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Luja Rabiosa.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 94-101)

37 Più volte negli scritti Atzeni fa riferimento alle teorie gramsciane e il pensiero del teorico si possono scorgere o in filigrana o in maniera esplicita all’interno dei suoi scritti, sia quelli giornalistici sia

2.4. Percorsi di riscrittura della storia: dai racconti a Passavamo sulla terra

2.4.1. Luja Rabiosa.

Tuttavia, la carriera di Atzeni sembra aprirsi e chiudersi nel segno della fiaba, se consideriamo che il materiale acquisito in questa prima fase della sua produzione diviene essenziale per la stesura di Passavamo sulla terra leggeri. Come scrive Gigliola Sulis, infatti:

Le Fiabe sarde (1978) e il racconto Araj dimoniu (1984) rappresentano i primi passi nella direzione di un’appropriazione della tradizione locale che, come scrive più volte nelle recensioni musicali, teatrali e letterarie degli stessi anni, si ancori alle radici della cultura d’appartenenza, evitando però il ristagno folcloristico e la musealizzazione e arricchendosi grazie a un confronto critico con la modernità. Atzeni ha assimilato e fatto proprie l’attenzione per il ‘locale’ e la tendenza alla riscoperta dell’ ‘etnico’, quel folk revival che negli anni Settanta ha influito in molteplici settori della cultura.112

Atzeni, nell’assecondare il gusto tradizionale per l’utilizzo in chiave didascalica delle leggende e delle fiabe, scandito dai passi di danza dei muttetus e si mutua gramscianamente verso l’apertura alle diverse tradizioni, Antonio Setzu, l’ultimo dei ‘custodi del tempo’ immortalato nel tramandare il sapere al bambino- Atzeni, racconta delle storie paradigmatiche che si sono trascinate sino ad oggi e che sono parte integrante dell’immaginario collettivo. Una delle tante, ma non autoctona bensì di derivazione greca,113 tratte di peso dal volume di Bottiglioni, , ridefinita nelle Fiabe sarde e approdata in Passavamo sulla terra leggeri è la leggenda di Luija Rabiosa,114 molto diffusa in Sardegna, raccontata per l’occasione da

112 Ibidem

113 La leggenda di Lujia rabbiosa ricorda infatti il mito e la storia di Niobe, menzionata talvolta come la prima donna mortale amata da Zeus. Altre versioni del mito raccontano che, in un momento in cui ancora dei e uomini vivevano in un’unica dimensione, Niobe venisse definita sia “dea” sia “regina superba”. Proprio per la sua superbia e per il fatto che si facesse vanto della sua numerosa prose, così come riporta già Omero, Niobe perse i suoi dodici figli. Questi, uccisi da Apollo con il suo arco argenteo, furono trasformati da Crono in pietre e dopo dieci giorni dalla morte furono seppelliti dagli stessi dei che in un primo momento avevano negato loro la sepoltura. Anche Niobe che scontò con il pianto la sua pena fu, alla fine, trasformata in roccia nel monte Sipilo, condannata dagli dei a soffrire per sempre anche in questa condizione. Altri racconti tramandano che le lacrime che ogni anno sgorgavano dal monte Sipilo fossero di Niobe. Carlo Kerenyi chiosa così sul mito di Niobe «La madre dolente pietrificata veniva mostrata ai viaggiatori. Non si dovrebbe dimenticare che nella mitologia essa era una madre primordiale del genere umano». C. KERENYI, Die Mithologie der Griechen, Rhein-Verlag, Zurigo,

1951 (trad. it. Gli dei e gli eroi della Grecia, Milano, Il saggiatore, 1962, I, 185-87); APOLLODORO, I miti greci, a cura di P. Scarpi, Roma, Fondazione Lorenzo Valla - Milano; Mondadori, 1996; Alla voce Niobe ho consultato anche: http://www.demgol.units.it|lemma.do?mode=motivo; http://perseus.tufts.edu; The

Oxford Classical Dictionary, a cura di S. Hornblower – A. Spawforth, Edizione Oxford, Oxford University

press, 20033.

114 Come scrive Gino Bottiglioni, «il tipo dell’avaro astioso e crudele è rappresentato da una gigantessa della quale si parla molto in Sardegna. È chiamata Lucia o Giorgia rabbiosa e, intorno ad essa, il

«Antioco Yspanu, custode del tempo negli anni piemontesi».115 Questa leggenda dà vita in Passavamo sulla terra leggeri ad un racconto di fondazione sulla ‘pietra’ che ospita il luogo del racconto; ciò che infatti più preme all’autore è caratterizzare uno spazio fisico determinato e da qui far fiorire delle storie.116 La leggenda di Lujia Rabiosa è infatti intessuta in un momento topico del romanzo, quando Atzeni dismette i panni del narratore per vestire quelli del giudice inquisitore che conduce una vera e propria crociata contro le falsità scritte in merito alla storia sarda dagli storici sabaudi. L’autore quindi utilizza questo racconto guardando attraverso gli occhi di «un bambino di sei anni»117 — «Antioco Yspanu, custode del tempo in anni piemontesi e figlio di Costantino Yspanu detto Ischina» —, che corre per raggiungere la grotta, assediata dall’esercito sabaudo, in cui si nasconde il giudice e custode del tempo senza nome. Egli era «stato venduto» dalla sua comunità al nemico, poiché reo di aver interrotto una faida familiare per ventuno giorni, in cambio della morte di altrettanti. L’immagine di Lujia Rabiosa si interfaccia con due diverse interpretazioni che rispecchiano lo sguardo dei personaggi del racconto. La prima è quella del bambino, il quale «correva e guardava la gola di Corr’e faulas già buia, macchia nera che passo passo si allargava e conquistava la montagna, guardava il cielo azzurro scuro e calcolava che sarebbe giunto a Lujia Rabiosa agli ultimi fuochi del tramonto».118 Egli infatti, nonostante non si sia mai addentrato in quel luogo, lo conosce e lo possiede grazie ai racconti «degli antichi»:

popolo sa dare anche minuti particolari». G.BOTTIGLIONI, Leggende e tradizioni…, 55. In alcuni paesi,

come a Nuragus, si dice appartenesse alla razza dei Gentili, che avesse delle mammelle gigantesche e che costruisse i nuraghi. La leggenda narra che un giorno Lucia rabbiosa, ricca quanto avara, rifiutò di dare l’elemosina ad un povero frate (o, a seconda della località, a Dio in persona) e Dio per vendicarsi le trasformò in pietra tutto ciò che possedeva. E infatti, come puntualizza il curatore dell’opera Giovanni Lupinu, «vari attrezzi di Lucia rabbiosa ridotti in pietra s’indicano qua e là nel territorio di Nuragus e d’Isili e anche altrove». Ivi, 200.

115 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 120.

116 Come riferisce Bottiglioni, infatti, «Il sistema orografico della Sardegna presenta spesso delle piccole collinette con la cima arrotondata che rassomigliano a dei covoni e nelle quali il popolo vede il grano della gigantessa malvagia ridotto in terra. Nei pressi di Esterzili si trova la sua casa (sa domus de Orgia Rajosa, ad Arbus c’è la tavola di Lucia Rabbiosa, ad Ales si mostra il suo telaio e la pala per infornare il pane, altrove, il forno, presso Alà dei Sardi c’è sa perda de Lughìa Rajosa e, finalmente, nelle vicinanze di Noragugume, si mostra Giorgia Rabbiosa in persona, pietrificata dall’ira divina)». Bottiglioni inoltre trova conferma in altri che si sono occupati di scrivere di e sulla Sardegna, come Antonio Bresciani (Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali, Napoli, 18501, I, 108) e

Alberto Della Marmora (Itinerario dell’isola di Sardegna, Cagliari, Timon, 1860, 198) 117 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 119.

Mentre saliva fra i massi, cadeva, si graffiava, si ammaccava, pensava alla grotta, mentre saltava agile elegante, muflone di pietra in pietra, pensava alla grotta, mentre si arrampicava veloce nonostante il buio, come sapesse a memoria un tracciato che saliva con spire di serpente (non era mai stato là e conosceva i luoghi soltanto per averli visti di lontano e per sentito dire) pensava alla grotta. Sapeva dai racconti dei vecchi che il giudice dormiva nella Sala del giudizio, in un angolo, accanto a un’alta colonna che scendeva dalla volta, su una pelle di vacca, abbracciato al fucile. Sapeva dai racconti dei vecchi che la Sala era nelle viscere del monte: «Scendi per un sentiero interrato, passa un ponte sul fiume sotterraneo, risali e riscendi nei cunicoli, guidato dal canto del vento che entra da Sa bogh’e is canis, fino a un lago che devi aggirare da destra, oltre il lago la Porta, oltre la Porta un corridoio e alla fine la Sala». Sapeva dai racconti dei vecchi che quando la gente andava per giudizi aveva bisogno di torce e di guide come Titinu Frongias o Costantino Demelas, per non perdersi nelle viscere della terra. «Come farò» pensava il bambino “a giungere nella Sala e avvisare il giudice, se non ho una torcia, non sono mai stato prima nella grotta, non so neppure dove sia l’ingresso? ‘L’ingresso è a dodici passi di uomo adulto dalla pietra dove Antonio Murru è morto novantenne suonando il flauto’ dicono i vecchi. Quando Antonio Murru è morto non ero nato e nonno era bambino. Come farò a riconoscere la pietra giusta?119

Si assiste dunque a un processo di metamorfismo panico che rende totale la compenetrazione tra ambiente e personaggio, restituendo un’immagine dell’uomo che conoscendo il suo luogo e la sua storia conosce se stesso. Il momento di massima tensione si ha quando il bambino giunge indisturbato e con il solo aiuto della memoria degli antichi nella Sala del giudizio, sita nelle viscere del monte. Qui egli ascolta la storia, diventando a sua volta custode del tempo, mentre «la luna scendeva dalla fenditura nel calcare dell’alta volta a illuminarli».120 Quest’ennesimo atto di resistenza da parte dei sardi si celebra all’interno di un luogo sacro, la grotta e, ancora più in profondità, la Sala del giudice. Simbolicamente, essa rappresenta un ventre materno (antitetico rispetto al ventre della nave coloniale, matrigno) che protegge i suoi figli e, soprattutto, che si oppone alla perdita della memoria. Il bambino rappresenta la salvezza, il futuro, il procrastinarsi di un popolo all’infinito; la perdita equivale al nulla, all’oblio. Sul fronte opposto, la minaccia sabauda attenta «per quaranta giorni e quaranta notti» alla vita del giudice, tentando di accedere al luogo sacro, e conseguentemente all’intero bagaglio culturale della comunità sarda, spezzando inesorabilmente il filo dell’antica tradizione dei custodi del tempo. Lujia rabiosa diviene agli occhi dell’esercito sabaudo un luogo impervio, una pietra fredda e inaccogliente. Atzeni offre quindi un bozzetto in cui la lucentezza e la vitalità trasfusi dal bambino e dal giudice — che operano nel giusto e nella difesa della tradizione — contrasta con l’oscurità e

119 Ivi, 124-25. 120 Ivi, 126.

la stoltezza emanata dai soldati del re, che impauriti si giocano «a testa o croce il posto di primo che scende nel cunicolo ignoto, sporcandosi di fango e inzuppandosi d’acqua, sparando contro i pipistrelli, tremando e bestemmiando, senza mai trovare il giudice né il bambino».121 L’unico ad esimersi da questo tipo di atteggiamento è il colonnello dell’esercito, il quale compie un atto di resistenza al governo e rispetta l’inviolabilità della grotta:

rimase seduto sulla pietra dove Antonio Murru aveva suonato il flauto per tutta la vita (e ancora oggi, se passi nel mese delle ginestre fiorite, di notte in buona compagnia, lo senti che suona balli tondi e fughe di Mozart). Mentre soldati, tenenti e capitani cercavano nei cunicoli del monte, il colonnello seduto sulla pietra banchettò, dodici porchetti e quaranta botti di Cannonau, trentacinque di Nasco per pardulas e sabas.122

Nonostante l’esclusivo lasciapassare, Atzeni non commette defezioni: «Il colonnello mangiò e bevve. Antonio Murru a quel tempo era morto da poco, neppure da cent’anni e suonava molto più di oggi, ma non suonò. Non suona nel mese della neve e mai per i colonnelli».123

Il racconto di fondazione di Lujia rabiosa, l’unico che compare i questa seconda parte del romanzo, si inserisce all’interno del dialogo tra due istranzos, un tenente sabaudo e un soldato semplice, intenti a commentare la pazzia dell’uomo stanato dall’interno della grotta, pericoloso, nonostante la presunzione di farsi definire ‘giudice’ dalla sua comunità.124 I due, intanto, guardano il ritratto della fidanzata del soldato, il quale nel frattempo chiede informazioni sul luogo in cui si trova la grotta e la pietra di Lujia rabiosa:

«Perché la gente del paese ha dato alla pietra nome di donna, signor tenente?». «Dicono fosse donna, donna bella, avara, proprietaria di terre e mulini, un giorno torna di campagna con un cesto d’uva e incontra un bandito ferito che dice: “Morirò questa notte, dammi un grappolo della tua uva perché la morte sia più dolce ». La donna risponde: “Se fossi vivo e forte non chiederesti, andresti a prendere e rubare, quante volte hai rubato dalle mie vigne e dalle mie tanche, uva e vitelli? Ora vorresti che proprio io ti addolcissi la morte?».

121 Ibidem. 122 Ibidem. 123 Ibidem.

124 «Lo chiamano giudice, signor tenente. Sono pazzi. Ma la prego. Non mi faccia scendere per primo. Il bandito è armato e vistosi alle strette, non so se capite. La fidanzata al paese mi aspetta. Posso mostrare il ritratto? L’ho fatto da me al carboncino, sono bravo a ritrarre, ho anche il ritratto di un’amica, brava donna sfidanzata, ricca di vacche, vitelli, grano e case, un po’ brutta ma sposarla è buon affare, ha casa piena di serve, non so se capite. Arriverà acquavite per tutti, domani? Di mattina?». Ivi, 123.

Dette queste parole guarda l’uomo negli occhi e alza il piede per un calcio nella ferita al ventre da cui cola il sangue. Il Signore la vede e per punirla di tanta avarizia la impietrisce nel gesto, coll’uva sulla testa. Così dicono».125

Come di consueto, Atzeni smorza la tensione epica e favolistica con l’incalzare di interrogative retoriche a cui non si concede risposta delegandola invero al lettore, al quale spetta un ruolo attivo all’interno del romanzo: «Mi perdoni, signor tenente, ma se il Signore si offese perché la donna rifiutò di donare l’uva, non avrebbe fatto meglio a impietrire soltanto la donna, lasciando il cesto e i grappoli al bandito condannato a morte?».126 Consuete tonterias da conquistadores.127

Da questo momento in poi, Lujia Rabbiosa rivive nei gesti del bambino, fuoriuscendo dalla dimensione inanimata e orografica, e divenendo compartecipe di un processo iniziatico che «accompagna dolcemente»128 il neofita al centro del mondo, rappresentato dal ventre del monte in cui risiede il giudice e in cui avviene il rito sacro. Al contrario, il bambino acquisite le sembianze animalesche - così come avverrà in seguito per il giudice Mariano – comincia una folle corsa verso l’ignoto spinto solo dalla necessità di conoscere la storia del tempo prima che sia troppo tardi, prima che la morte uccida la vita e con essa la memoria. Il neofita,

pensava che avrebbe dovuto salire la pietraia al buio e correva, come puledro ma non era puledro, era un bambino di sei anni, minuto, tutto ossa e muscoli magri e duri adatti a sopportare ogni fatica purché la mente volesse. Non conosceva bisogno d’aria nei polmoni, correva concorde col respiro, come corre puledro o come corre cane, veloce nel pianoro, correva a piedi nudi, ossa che si flettevano come giunchi di palude e scattavano, lanciavano, piedi bianchi sul dorso, colore della neve che cominciava a cadere sulla terra 125 Ivi, 123-24.

126 Ibidem. 127 Ivi, 127.

128 «Col buio il bambino salì sul naso di Lujia Rabiosa circondata da soldati acquattati nell’erba, scese strisciando sulle spalle dell’avara e camminò in silenzio per trecento passi nella gola, chiusa sul fondo da una cascata di graniti, qualcuno piccolo come uovo di gallina, altri grandi come buoi, come carri, come case. Ai piedi della pietraia sentì tre spari alle spalle. Si arrampicò come capra, era buio, inciampò, rotolò, saltò in piedi e ricominciò a salire, infischiandosi delle pietre che faceva rotolare, scivolò, ripartì. Il respiro si spezzava, il cuore saltava in gola. Aveva sparato il soldato chiacchierone spaventato da un cinghiale. Aveva spaventato il cinghiale (era fuggito veloce) e aveva informato i dintorni per miglia della presenza di armati alla rocca, Lujia Rabiosa s’era svegliata e sparava per inaugurare nel migliore modo la seconda vita. «Spara Lujia» pensò il bambino. “Ammazzerà qualcuno?». Mentre correva nel pianoro rasente le sughere e i cardi il bambino pensava alla grotta. Mentre scivolava in silenzio fra i soldati pensava alla grotta. Qualcosa nel buio afferrò il bambino e lo sollevò in aria. «Chi sei?» sussurrò una voce all’orecchio. Al contrario, il soldato la definisce «questa schifosa pietra che chiamano con nome di donna», ridimensionandola alla condizione materiale per cui Lujia Rabbiosa a causa della sua indole malvagia era stata condannata».

scura del sentiero scavata dai muli e dai cavalli, dalle ruote dei carri, dalle zampe di pecore e caproni (sughere ai bordi del sentiero piegate dal maestrale e cardi argentei, mariani). Piedi scuri, quasi neri, nella pianta non protetta da suola, mai il bambino aveva messo scarpe. Correva senza rumore, come danzasse. Ascoltava il vento che arrivava da oriente, cercava l’eco di galoppo di cavalli. Ricordava gli uomini che aveva visto salire al paese, cento e cento, soldati e ufficiali. Ricordava le parole del primo soldato banditore, era già in piazza quando la truppa cominciava a apparire in fondo a Tanchorus, «Questa è la volta che il giudice sarà stanato» aveva detto il banditore «chiunque lo aiuti sarà passato per le armi. Nel nome del Re». Il bambino ricordava le parole e correva, correva. «Nessun altro correrà della gente del paese, nessuno vuole aiutare il giudice, preferiscono che muoia» pensava il bambino e sorrideva senza volere, per la gioia della corsa, i muscoli caldi cantavano una canzone: «Vai, guarda, ascolta, vai».129

«Vai, guarda, ascolta, vai».

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 94-101)