• Non ci sono risultati.

Mariano «la capra zoppa».

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 114-118)

37 Più volte negli scritti Atzeni fa riferimento alle teorie gramsciane e il pensiero del teorico si possono scorgere o in filigrana o in maniera esplicita all’interno dei suoi scritti, sia quelli giornalistici sia

2.5. Percorsi di demitizzazione storico-eroica in Passavamo sulla terra

2.5.1. Mariano «la capra zoppa».

La storia di Mariano è quella che avvolge maggiormente il lettore attento, in quanto presenta degli elementi grotteschi anche dal punto di vista dell’identificazione temporale in cui è inserito rispetto alla reale cronologia tramandata dai testi di storia. A lui si deve la prosperità del giudicato e la crescita educativa di Eleonora, erede della genealogia dei «danzatori delle stelle» e seguace della ‘legge dei giusti’. Mariano, che si è fatto amputare una gamba malata connotandosi in una capra zoppa affonda la liricità epica del personaggio dal punto di vista del sentimento “eroico” che, al contrario, accompagna l’iconologia tradizionale del giudice, considerato insieme ad Eleonora come una sorta di mito autoctono. Come nota Cerina «Mariano rappresenta, a conclusione del racconto, una sorta di sintesi della storia dei sardi. Egli infatti porta con sé i segni di quel capro che all’inizio della storia dei danzatori delle stelle ci era stato presentato sull’altare della ‘zicura’».159 L’identificazione tra l’uomo e la bestia infatti «va sottolineata [come] una possibile linea di continuità sotto il segno della capra, che lega la storia di Mariano ai riti originari dei S’ard, e che passa attraverso il richiamo a un antenato di Urak, il giudice pastore ‘abitato dallo spirito della capra».160

Come già sottolineato sopra, l’immagine della capra ricorre spesso nel corso del romanzo, in forma metaforica per indicare ad esempio il carattere di alcuni personaggi, la bellezza della donna, o la figura della judichissa Ursa, che salta e corre proprio come le capre.161 Nonostante questo, Mariano per tanti e tanti anni, inquantificabili anni, rimasto solo ad Arbarè «mangiò erba, petali di fiori, polvere di farfalle, bacche di panesaba, asparagi selvatici, limoni spinosi, lumache crude e non morì».162 La desacralizzazione di Mariano, la sua fusione con una capra zoppa — elemento ancora oggi fortemente connotato in Sardegna, basti pensare all’uomo-capro del Carnevale tradizionale sardo — è nota a tutti in città e viene narrata nella sua innaturalezza, poiché «Vedere sgusciare al mercato il vecchio giudice fra le gambe degli uomini e delle donne, con una sacca di meloni profumati appesa al collo, impauriva qualcuno e sconcertava molti».163

159 G.CERINA, introduzione a Passavamo sulla terra leggeri…, 24 160 Ibidem.

161 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 80-85. 162 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 192.

Nella realtà ormai non più ‘leggera’ del regno giudicale, così come in quella rarefatta di Macondo, l’antropomorfizzazione dei personaggi, alla stregua della loro ‘bestializzazione’ è vissuta come una conseguenza delle cose del mondo, di un mondo altro che è quello delle periferie, dove tutto è piccolo, ristretto. Così, anche la pietrificazione di Martina, che ricorda in parte quella di Lujia Rabiosa, è partecipe di una condivisione che colma un vuoto archetipico:

Mariano uscì dalla città zoppicando e scongiurando il Signore di porre fine ai tormenti. Brucò erba con le capre. Diventò capra perché tre zampe sono meglio di una, gettò via la stampella e tornò a Arbaré camminando come capra zoppa. Dissero che puzzava come capra. Per giorni e notti non usciva di casa. Non aveva voglia di vestirsi, preferiva stare nudo a tre zampe nella tana. Si sdraiava nel cortile, accanto alla montagna di massi di Martina, disertata dai falchi. Stava giorni e notti sotto il sole e le stelle pregando il Signore di limitare le torture.164

Grano, pane, uva, vino. Sole, pioggia. Anche i parassiti del noce sparirono. Arbaré rifiorì negli ultimi sette anni di Mariano vecchia capra. Il giudicato arricchì. Aumentarono i commerci.165

Il giudice Mariano, discendente della stirpe di Lo, capra in giacca da pastore, rappresenta il ‘tempo che resta’, il connubio immanente tra passato, presente e futuro. Vivendo in una dimensione atemporale egli non distingue l’archetipo dal ‘tempo-ora’, ma subisce comunque la vena irrisoria dello scrittore beffardo che gioca con la magia del passato:

incontrò uomini dagli occhi a mandorla, a Bosa, sbarcati da una nave giunta di lontano. Credette fossero gli antenati, l’intera stirpe di Urak e Urur, venuta a visitarlo e a prenderlo per portarlo nel regno dei morti. Fu molto sorpreso d’essere vivo quando la nave lasciò il porto ma rimase convinto d’avere parlato con Sul, primo fra i giudici, nell’antica lingua delle origini. A scusante di Mariano la molta malvasia ingerita conversando con gli orientali senza capire una parola di quel che dicevano.

Forse loro non capivano quel che diceva lui.166

Mariano, la capra zoppa, conclude il suo processo metamorfico con il ritorno all’ordine, alla dimensione umana di un tempo immerso nella completa dimensione di calcolo naturale. La morte di Mariano segna la fuoriuscita dell’uomo dal sentiero mitico, il ritorno alla casualità della vita e del ciclo rituale di morte-vita, il sonno e la veglia, in cui il canto fa risuonare le note di una vita

164 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 193 165 Ivi, 194.

vissuta per la reciprocità del dare e dell’avere, per la condivisione collettiva di restituire in un libro la verità del proprio popolo:

La notte era nel primo quarto, Martina entrò al galoppo a Arbaré deserta. Davanti a casa di Mariano balzò a terra. Lui sedeva sveglio, immobile sul bordo del pagliericcio. «Sei venuta» disse. Martina assentì con un cenno. «Ti aspettavo» disse Mariano. Si alzò da uomo per la prima volta dopo anni, sull’unica gamba, poggiando la mano destra al fango del muro. Martina lo abbracciò a lungo in silenzio. Si tennero stretti per la prima volta nella vita. Finché i corpi respirano è possibile abbracciarsi. I cuori cantarono assieme: «Giorni, notti, male, bene, coraggio, paura, rabbia, gioia, tutto ho vissuto per te.

Mariano si addormentò. Martina lo vegliò. 167

Come per Ursula in Cent’anni di solitudine, la morte di Mariano segna il confine tra la vita, fatta di «giorni, notti, male, bene, coraggio, paura, rabbia, gioia» e la morte, la notte dei tempi in cui la memoria si disperde nell’oblìo. Senza sfarzo né ricchezze, il corteo funebre di Mariano constava in Martina e nei falchi simboli e protettori del giudicato, tanto che:

La gente non credeva che Mariano fosse morto, lo credeva immortale. Vedendo Martina dietro il carro e la cassa dissero: «Le sarà morto il falco». E non levarono gli occhi al cielo dove undici falchi gridavano il dolore di Martina e volavano alti sui resti della capra zoppa che aveva trovato pace e subiva senza lamentarsi l’ultimo tragitto, undici falchi piangevano lacrime colore d’arcobaleno che cadendo diventavano semi di rovi indistruttibili lungo il cammino.168

La morte di Mariano non si riduce allo sgretolamento materiale del corpo e dell’anima né ad un’ascensione dell’anima come era avvenuto nell’epopea di Marquez per Remedios la bella; non ha nulla di cristiano, di quel cristianesimo a cui lo stesso giudice aprì le porte in Sardegna. Il viaggio di Mariano è molto lungo, nel tempo sino al centro, all’archetipo. Il romanzo, che si apre con lo sguardo rivolto alla volta celeste, alla luce delle stelle, chiude il suo cerchio nel nome di Is, la luna, il «punto zero» in cui l’ordine naturale e quello umano coincidono.

due donne lo seguirono fino alle viscere della terra, dove trovarono i resti di morti di altri tempi, di fughe lontane. Martina nelle grotte cantò un attittidu che Eleonora ascoltò senza una lacrima. Posarono il corpo del giudice alla luce di Is. Mariano vecchia capra danzò sul crinale del monte cavo, fra le case degli antichi fuggitivi, salì, uscì dal monte e continuò a

167 Ivi, 195. 168 Ibidem.

salire, rideva, certo del perdono del Signore, rideva e si arrampicava a tre zampe sulla luce lunare, fino a diventare un piccolo punto nero nel bianco e sparire.169

Così Mariano, anello di congiunzione tra la memoria dei sacerdoti danzatori e il “frat-tempo” si innalza a Is da cristiano, legando insieme due tradizioni fondative della sua comunità. La volta stellata e il ritorno all’origine costituiscono, per questo, i punti fermi del percorso a ritroso che giunge fino al ricongiungimento con l’archetipo, alla vita vissuta per resistere alla morte, sapendo di aver salvaguardato la memoria attraverso la figura del ‘custode del tempo’ e di aver infavolato una storia reale (o considerata tale) in mezzo ad un universo di fallaci finzioni.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 114-118)