanto significato le persone attribuiscano alla propria esistenza (finalità) né di quanto coinvolgimento

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sperimentino. Queste considerazioni inducono Seligman a rivedere la sua Teoria della felicità autentica, che nel 2011 viene ampliata e ribattezzata come Teoria del benessere23. In essa la felicità,

intesa come emotività positiva (Positive Emotion), diviene una delle componenti del costrutto più ampio di benessere, assieme ai due fattori individuati in precedenza, il coinvolgimento (Engagement) e la finalità (Meaning), e con l’aggiunta di due nuove dimensioni: le relazioni positive (Relationship) e, appunto, la realizzazione (Accomplishment), intesa come riuscita nelle imprese intraprese, come raggiungimento dei risultati auspicati o degli obiettivi prefissati. Chiaramente questo ampliamento di prospettiva ha delle ripercussioni sulla stessa configurazione della Psicologia Positiva24 la quale, da scienza incentrata sulla felicità e orientata all’incremento

della soddisfazione di vita, diventa scienza incentrata sul benessere e orientata al flourishing della persona, ovvero alla sua fioritura, al perseguimento del suo funzionamento ottimale, proprio attraverso il miglioramento delle cinque dimensioni del benessere. Dunque, il fatto che il coaching punti alla riuscita dell’individuo, come pure al suo sviluppo e alla sua autonoma determinazione, rende perfettamente l’idea di quali siano i propositi profondi della metodologia: l’essere di beneficio alla persona, la volontà di innescare in essa un processo di trasformazione evolutiva che prende avvio dalla consapevolezza e punta, come la stessa Psicologia Positiva, all’eudaimonia intesa come condizione di perfetta collocazione dell’individuo nel mondo che comprende contemporaneamente il benessere psicologico, l’espressione di virtù, l’eccellenza, la motivazione intrinseca, l’autenticità e lo scopo nella vita (Wong, 2011, cit. in Laudadio, Mancuso, 2015). Nonostante il risvolto educativo-formativo della metodologia, bisogna dire che il coaching moderno vede le sue origini in un particolare ambito, quello sportivo, dove il coach è di fatto l’allenatore, ovvero il professionista che ha il compito di supportare il singolo giocatore o l’intera squadra nell’introiettare i principi dello sport in questione e nel potenziare abilità pratiche e strategiche. Dunque, proprio in questo contesto comparvero le prime e innovative teorie che già intravedevano nel coach qualcosa di più rispetto al semplice istruttore tradizionalmente inteso. Infatti, nel 1974 fu pubblicata un’opera dal titolo The Inner Game of Tennis; a scriverla Timothy Gallwey, un pedagogista dell’Università di Harvard, grande appassionato ed esperto di tennis. Le sue idee, in un certo senso, sovvertirono il concetto stesso di agonismo: innanzitutto, annunciò Gallwey, l’avversario non è il “nemico” dell’atleta, ma il suo migliore alleato perché lo mette nelle condizioni di ricercare e attivare le risorse fisiche e mentali necessarie per batterlo, innescando un processo di progressivo miglioramento della performance; in secondo luogo, decretò l’autore, ogni incontro sportivo implica di fatto due partite, una contro l’avversario in carne e ossa, l’altra, di

23 Esposta nell’opera Fai fiorire la tua vita (Seligman, 2011).

24 Molti autori parlano di una seconda fase della disciplina, inaugurata proprio dall’introduzione della Teoria del benessere in luogo della precedente Teoria della felicità autentica (Laudadio, Mancuso, 2015).

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gran lunga più importante e decisiva, dentro se stessi. Questo gioco interiore (Inner Game) si svolge contro l’insieme di interferenze e pensieri de-potenzianti in grado di compromettere la qualità della performance e di condizionare l’esito stesso del match sportivo. Da qui la celebre formula secondo cui una prestazione di successo si ottiene riducendo al minimo le interferenze prodotte dall’Inner Game in modo da liberare il potenziale del performer (Performance = Potenziale – Inferenze). Quindi secondo Gallwey, il coach-allenatore doveva prima di tutto aiutare il giocatore ad acquietare il pensiero (ossia la mente cosciente che crea la disposizione all’auto- critica e alla micro-gestione) e a fidarsi delle proprie abilità inconsce; in secondo luogo, guidare il giocatore nel divenire consapevole di tali abilità latenti in modo da svilupparle e poi applicarle, sistematicamente ed in maniera cosciente. In tal senso si può dire che il metodo delineato dal pedagogista di Harvard andò a coniugare due elementi che costituiranno le fondamenta del coaching moderno, ossia la capacità di imparare dalle proprie esperienze e la capacità di essere consapevoli di ciò che si sta facendo e del perché.

Un passaggio essenziale per lo sviluppo e l’affermazione della metodologia introdotta da Gallwey, fu l’incontro tra il pedagogista di Harvard e Sir John Whitmore, ex pilota automobilistico, poi imprenditore, che ancora oggi è considerato il padre del coaching moderno. L’animo sportivo di Whitmore fu totalmente affascinato dal discorso sulle potenzialità avviato da Gallwey, perciò decise di cercare l’autore e approfondire l’argomento seguendo in prima persona i corsi da lui tenuti. Nel giro di breve tempo i due diventarono soci e fondarono in Gran Bretagna la Inner Game Ltd, prima vera scuola per coach, dando inizio ai corsi di Inner Tennis, alle settimane bianche di Inner Skiing e alle lezioni di Inner Golf25. In sostanza Gallwey e Whitmore cominciarono ad

insegnare agli aspiranti coach un nuovo approccio allo sviluppo del potenziale umano, fondato essenzialmente su:

• assoluta fiducia, da parte del coach, nelle capacità del giocatore;

• creazione di consapevolezza nel giocatore, stimolando l’osservazione e la riflessione sui punti di forza da sviluppare e sui limiti interni ed esterni da superare;

• adeguata valutazione delle esperienze passate attraverso il feedback costruttivo che avrebbe consentito al giocatore di modificare azioni e comportamenti non funzionali al raggiungimento dei suoi obiettivi;

• responsabilizzazione del giocatore attraverso l’educazione all’autonomia; l’approccio del coach è infatti elogiativo (finalizzato al riconoscimento di ciò che è giusto per la persona,

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di ciò che funziona nella sua situazione contingente, di ciò che è necessario per arrivare all’obiettivo che si è posta), ma mai prescrittivo.

Occorre precisare, però, che nonostante l’efficacia dei nuovi principi introdotti dal coaching, l’attività del coach-allenatore, in ambito sportivo, non ha subìto grossi cambiamenti: permangono infatti vecchi e radicati modelli comportamentali tipici dell’istruttore tradizionalmente inteso (Whitmore, 2003). Al contrario, a partire dagli anni Ottanta, l’approccio innovativo del coaching cominciò a sollevare l’interesse del mondo aziendale, il che a nostro avviso non deve sorprendere in quanto, se l’essenza del coaching consiste nel liberare le potenzialità per raggiungere l’eccellenza nella performance, l’azienda è uno di quei luoghi in cui tale esigenza ha ormai assunto la configurazione di un imperativo a garanzia della competitività, ovvero della sopravvivenza stessa della realtà organizzativa. Dunque, fu proprio Whitmore, assieme a David Hemery e David Whitaker che sarebbero diventati suoi collaboratori all’interno della Performance Consultance International26, ad adattare i presupposti del coaching sportivo all’ambiente lavorativo. Come

avremo modo di approfondire, alla base della sua idea di business coaching ritroviamo un approccio totalmente orientato alla persona, all’identificazione e la soddisfazione dei suoi bisogni, allo sviluppo delle sue risorse e del suo potenziale, al raggiungimento dei suoi obiettivi lavorativi e professionali. Tutto questo accompagnato e sostenuto dalla profonda convinzione che ciascun individuo abbia in sé tutte le risorse necessarie per riuscire: bisogna solo scoprirle e mobilitarle nel percorso verso l’auto-realizzazione.