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Le prove : l’acquisizione per tormenta

CAPITOLO I : Diritto criminale romano e sua

2.5 Crimen maiestatis e risvolti processualistici

2.5.1 Le prove : l’acquisizione per tormenta

Un elemento anomalo, caratteristico dei processi per lesa maestà, era il ricorso alla tortura, utilizzata senza limite come strumento di indagine processuale. Per i primi decenni del Principato mancano evidenze di questa pratica nelle fonti giuridiche, anche perché il ricorso ai tormenta sarebbe stato incompatibile con l’immagine che Augusto e i suoi primi discendenti volevano far trasparire all’esterno. Le fonti letterarie non sono, però, altrettanto silenziose e dimostrano come Augusto, Tiberio, Caligola, Nerone e Domiziano fecero ricorso alla tortura per mettere allo scoperto vere o presunte congiure, così come ogni genere di offesa o attentato alla maiestas imperiale.Cassio Dione riferisce che nell’anno 8 a.C. fu violata per la prima volta l’antica tradizione repubblicana, per la quale non era consentito far torturare uno schiavo al fine di fornire prove contro il suo padrone139. Augusto infatti, dopo aver constatato che molti traevano vantaggio dall’antico sistema per complottare contro la sua persona o contro i magistrati, escogitò un espediente per aggirare l’ostacolo: stabilì che ogni volta che si presentava la necessità di approfondire le indagini, gli schiavi dovessero essere venduti allo Stato o a lui stesso, perché potessero essere legittimamente interrogati.Tacito, invece, riconduce la prima applicazione di questa prassi a Tiberio: in occasione dell’accusa di lesa maestà contro Libone Druso, il quale insisteva nel negare ogni responsabilità, il Principe avrebbe reputato necessario torturare gli schiavi, perché erano i soli a poter riconoscere la scrittura del padrone. Dal momento che un antico provvedimento del Senato avrebbe impedito la tortura degli schiavi, Tiberio

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107 astutamente avrebbe inventato un nuovo sistema giudiziario, imponendo che gli schiavi fossero venduti ad altrettanti agenti del Fisco, affinché si potesse farli deporre contro Libone senza violare la legge140. Il passo successivo fu costituito dall’estensione della tortura agli uomini liberi. Diverse testimonianze, pervenuteci per lo più nelle opere storiografiche, affermano che in numerosi processi per lesa maestà, svoltisi durante il I secolo dell’Impero, l’acquisizione della prova del reato sarebbe avvenuta attraverso il ricorso ai tormenta, anche per gli imputati liberi e cittadini romani141.A tal proposito la dottrina, si può dire assolutamente unanime sul punto, ritiene che l’utilizzo dei tormenta, ai fini della repressione penale142, sugli uomini liberi avrebbe iniziato a diffondersi nella realtà processuale romana proprio a seguito dell’avvento del Principato, come conseguenza da un lato del carattere autoritario che caratterizzò già ab initio (nonostante le apparenze e la propaganda) il nuovo regime e, dall’altro, dell’affermarsi delle cognitiones extra

ordinem, che andarono acquisendo, almeno per i

principali reati, la competenza delle corti permanenti. In tali cognitiones, come è noto, non operavano più i vincoli e le restrizioni della giurisdizione ordinaria, essendo lo svolgimento del processo pienamente rimesso alla discrezionalità degli organi giudicanti.Tuttavia tale utilizzo,

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Tac., Ann. 2,30,3 141

Cfr., in specie, per il Principato di Augusto, Svet. Aug. 19,2; 27,4; per Tibero, Svet. Tib. 19; 58; 62,1,3; Tac. Ann. 3,50,1–2; 4,45,1–2; Dio Ca. 57,19,2; per Gaio Caligola, Sen. De ira 3,18,3; Dio Ca. 59,25,5 e 6; Svet. Calig. 32,1; per Claudio, Dio Ca. 60,15,5–6; 16,1–3; 31,4–5; Tac. Ann. 11,22,1; Svet. Claud. 34,1; per Nerone, Tac. Ann. 14,24,3; 15,44,2–5; 15,56,1–4; 57; 16,20,2; per Domiziano, Svet. Dom. 10,5

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Il ricorso ai tormenta per i cittadini romani fu categoricamente escluso nella legislazione come nella prassi, salvo qualche rara, arbitraria eccezione, per tutto il corso dell’età repubblicana, durante il quale la tortura era stata riservata ai soli schiavi

108 per quanto diffuso, sarebbe rimasto una prassi contra

legem, almeno per tutto il I secolo del Principato, di fatto

attuata e tollerata nel costume giuridico, ma non supportata comunque da alcuna disposizione legislativa. Questa opinione unanime della dottrina, pur non rinnegando il frequente ricorso alla tortura del reo nella repressione penale già nel periodo giulio - claudio e flavio, nega ad esso qualunque legittimità, basandosi fondamentalmente su un unico argomento: l’atteggiamento degli storiografi, i quali, nel riferire sui numerosi processi nel corso dei quali sarebbe stata impiegata la tortura per estorcere all’imputato libero una confessione, avrebbero manifestato la loro chiara disapprovazione al riguardo.Questa interpretazione merita, però, di essere riveduta in quanto non trova reale riscontro nel quadro offertoci dall’insieme delle fonti a nostra disposizione.Ai fini di valutare se il testimoniato impiego della tortura sui liberi e sui cives nei processi per lesa maestà risalenti al I secolo d.C. sia stato effettivamente solo una prassi arbitraria, bisogna tener presenti tre circostanze determinanti; la prima è che, almeno a stare alle indicazioni forniteci dalle fonti giuridiche, il Principato si apre con due disposizioni legislative riguardanti la tortura giudiziaria dei cives.La più risalente in ordine di tempo si colloca nel 27 a. C., almeno secondo la datazione generalmente accolta143, ed è la norma contenuta nella lex Iulia maiestatis, di cui ci forniscono testimonianza un brano delle Pauli Sententiae e una costituzione del Digesto, e con la quale Augusto avrebbe consentito l’utilizzo indiscriminato della tortura nelle indagini relative ad ipotesi delittuose rientranti

143 Per questa datazione v. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Republic

109 nell’ambito del crimen maiestatis. L’altra disposizione augustea riguardante la tortura è la clausola della lex Iulia

de vi publica, emanata plausibilmente tra il 19 e il 16 a. C.,

con cui il Princeps punì a titolo di vis publica, sottoponendolo alla competenza di un’apposita quaestio, il comportamento del magistrato che avesse torturato un cittadino adversus provocationem, senza tener conto cioè dell’interposta provocatio144.In ogni caso, queste due disposizioni, lette in correlazione, forniscono un quadro abbastanza chiaro della politica legislativa di Augusto riguardo all’utilizzo della tortura giudiziaria sugli uomini liberi e sui cittadini romani. Augusto, infatti, da un lato ammise la possibilità di impiegare indiscriminatamente la tortura nelle indagini relative a quei reati che minacciavano la salvezza dello Stato, dall’altro attribuì però al cittadino sospettato di un crimen maiestatis il diritto ad opporsi ad una quaestio per tormenta, disposta autonomamente dal magistrato nell’ambito dei poteri di

coercitio di cui era titolare.Senza dubbio il Princeps, pur

ammettendone espressamente l’impiego in rerum

maiestatis, nell’aggiungere la tortura ai tradizionali

comportamenti tutelati da provocatio, presto sostituita dall’appellatio all’Imperatore e nel ricondurre la violazione magistratuale alla competenza della quaestio de vi, aveva intenzione di avocare a sé e ai suoi tribunali il diritto a

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Norma pervenutaci attraverso due testimonianze assai note agli studiosi del processo penale, un passo cioè delle Pauli Sententiae (P. S. 5. 26. 1: Lege Iulia de

vi publica damnatur, qui aliqua potestate praeditus civem romanum antea ad populum, nunc imperatorem appellantem necaverit necarive iusserit, torserit verberaverit condemnaverit inve publica vincula duci iusserit. Cuius rei poena in humiliores capitis in honestiores insulae deportatione coercetur) ed un brano

ulpianeo contenuto nel Digesto (Dig. 48. 6. 7: Lege Iulia de vi publica tenetur, qui,

cum imperium potestatemve haberet, civem romanum adversus provocationem necaverit verberaverit iusseritve quid eorum quae supra scripta sunt fieri aut quid in collum iniecerit, ut torqueatur), e comunemente considerato facente parte del

110 investigare senza limiti su quei fatti e su quelle persone che mettevano in pericolo la maiestas populi Romani.Egli, inoltre, si assicurò così un efficace strumento di controllo dell’operato dei magistrati, esposti adesso non più al rischio del giudizio popolare, ma a quello, assai più concreto, soprattutto col diffondersi delle pratiche delatorie, dell’accusa pubblica de vi, attraverso cui si

attivava l’omonima quaestio.

Bisogna poi domandarsi se l’ammissione della tortura nelle indagini relative a reati di lesa maestà costituiva una novità della legge augustea, o fosse già presente nella precedente legislazione.Su tale punto è difficile dare risposte valide in assoluto, ma probabilmente Augusto si limitò a recepire una norma già presente in effetti nella lex

Cornelia maiestatis di Silla. In tal senso risulta

determinante la testimonianza di Ammiano Marcellino (Rer. Gest. 19. 12. 17), il quale, nel riferire sui processi di lesa maestà svoltisi sotto il regno di Costanzo a Scitopoli, commenta come non sia in sé criticabile il fatto che si indagasse attraverso la tortura nelle indagini relative a fatti che mettevano in pericolo la vita del sovrano, da cui dipendeva la salvezza di tutti, dato che, aggiunge, già la lex Cornelia non aveva sottratto nessuno alla possibilità di indagini cruente quando si trattava di difendere la

maiestas populi Romani.145Questa testimonianza non ha mai goduto di particolare fiducia tra gli studiosi, i quali, basandosi sul fatto che la norma è nelle fonti giuridiche riferita alla lex Iulia maiestatis, ritengono che lo storico sia sul punto caduto in errore citando invece l’omonima legge sillana; ma, innanzitutto la circostanza che la lex Iulia

maiestatis contenesse una norma di tal tipo non esclude

145 Amm. Marc. Rer. Gest. 19. 12. 17: “ubi maiestas pulsata defenditur, a

111 affatto in linea di principio che un’analoga clausola fosse già stata inserita nella lex Cornelia, giacché è ben possibile che la legge augustea si sia appunto limitata a recepire in proposito la preesistente disciplina.Nelle fonti giuridiche, infatti, la disposizione sull’utilizzo della tortura in causa

maiestatis è imputata alla legge di Augusto; ciò non

implica necessariamente che Ammiano sia caduto in errore. Mentre i giuristi, nelle loro opere, non potevano ovviamente che far riferimento alla legge più recente, appunto la legge Giulia, è evidente invece, dal contesto del discorso, che ad Ammiano non interessava affatto richiamare la disciplina vigente, ma dimostrarne, attraverso il ricordo dell’analoga norma prevista già dall’età di Silla, la sostanziale ragionevolezza.La citazione avrebbe pertanto un chiaro valore storico.E’ molto probabile quindi che la possibilità di acquisire la prova del reato di lesa maestà attraverso la tortura dell’imputato, addirittura se nobile o senatore, fosse stata già legislativamente prevista in epoca sillana; tuttavia, anche ammesso che non si voglia dar credito allo storico del tardo antico, resta comunque certo che, quanto meno, la

lex Iulia maiestatis aveva autorizzato l’impiego

indiscriminato dei tormenta sugli uomini liberi a fini istruttori; come può ulteriormente desumersi, d’altronde, dalla lex Iulia de vi, che, nel riconoscere al cittadino il diritto di opporsi ad una quaestio per tormenta disposta autonomamente dal magistrato, confermava comunque indirettamente la possibilità di ricorrervi legittimamente, sia pure da parte degli organi competenti a conoscere del reato contestato. La seconda circostanza da tenere presente è costituita dalla progressiva riconduzione del

crimen maiestatis all’esclusiva competenza dei tribunali

112 sostituendo, come è noto, a quella della corrispondente corte permanente; una riconduzione che appare già definitivamente avvenuta, per altro, nella prima età tiberiana, come può desumersi inequivocabilmente dal fatto che è proprio in questo periodo che la quaestio de

maiestate cessa definitivamente di funzionare.La terza

circostanza da non sottovalutare concerne, infine, le trasformazioni che l’avvento del Principato apportò alla configurazione del crimen maiestatis.Non solo: benché Augusto avesse riordinato il delitto di lesa maestà sostanzialmente confermandone la definizione e i contenuti repubblicani, si assiste nella prassi dei tribunali imperiali, già dai primi anni dell’Impero, alla progressiva inclusione nel concetto di maiestas di fattispecie che tradizionalmente non ne avevano mai fatto parte e che non erano state legislativamente previste, tra le quali avere pronunciato o scritto affermazioni ingiuriose o diffamatorie contro l’Imperatore, avere violato statue o immagini del Principe, avere effettuato pratiche magiche per conoscere il destino dell’Impero, etc.Un’estensione, questa, resa possibile in virtù della flessibilità che caratterizzava la procedura straordinaria e della discrezionalità riconosciuta agli organi giudicanti extra

ordinem e che si prestò sovente a numerosi abusi, come

quello testimoniatoci ad esempio da Svetonio riguardo a Tiberio, che giunse a sospettare di qualunque innocente atto della vita quotidiana compiuto per caso davanti ad una statua del Princeps o con addosso una sua effige, processando e condannando per lesa maestà i poveri malcapitati146. Alla luce di tutto ciò, l’idea comunemente sostenuta per cui il ricorso ai tormenta dei liberi nelle indagini istruttorie sarebbe stato durante il Principato dei

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113 giulio-claudi e dei flavi solo una prassi contra legem mostra chiaramente la sua debolezza. Questa ricostruzione non sembra realmente corrispondere al panorama offertoci dalle fonti, la cui valutazione complessiva induce chiaramente a credere che la tortura non venne affatto utilizzata contra legem, ma secundum

legem: anzi, più precisamente, secundum leges, e in specie secundum leges Iulias maiestatis et de vi publica. Sono

queste, infatti, le disposizione normative che senza ombra di dubbio supportavano, almeno formalmente, l’utilizzazione della tortura degli uomini liberi e dei cittadini nelle indagini istruttorie condotte dagli organi cui era devoluta la competenza a giudicare del crimine di lesa maestà: competenza ordinariamente spettante appunto, come si è detto, nel periodo qui considerato, a Roma soprattutto ai tribunali imperiale e senatorio e, in provincia, ai governatori. Dimostrata la legalità della tortura, ci si può ora chiedere se si verificarono comunque anomalie nel comportamento processuale degli organi preposti alla repressione penale nel I secolo dell’Impero. Bisogna dunque riferirsi ad un capitolo diverso della storia della tortura, che non attiene tanto alla legittimità formale del ricorso a questo strumento d’indagine processuale, quanto al modo in cui esso venne in effetti utilizzato nella realtà processuale e, soprattutto, ai fini per raggiungere i quali se ne fece sovente ricorso. Su questo punto, ovviamente, c’è molto da segnalare e molto infatti ci hanno segnalato gli stessi storiografi romani, la cui tanto esaltata disapprovazione espressa al riguardo non sottintende affatto un giudizio di «illegalità» della tortura utilizzata in causa maiestatis, come strumento istruttorio

ad eruendam veritatem, ma evidenzia piuttosto la dura

114 degenerative poste in essere nella pratica furono soggette già da parte degli intellettuali dell’epoca.Emblematiche in questo senso sono, d’altronde, soprattutto due testimonianze, rispettivamente di Seneca e di Tacito. Nella prima, tratta dal De ira (3. 18. 3), Seneca, dopo aver riferito che Gaio Caligola torturava i senatori e i cavalieri, aggiunse significativamente che il Principe faceva ciò non

quaestionis, sed animi causa, non cioè a scopo di indagine

processuale, ma per pura malvagità d’animo.La seconda attestazione è contenuta nel brano assai noto e studiato degli Annali di Tacito, relativo alla persecuzione dei cristiani ad opera di Nerone (15. 44. 2–5). Ebbene, Tacito, che non nutriva alcuna simpatia verso la dottrina cristiana, che definisce una exitiabilis superstitio147 e che considera meritevole di castighi esemplari, accusò ugualmente Nerone di avere agito nei loro confronti non utilitate

publica, sed in saevitiam unius, non cioè per la salvezza

dello Stato, ma unicamente per saziare la sua crudeltà d’animo. Si tratta di due testimonianze particolarmente eloquenti ai nostri fini: per Seneca e Tacito, infatti, i

supplicia non erano utilizzati quaestionis causa, a scopo

cioè di estorcere al reo una confessione o una testimonianza, ed utilitate publica, al fine cioè di

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Tac. Ann. 15.44.2-5 : “Sed non ope humana, non largitionibus principis aut

deum placamentis decedebat infamia, quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis affecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat;

repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus adfixi atque flammati, ubi defecisset dies, in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. Unde quamquam adversus sontes et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica, sed in saevitiam unius absumerentur.

115 salvaguardare la salvezza dello Stato; ad essere in discussione era quindi il solo fatto che i Principes ne avessero fatto uso animi causa ed in saevitiam unius, cioè unicamente per soddisfare la loro malvagità d’animo.Affermazioni, queste, che peraltro si presentano sostanzialmente analoghe a quelle con cui già Cicerone, nell’Actio secunda in Verrem, aveva prudentemente cercato di parare una assai probabile obiezione di Ortensio, il difensore di Verre (in Verr. 2. 5. 133). A proposito della vicenda dei capitani della flotta romana catturata dai pirati, che Verre accusò di tradimento facendoli torturare ed uccidere, Cicerone chiarisce espressamente di non rimproverare a Verre il metus e la

severitas dimostrati, né i crudeli supplicia disposti nella

repressione di un reato infamante come quello da lui contestato agli imputati, ricordando anzi il fatto che già in passato assai spesso fossero stati giustamente trattati con analoga severità ed energia non solo i socii, ma anche i cittadini ed i soldati romani macchiatisi di simili reati; lo accusa però di avere imputato a degli innocenti fatti di cui egli era invece il solo responsabile: “ego culpam non in

navarchis sed in te fuisse demonstro, te pretio remiges militesque dimississe arguo148”. Come poi faranno Seneca e Tacito, già Cicerone, dunque, non contestava la necessità di ricorrere ai supplicia nella repressione dei reati più gravi, richiamando anzi a proposito il mos dei

maiores; contestava invece l’uso arbitrario del processo e

degli strumenti processuali per il raggiungimento di fini personali e per colpire degli innocenti, come erano appunto i navarchi falsamente accusati da Verre di tradimento. Comunque sia, per l’arco temporale che in questo momento ci interessa più specificamente, risulta

148

116 evidente che, contrariamente a quanto comunemente sostenuto in dottrina, ciò su cui si incentrava la critica degli storiografi non era l’utilizzo della tortura in sé, come mezzo di indagine processuale per fatti in cui era in gioco la salvezza dello Stato, ma l’uso strumentale del processo e degli strumenti processuali per scopi diversi da quelli a cui avrebbero dovuto essere indirizzati. Più in specie, l’uso distorto dell’accusa di lesa maestà e, conseguentemente, l’impiego della tortura nelle relative indagini, fatti non al fine di individuare e punire chi fosse realmente sospettato di un sì grave crimine contro lo Stato (nel qual caso i

tormenta apparivano ai loro occhi pienamente legittimi),

ma unicamente per eliminare gli avversari politici o i personaggi non allineati alla politica imperiale, o per coprire le proprie responsabilità. Uso distorto certo agevolato soprattutto dalla già segnalata estensione che il concetto di maiestas subì nella pratica dei tribunali imperiali e che portò ad includere nell’ambito del relativo

crimen nuove e più effimere fattispecie che

tradizionalmente non ne avevano fatto parte; estensione a sua volta discendente dalla discrezionalità riconosciuta agli organi giudicanti e dalla flessibilità che caratterizzarono le procedure estraordinariae. Ciò consentì appunto ad alcuni imperatori e funzionari imperiali di servirsi più facilmente, e in questi casi sì arbitrariamente, del reato di maiestas per accusare, torturare ed eliminare i propri nemici o per procurarsi dei capri espiatori149.

149 C. Russo Ruggeri, L’acquisizione della prova per tormenta e le Leges de

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