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Reato politico e regimi liberali

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

3.2 Reato politico e regimi liberali

Con l’avvento della seconda metà dell’800 e il contestuale affermarsi di regimi liberali, il mutamento degli equilibri geografici e politici favoriscono l’affermarsi di un concetto autonomo di reato politico, connotato negativamente e “da un trattamento di dura repressione, se non propriamente persecutorio”209.L’ideologia liberale criticò il precedente regime, il quale aveva individuato nei crimina

maiestatis i reati più pericolosi, e le teorie dei giuristi

rispecchiano tale contrapposizione. In Italia, il riferimento in dottrina più autorevole è Francesco Carrara, il quale prende atto degli errori del passato e ritiene necessario il superamento del titolo di lesa maestà, alla base di molte delle iniquità dei previgenti sistemi repressivi autoritari, in quanto “Terribile e fantasmagorico. Terribile perché si

adagia sopra milioni di cadaveri. Fantasmagorico, perché ebbe per sua divisa di sostituire (…)ai precetti della giustizia i fantasmi della paura”.210 La rottura con il passato trova un contenuto più preciso in un altro passo dell’opera del Carrara, generalmente noto come il “rifiuto”: mancando un titolo, quello di lesa maestà, nel quale ricomprendere tutte le fattispecie di reato politico, l’Autore non è incline a sostituirlo con un altro termine onnicomprensivo: studi, esperienze e disinganni, anzi, lo hanno reso “scettico sulla esistenza possibile di un giure

penale filosofico e ordinato sopra principii assoluti nella materia del così detto reato politico”. Se, come scrive

Carrara, è vero che “politica e giustizia non nacquero

sorelle”, e che “la giustizia vegeta anche sotto i liberi

209

D. Manzione, Vecchie e nuove prospettive nei rapporti tra reato politico ed

estradizione, 1985, pag 218.

210 F. Carrara , Programma del corso di diritto criminale, parte speciale, vol. VII, Lucca, 1874, pag. 3918.

164

reggimenti, quando la politica se la pone tra le ugne”, al

giurista, per evitare l’asservimento al potere politico, non resta altra strada che il silenzio, vista in questo caso “l’inutilità delle sue speculazioni”211. Il pensiero del Carrara è da ricordare soprattutto per il suo carattere “estremo”212. L’illustre professore pisano, partendo dalle iniquità e dalle ingiuste discriminazioni dei poteri assolutistici, giustificate attraverso il titolo di lesa maestà, rifiuta, senza mezzi termini, di “dare copertura teorica alle pretese della ragion di Stato”213, e di conseguenza, giunto alla classe dei reati contro lo Stato, rinuncia a darne una trattazione specifica, affermando di poterne solo fornire una ricostruzione storica. Le conclusioni dell’Autore finiscono per influenzare largamente, anche se depurate delle implicazioni estremistiche, tutta la scienza penalistica di fine ‘800 e inizio ‘900. I giuristi, prendendo le mosse da Carrara, attraverso approcci teorici opposti e inconciliabili, riuscirono comunque “a sollevare dubbi, e a negare la connotazione criminale, la pericolosità del dissenso politico”214. Ne deriva un acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale, che apre nuove prospettive definitorie di un’area concettuale generale, ormai privata dei suoi confini originari. L’apertura ad un nuovo concetto di delitto politico è dovuta in primo luogo alla scuola classica. Gli esponenti di tale indirizzo si propongono di fornire margini certi all’intervento punitivo dello Stato, che deve poter reprimere i comportamenti che possono turbarlo, evitando però gli eccessi del

211

Le citazioni contenute fin qui sono tratte tutte da F. Carrara, Programma, cit., pagg. 3925, 3926, 3939.

212

L’attributo, semplice e calzante, è di Colao F., Politici e amnistia, tecniche di

rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, 1986, Verona, pag. 5.

213

D. Pulitanò’ , voce Delitto politico, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. III, 1989, Trieste, pag. 359.

214

165 passato. Ne deriva “la ricostruzione della definizione di reato politico intorno ad un ben determinato oggetto giuridico”215, e il fondamento di tale definizione sull’offesa dell’interesse tutelato dallo stato. In altri termini: il reato viene da più parti concepito come la negazione di un diritto tutelato216; per ogni reato speciale, dunque, il concetto è necessariamente ricavato “dalla specialità del diritto contro cui il fatto (criminoso) è diretto”217.Così, si ha buon gioco a definire il reato politico come una “aggressione alla forma del Governo e dello Stato”218, oppure un attacco contro “la struttura organica dello Stato, o la sua Costituzione”219. Indirizzi più completi elaborano addirittura nozioni molto più articolate, per cui può esistere reato politico solo al ricorrere di tre elementi costitutivi: in primo luogo, lesione diretta alla persona dello Stato; in secondo luogo, offesa ai diritti dello Stato concernenti il suo ordinamento politico e sociale; infine, interesse dello Stato a conservare, reprimendo l’illecito, lo stesso suo ordinamento politico e sociale220. Secondo tale lettura, che mette al centro della definizione il diritto o l’interesse protetto dall’apparato statuale, ha solo un ruolo secondario l’elemento dell’intenzione221.Lo scopo

215

M. Pelissero , Reato politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, 2000, pag. 28.

216

Più precisamente, secondo Napodano G, in I delitti contro la sicurezza dello

Stato, in enciclopedia del diritto penale italiano ,Milano, 1909: “l’essenza del reato

si apprende dall’essenza del diritto di cui è negazione”. Sulla stessa linea, CarmignaniI A., in Elementi di diritto criminale, Milano, 1863.

217

G. Napodano , I delitti, cit., pag. 80 218

P. Barsanti , Del reato politico, Macerata, 1887, pag. 16. Analogamente, F. Carfora , voce Delitto politico, cit., pag. 837

219

G. Napodano, I delitti, cit., pag. 80. 220

Tale apparato definitorio è riferibile a C. Gambirasio, voce Sedizione, in

Enciclopedia giuridica italiana, vol. XV, parte II, Milano, 1915, pag. 14.

221

P. Barsanti , Del reato politico, cit., pag. 52: “Siano pure i delitti politici mossi dal desiderio del conseguimento dei più alti ideali, quando questi reati sono un’offesa alla libertà e alla sicurezza del diritto, la legge non può disarmarsi per considerazioni subbiettive”.

166 politico, o animato da passione politica, che può spingere a commettere un delitto, non basta a farlo considerare un illecito politico: potrà avere un ruolo importante nella graduazione concreta della pena222, ma non consente assolutamente “di determinare la natura del reato, né tantomeno di escludere il delitto”223. Tirando le somme, si tratta di una nozione oggettiva del delitto politico, che mira, creando limiti al diritto di punire dello Stato, ad assicurare esigenze di certezza e garanzia, di cui si sono fatti portavoce gli esponenti della scuola classica. A perseguire gli stessi scopi, con metodi e contenuti differenti, furono anche i giuristi della scuola positiva, con in testa Enrico ferri. L’approccio di Ferri individua, in totale contrapposizione con gli Autori sopra richiamati, nel movente e nella personalità del reo i criteri idonei a fondare una definizione di delitto politico224.I motivi politici che determinano a delinquere non rilevano di per sé, ma secondo i principi generali della responsabilità legale, “quali indici rivelatori di una certa personalità,

222

Nella relazione al codice penale Zanardelli, riportata in A. Borciani , Delitti

contro lo Stato, Milano, 1899, la ratio della sostituzione della reclusione alla

detenzione in alcune ipotesi, sta proprio nel movente del delitto: “La reclusione può venire sostituita dalla detenzione in quei casi in cui, non risultando dalla natura stessa del fatto un pravo ed ignobile impulso in chi lo commise, il delitto potrebbe essere frutto soltanto di passione politica sovreccitata”.

223

M. Pelissero , Reato politico e flessibilità, cit., pag. 30. Il testo, in nota, riporta una citazione per ogni affermazione: il rilievo secondo cui “Un delitto comune con scopo politico(…)non diviene per ciò solo politico” risale a Moscatelli, I delitti

politici e gli attentati anarchici, in Rivista penale, 1899. , pag. 360; è invece

attribuita a Nocito P., in I reati di Stato con speciale riguardo all’alto tradimento, Torino, 1893, pag. 61, l’opinione secondo cui “Il dolo malo o la malvagia

intenzione non viene poi escluso dalla circostanza che il colpevole fosse animato dal più puro desiderio di giovare alla patria, o di compiere un dovere sentito profondamente nella coscienza”.

224

E. Ferri , Principi di diritto criminale, Torino, 1928, pag. 59: “Non è possibile dare una definizione obiettiva del delitto politico, mentre il criterio soggettivo dei motivi determinanti e della personalità del reo è il solo che risolva ogni difficoltà”. Accoglie tale orientamento anche M. Civoli, Manuale di diritto penale, Milano, 1900, pagg. 71 ss.

167 caratterizzata da una minore pericolosità sociale”225. I delinquenti politici hanno personalità di “illibati precedenti, di vita morale, di idealismo altruista (…) e sono cioè dei delinquenti passionali, che presentano il minimo di pericolosità”226. Al centro di tale lettura, dunque, la distinzione tra delitto comune e delitto politico, e il fondamento di tale differenza sul movente che spinge a delinquere, efficiente rivelatore della personalità del reo. L’impostazione è pienamente tributaria dell’evoluzionismo darwinista e degli approcci di Cesare Lombroso: secondo il giurista torinese, infatti, la punizione del delitto politico si giustifica “in quanto porta offesa al sentimento della conservazione, all’odio del novo, proprio della razza umana”227. In altri termini, la società è istintivamente conservatrice, e secondo la legge di natura ogni modificazione deve avvenire solo progressivamente. Ogni spinta brusca e repentina verso il progresso non è quindi un fenomeno fisiologico, anzi in linea giuridica viene percepito come un fatto antisociale, e quindi un delitto. La definizione di delitto politico, di conseguenza, è incentrata sul diritto della maggioranza “al mantenimento e al rispetto dell’organizzazione politica, sociale ed economica da essa voluta”. La lettura lombrosiana apre a una totale autonomia della delinquenza politica rispetto a quella comune: da un lato, la prima, definita “evolutiva”, perché improntata al progresso e connotata da movente altruista; dall’altro lato, la seconda, chiamata “comune”, o “atavica”, il cui movente è meramente egoistico228. I delinquenti politici, secondo i pensatori della scuola

225

Descrizione di M. Pelissero , Reato politico, cit., pag. 32. 226

E. Ferri E., Principi, cit., pag. 175. 227

C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla

giurisprudenza e alla psichiatria, Torino, 1897, pag. 288.

228 E. Ferri , Difesa sociale e difesa di classe nella giustizia penale, in Scuola

168 positiva, non sono mossi da scopi ignobili o di tornaconto personale, ma sono delle persone “Quasi sempre incensurate ed oneste, che hanno intenti ed ideali, più o meno utopistici, ma sinceri di miglioramento sociale, oppure sono mossi da filoneismo, non conformismo, spirito di sacrificio”229.Per questo motivo, lo Stato, fermo restando il suo diritto di reprimere violazioni alla sua integrità, dovrà considerare i fini che il reo si è prefisso, e accordare necessariamente un trattamento differenziato. In conclusione, la scienza criminalistica dell’800 muove da due capisaldi fondamentali: in primo luogo, la distinzione tra criminalità comune e delinquenza politica; in secondo luogo, la concessione al primo fenomeno di devianza di un regime di favore, che nel caso della scuola classica è semplicemente la liberazione del dissenso politico da una presunzione di pericolosità, mentre per quanto riguarda la scuola positiva è addirittura un motivo, se non di giustificazione, comunque di indulgenza nei confronti della fattispecie criminosa. Per tale delinquenza, dunque, e per chi la pone in essere,si fa strada una “configurazione quasi romantica”230: il delinquente politico è il combattente contro l’oppressione assolutista, contro la tirannia e, oltre a meritare la comprensione dello Stato, ha anche diritto all’elogio dei cittadini, perché è necessariamente un eroe. La letteratura, non solo giuridica, dell’epoca, è piena di riferimenti e richiami a personaggi fuori dagli schemi che, protetti dalle loro comunità territoriali, vivono e operano ai margini del potere, e cercano a loro modo di scardinarlo. Nell’immaginario collettivo, il delinquente politico è il protagonista dei moti rivoluzionari, che

229

E. Ferri , Principi, cit., pag. 611. 230

G. Quintero , La nuova immagine del reato politico e il terrorismo islamista, relazione presentata dall’Autore al Convegno Delitto politico e diritto penale del

169 diedero carte costituzionali agli stati Europei nel corso del secolo; è il proletario organizzato che ha avuto il coraggio di prendere le armi contro gli abusi del potere, dando vita a esperimenti di repubblica, effimeri ma di grande importanza storica; è il brigante delle zone rurali, che delinque per difendere sé, la propria famiglia e il proprio territorio da vessazioni inique del potere centrale231.In una parola, il reato politico è necessariamente protetto e compreso dallo Stato che lo subisce. Da tali premesse teoriche e culturali, non poteva che scaturire, per ogni forma di delinquenza politica, un atteggiamento di clemenza da parte del potere centrale, che si concretizzò in diverse modalità, sia in Italia che in Europa. Il primo, e molto importante, indicatore del nuovo corso del potere centrale è sicuramente visibile nel nostro Paese, negli anni successivi all’unificazione. Nel neonato regno d’Italia sono molto numerosi i provvedimenti di amnistia, indulto e condono: “nel periodo fino al 1915 se ne possono contare circa centoventi, da quelli più importanti o di portata generale a quelli con i quali viene semplicemente concessa, per esempio, una riduzione di pene militari”232. Di tali provvedimenti, solo una parte consiste in amnistie politiche, o comunque contiene norme relative a reati politici in senso ampio. Per il resto, gli atti di clemenza concernono reati a mezzo stampa e illeciti militari, fattispecie la cui politicità, sia pure intrinsecamente presente, aveva bisogno di uno sforzo dialettico per poter

231

Per una disamina sul ruolo dei briganti, e di altre figure simili di “eversori politici” nel neonato regno d’Italia, vedi P. Staccioli, I briganti della campagna

romana, Roma, 1996.

232 A. Santosuosso , Politicità dei reati e forme di decriminalizzazione, in A.A.V.V., Il

170 essere ricavata233, segno evidente di un allargamento della nozione di “reato politico”. Anche la struttura tecnica dei provvedimenti, oltre alla gamma delle fattispecie contemplate, è un segno di crescente chiarezza legislativa e di affrancamento, da parte dello Stato, del dissenso politico dall’ambito penale, e un’applicazione pratica del mutamento di concezione anche attraverso la nomenclatura utilizzata. Nei primi anni, infatti, il tenore letterale dei decreti è di una formulazione ermetica, circoscritta, e riferita a un evento storico-sociale, che ha fondato la repressione statuale234 . In questi casi, manca spesso qualsiasi indicazione del tipo ed entità dei reati da amnistiare, che sono perciò individuabili o in negativo, sulla base di alcune esclusioni, o comunque sulla base del riferimento storico-spaziale. Sempre di questi anni è la tendenza a legiferare in termini generali e astratti, senza esclusioni significative, e a parlare ancora di “reato politico” come fattispecie onnicomprensiva, lesiva di chi fosse in qualche modo titolare della maiestas235. La locuzione generale cade in desuetudine a partire dal 1881, e da allora l’atteggiamento legislativo cambia: si comincia ad indicare, infatti, lo specifico reato da amnistiare236, e a stabilire i requisiti necessari per il provvedimento, fatti coincidere con la commissione del reato “in occasione di

233

Secondo A. Santosuosso, Politicità, cit., è il caso della repressione della stampa anarchica e socialista, e, specie dall’inizio del ‘900, della propaganda

antimilitarista. 234

Così, per esempio, venne concessa amnistia per i “fatti avvenuti in Torino in settembre 1864 e in gennaio 1865” (R.D. n. 2160/1865), oppure “per i fatti di Genova” (R.D.n. 5860/1879).

235 La formula usata, per esempio, nelle amnistie del 1867 e del 1876, è la seguente: “reati politici commessi nel Regno, purchè non siano accompagnati o connessi a crimini contro le persone, le proprietà o le leggi militari o a reati di associazioni di malfattori”. Salve alcune limitazioni, il tenore della formula è generale, e di “Politicità” si parla ancora in termini di difesa assoluta del Regno. 236

I più “gettonati”, all’epoca, sono quelli di “Offesa al re”, “vilipendio delle istituzioni costituzionali”, “associazione sediziosa” e “istigazione a delinquere”. Per riferimenti più approfonditi, v. A. Santosuosso , Politicità, cit., pag. 4.

171 pubbliche dimostrazioni o tumulti”, o con il perseguimento, nell’agire concreto, di un vero “fine politico”. Si assiste, dunque, da un lato all’allargamento, e alla crescente regolamentazione in senso soggettivo, dell’ambito di “politicità” del reato, suffragato anche dalle pronunce giurisprudenziali dell’epoca237. Dall’altro lato, si nota anche una grande volontà dello Stato italiano di riconciliarsi con il passato, e di chiudere, con un atto di clemenza, vicende politiche prima represse penalmente. La visione “romantica” del reato politico, accolta dal legislatore e dai giudici italiani, conduce a un trattamento di favore per i suoi protagonisti, volto a riabilitarli e a coinvolgerli nel nuovo corso liberale del Regno d’Italia238

237

Per tutte, risulta particolarmente indicativa una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, datata 07/10/1876, in Rivista penale, VI, 1877, pag. 44: la Corte, sulla base del rilievo secondo cui “La sostanza del reato politico non si definisce nella maggiore o minore pena assegnata, ma dal suo scopo, cioè se diretto in un senso o in un altro a esercitare un’azione illegittima sul congegno delle pubbliche istituzioni dello Stato”, fatto proprio dal tribunale di Catania alcuni anni prima, decise che “La sottrazione di una scheda dalle urne elettorali non cessa di essere un reato politico per essere stata commessa in occasione di elezioni

amministrative”. Per una disamina più completa, cfr. A. Santosuosso, Politicità, cit.

238

Un’opinione indicativa sugli intenti, in materia, della classe dirigente italiana, venne esternata nel 1866 dal deputato Boggio, proponente della legge abrogativa di formalità per la riabilitazione ai diritti civili e politici per gli amnistiati

dell’epoca: “L’amnistia corrisponde al bisogno di stendere, dopo una qualche viva

e grande commozione politica, un velo di oblio sul passato; di vero oblio, non di un perdono umiliante, il quale permetta a tutti coloro che ieri erano proscritti, e che mai si inchinerebbero a domandare grazia, perché convinti sempre di aver bene operato, anche compiendo quegli atti pei quali furono condannati, di ridiventare cittadini liberi, e di recuperare il pieno godimento dei diritti civili e politici”.

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