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Amsicora e Josto.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 118-121)

37 Più volte negli scritti Atzeni fa riferimento alle teorie gramsciane e il pensiero del teorico si possono scorgere o in filigrana o in maniera esplicita all’interno dei suoi scritti, sia quelli giornalistici sia

2.5. Percorsi di demitizzazione storico-eroica in Passavamo sulla terra

2.5.2. Amsicora e Josto.

Se a Mariano ‘la capra zoppa’ Atzeni ritaglia ad un ampio spaccato del romanzo, soffermandosi più sull’aspetto metamorfico e dedicando vere e proprie «frasi figure», lampi, alla realtà effettuale del suo giudicato, altra sorte destina invece a quelli che teoricamente dovrebbero essere i veri ‘eroi’ della storia patria. È il caso questo di Amsicora e Josto, guerriglieri pelliti di indubbia provenienza, demitizzati per l’occasione da parte di uno scrittore disilluso che si diverte a giocare con la verità e la finzione leggendaria, nonché sulla numerologia del ‘mille’, simbolo della conquista romana in Sardegna a cui corrisponde un altrettanto lasso di tempo di bugie poco sincere sull’isola. Amsicora viene immortalato come uno sbandato megalomane che vaga senza meta tra i villaggi dei sardi, millantando una sua appartenenza alla gente di Mu, il quale a sua volta non lo riconosce tra le sue fila. Il guerriero veste i panni di un novello rivoluzionario che incalza le genti del villaggio ad attaccare Karale e ad espugnare l’esercito romano. Nonostante questo, i giudici diffidano di quell’uomo «apparso dal nulla. Alto. Forte. Coperto di cicatrici. Diceva di avere combattuto nelle arene di Roma e di Alessandria e di avere comprato la propria libertà».170

Nel suo essere invasivo, Amsicora comprende la necessità del senso di appartenenza a un luogo e a una stirpe comune. Per questo «Diceva di essere nipote di uno schiavo preso a Mu dai romani in antico».171 L’importanza del sentirsi parte di qualcosa è certo uno degli elementi essenziali dei racconti fondativi, a cui si riconduce il senso dello scavo genealogico e storico- archeologico. Per questo stesso motivo, la gente di Mu, luogo di cui il pellita si sentiva cittadino, in nome della conoscenza del proprio albero genealogico scansò questa ipotesi e tanto più la possibilità che un istranzu bugiardo potesse accedere nel luogo sacro devoto alla luna, il centro del monte dove tutto ha inizio. L’incontro con il giudice decreta la calata del sipario per il grande eroe Amsicora:

«Noi conoscevamo tutta la gente di Mu» disse Urur ai maiores che gli proponevano di incontrare Amsicora nel cavo del monte sacro «e sappiamo che i morti furono riconosciuti uno a uno, quattro bambini di Mu arrivarono vivi a Se e nessun altro. Quell’uomo potrebbe essere un pazzo, un impostore o una spia, rivelare l’esistenza del monte di Mir significa mostrare il cuore della difesa, le tane nel ventre della terra che fino 170 Ivi, 86-87.

a oggi ci hanno permesso di sopravvivere agli invasori. Non mi fido. E non credo possibile piantare tronchi appuntiti in mare». Urur convocò Amsicora a Ar. Amsicora si dichiarò offeso di non potere incontrare il giudice nel tempio di Is. Urur rispose che Is non aveva templi, i templi erano a Roma. Amsicora fece bandire che il giudice non rispettava i guerrieri, i guerrieri avrebbero agito senza giudice, chi voleva poteva unirsi a Amsicora per distruggere i romani.172

La guerra tra i sardi e i romani si espleta dunque in una battaglia personale che Amsicora conduce contro il giudice. Qui la microstoria si oppone alla Storia. Il paradosso, infatti, consiste nel fatto che Amsicora condivide con i sardi il desiderio di ricacciare i romani nei loro territori, ma non la volontà di rispettare in qualsiasi momento le decisioni del giudice, sacre inviolabili come Is. Questa presa di posizione provoca solo il depaupero delle risorse umane, dei guerriglieri-banditi sardi, i balentes, che morivano sugli altipiani decimando le genti dei villaggi, di cui Atzeni tiene il macabro computo:

Altre sette genti si unirono. Molti malumori giunsero al giudice dalle undici genti che non andarono con Amsicora. Chiesero di combattere. Urur rispose che avevano combattuto e avevano ancora molto da combattere ma non si fidava di Amsicora. Amsicora portò dieci genti nella piana. I romani erano appostati sugli altopiani, cento e cento uomini e cavalli. Scesero alle spalle di Amsicora. Altri romani uscirono da Karale e andarono incontro ai rivoltosi. Molti romani erano sbarcati da molte navi, l’isola brulicava di romani come un formicaio di formiche. Amsicora circondato si arrese senza opporre resistenza. Mille sardi furono fatti schiavi. Urur commentò: «Novecentonovanta balentes in meno per difendere la montagna».173

Per i sardi quindi, la resistenza guidata da Amsicora fu un massacro collettivo, un’ideale non perseguito fino in fondo, umiliato dalla smania di potere di un pellegrino. L’unica roccaforte rimasta è Oren, uno dei tre villaggi fedeli a Amsicora, in cui si rifugia il figlio di quest’ultimo: Josto. E anche in questo caso, Urur il giudice tiene il conto delle perdite:

Crebbe e a vent’anni dichiarò guerra ai romani. Tre genti lo seguirono. I romani nella piana erano numerosi come api in un alveare. Josto si arrese. Urur commentò: «Duecentonovantanove balentes in meno per difendere la montagna. È un inganno dei romani. Se continueremo a seguire pazzi e spie che dichiarano guerra, tutti i balentes saranno presto uccisi o schiavi e i romani saliranno ai villaggi. Troveranno soltanto vecchi e minores. Li uccideranno o li faranno schiavi. Più nessuna delle genti sarà libera. Non avremo più la nostra terra».174

172 Ibidem. 173 Ibidem. 174 Ivi, 88.

2.6. Antinomie atzeniane: Karale V.s. Arbarei: episcopi/custodi del tempo e

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 118-121)