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I ‘racconti mai narrati’, dai fondali del tempo al tempo della storia.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 180-183)

E, ancora, l’episcopo chiese:

3.1. I ‘racconti mai narrati’, dai fondali del tempo al tempo della storia.

«Il trenta metto il punto finale, spedisco e parto. Poi si vedrà»1 Così Sergio Atzeni scrive all’amico Giovanni Dettori in riferimento all’ultimo romanzo, rivelatosi poi postumo, Passavamo sulla terra leggeri. Un commiato dalla vita e dalla letteratura, sostengono i critici, evidenziando il rapporto tra la stesura dell’opera ideologicamente più importante dell’autore — e quella che più ha inciso sull’immaginario collettivo dei sardi —, e la velocità di stesura con cui essa è stata licenziata da parte di uno scrittore che non nasconde la sua «lentezza» produttiva.2 Sicuramente si tratta della realizzazione di un progetto maturato in oltre vent’anni di riflessioni che sino a questo momento avevano visto la luce solo in forma indiretta e per vie traverse, non letterarie. L’incontro con Patrick Chamoiseau nel 1993, ma ancor prima quello simbolico con Marquez e con altri che hanno condiviso la frustrazione storica vissuta in generale dalla ‘periferia’ del mondo, hanno accelerato la passione per la materia epica e, in pochi mesi, coincidenti con l’anno 1995 e con la consegna alla Mondadori il trenta di agosto dello stesso anno, Atzeni lavora contemporaneamente a due opere diversissime tra loro sotto più punti di vista, ossia il suddetto racconto fondativo Passavamo sulla terra leggeri e quello ambientato nei sobborghi cagliaritani di oggi, Bellas Mariposas.3 Un intenso salto nel tempo e nella storia che immortala un popolo ancora in divenire mentre canta il suo passato ma è già proiettato verso il futuro. In entrambe le prove letterarie, lo scrittore sperimenta in maniera diversa l’idea che «la letteratura è il paese della lingua»,4 così come teorizzato dal manifesto creolo firmato da Chamoiseau e Glissant. Passavamo sulla terra leggeri e Bellas mariposas rappresentano la silloge creativa di un variegato tirocinio linguistico e ‘tecnico’, il punto d’arrivo che invita a ripercorrere retrospettivamente il complesso del corpus atzeniano. In questo modo, va costituendosi una sorta di grande libro, di romanzo di 1 G. DETTORI, Tra linea scura e linea chiara: una linea forte, «La grotta della vipera», XXI, 72-73,

autunno-inverno 1995, 32.

2 «Impiego una vita a scrivere una sola pagina» in G.SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità,

Intervista a Sergio Atzeni, in «La grotta della vipera», XX, 66/67, 1994, 40. Cfr. anche R.CAGLIERO, Storia e

romanzo, ma il dibattito finale, dal quale traggo la citazione è inedito: «Quando costruisco la narrazione,

la lascio per molto tempo ferma, e poi ci torno, e quando ci torno mi rendo conto che molte cose sono superficiali, non danno nessuna informazione sui personaggi, o non dicono nessuna verità importante, sono soltanto pagine perse, e allora in quel caso bisogna avere il coraggio di tagliar via, e lasciare soltanto quelle parti […] nelle quali mi sembra che vi sia qualcosa di vero».

3 S.ATZENI, Bellas mariposas, Palermo, Sellerio, 1996.

formazione letteraria — al contempo di marca etica ed estetica — proiettato sulla formulazione di un’idea di letteratura nuova in cui si può osservare «un autentico scrittore percorrere a passi sicuri il paese della parola».5 Come scrive Dettori a proposito dell’ultimo «che è anche il primo» romanzo atzeniano «Sergio sapeva che un periodo, una fase, una tappa della sua scrittura si era chiusa. Con-clùsa. Una tappa che coincideva con la fine del viaggio: lascia quanto basta».6 Il racconto fondativo rappresenta, come dimostrato nel capitolo precedente, il punto finale di un lungo percorso ideologico intrapreso sin dalle prime prove teoriche e letterarie dell’autore. A questo proposito, infatti, Giovanna Cerina inserisce Passavamo sulla

terra leggeri «in una prospettiva di lungo respiro» in quanto l’autore

porta a compimento, dopo lunga gestazione, il suo ambizioso progetto: raccontare tutta la Sardegna, la sua storia millenaria, iniziato con l’Apologo del giudice bandito del 1986 (ma prima ancora con le Fiabe sarde e con quel piccolo gioiello che è Araj dimoniu. Antica

leggenda sarda) a cui segue una fase ulteriore di investigazione con il Figlio di Bakunìn, del

1991.7

Non una frattura con il passato, quindi, semmai un proseguimento nel segno della tradizionale linea ideologica che ha segnato la carriera letteraria dell’autore. Nonostante questo, già dal titolo l’ultima fatica atzeniana sembrerebbe evocare «in forma di idillio, il sogno utopico di un Eden perduto».8 In realtà, l’endecasillabo iniziale non si carica di romanticismo nostalgico ma evoca una condizione bucolica a cui si sostituisce la complessità della resistenza sarda rispetto al tentativo esterno di abbattimento delle radici, dell’archetipo. La dimensione fondativa di Passavamo sulla terra leggeri si sofferma particolarmente su questa sfumatura immergendo la storia nel mito, il mito nella storia. Essa, che coincide con la prima parte del romanzo, ricostruisce la storia o meglio ‘l’a-storia’ del popolo sardo procedendo per sovrapposizioni e talvolta giustapposizioni di bozzetti che costituiscono dei racconti indipendenti. Una teoria di immagini dunque «quasi orme impresse nel nostro animo al loro passaggio mediante i sensi», come scrive Ricoeur.9 Queste immagini si dispongono simmetricamente

5 G.MARCI, Sergio Atzeni, a lonely man…, 113.

6G.DETTORI, Tra linea scura e linea chiara: una linea forte…, 32. 7 G.CERINA, Introduzione a Passavamo sulla terra leggeri…, 7.

8 Idem.

9 P.RICOEUR, Tempo e racconto…, I, 28. «L’immagine non è un’impronta lasciata dalle cose passate

sullo stesso piano ideologico seppur coordinate dalla dimensione archetipale del non tempo. Gli eventi, che spesso corrispondono a racconti di fondazione, sono disposti all’interno di una cornice che isola i singoli episodi creando così una serie di micro-racconti la cui sequenza amalgama vero, verosimile e invenzione letteraria superando le barriere del tempo e applicando il modello del floating gup teorizzato da Vansina.

Come già accennato, il progetto (ideologico prima che editoriale) di

Passavamo sulla terra leggeri risponde ad un’esigenza specifica, finalizzata a colmare

un vuoto culturale comune a molte ‘periferie’ del mondo che per anni, secoli, millenni hanno ‘rispettato’ il tempo e l’impronta del padrone coloniale. Il bardo che vuole cantare la storia del suo popolo attinge non tanto dalla storia, quanto piuttosto dal bagaglio di racconti, memorie e tradizioni che esso ha elaborato nel corso del tempo: Passavamo sulla terra leggeri fa eco a episodi di diversa provenienza che si intersecano tra loro provocando un effetto straniante rispetto al già noto. Oltretutto, il romanzo gioca sull’accostamento di generi letterari diversi tra loro, come «il mito, la leggenda, l’apologo, l’idillio, l’aneddoto, svolti con libertà inventiva o elaborate in forme ibride derivate dalla fusione di tipi narrativi diversi».10 La mescidanza come scelta stilistica alternativa del romanzo sensibilizza il lettore ad aprirsi a varietà tematiche, sperimentazioni linguistiche e stilistiche; e, ancora a particolari soluzioni tecniche e procedimenti narrativi provenienti da varie e antiche tradizioni: «da quelle afroasiatiche, preclassiche a quelle classiche orientali, dalla tradizione popolare narrativa e poetica alle esperienze di testi classici e moderne fatte proprie da un lettore vagabondo e curioso, che è e si riconosce in una zona di confine, in un luogo— metafora di incroci di etnie e culture diverse».11 La storia, quindi, è costruita sulla scorta della diversità, sul misturo caro alla coscienza postcoloniale, che trae giovamento dall’unione del diverso.12 Il gusto per l’ossimoro e per il divertissement accompagna una narrazione giocata su uno stile poliedrico che cambia in funzione del racconto e dei personaggi che l’attraversano. L’autore svela sin da subito la sua natura, nel voler visceralmente registrare l’oggi, cercando un filo, anche irregolare, un linguaggio e un’architettura narrativa sperimentali per proporre l’esperienza del

annunciate e proclamate in anticipo (= vocabolario dell’attesa). Bisogna dotare certe immagini del potere di far referenza a cose passate». Ivi, 28-9.

10 G.CERINA, Introduzione a Passavamo sulla terra leggeri…, 16. 11 Ivi, 15.

presente, si confronta con il passato, con la memoria e le radici di una collettività alla ricerca di un’origine.13

Questa miriade di storie confluite nella memoria sono state “inanellate tra loro l’una poi l’altra” e declinate, come suggerisce Argiolas, in un’idea nuova di letteratura, dove «il rapporto indagato tra narratore e trascrittore identifica nel secondo tanto il rappresentante testuale e diegetico del lettore ‘nuovo custode del tempo’, quanto quello di ulteriore narratore, stavolta per iscritto, che consegna il messaggio divenuto libro».14 La codificazione di una “nuova storia” determina una presa di posizione da parte del cantore rispetto all’impostazione sociale dettata dai vari regimi coloniali succedutisi nell’isola: e così, il bardo Antonio Setzu, impone una linea dura in cui l’unica legge vigente è quella degli antichi giudici danzatori, regolata non solo dal codice arborense ma anche dall’accettazione del credo cristiano mutuato attraverso il vangelo apocrifo di Lucifero.15 In questi messaggi, in questi testi i sardi ancor oggi si identificano, riconoscendoli come statutari della propria identità.

La scrittura di Passavamo sulla terra leggeri ironizza sul ribaltamento del canone, non solo occidentale — aderendo quindi ad una tendenza diffusa nelle ‘periferie’ letterarie del mondo — ma anche sul privilegiare una realtà alternativa sia in termini antropologici sia in termini strettamente letterari, in cui la città più grande dell’isola, Cagliari, è letterariamente relegata ai margini rispetto ad una più ampia tradizione logudorese e barbaricina.16 Questo, a sua volta, interpreta e propone il punto di vista del Sud della Sardegna che sino ad ora aveva visto la luce tangenzialmente nelle pagine cagliaritane di Dessì. Atzeni, al contrario, concentra la sua attenzione su questa zona letterariamente ombrosa raccontando una Cagliari nuova, vitale, già a partire dai racconti sino al Quinto passo è l’addio e, soprattutto,

Bellas mariposas. Ciò rientra nella concezione atezeniana, mutuata da Michelangelo

Pira, della «rivolta dell’oggetto»,17 di cui lo scrittore offre una palingenesi letteraria rivalutando la periferia sulla scia di altri che nello stesso momento agivano in questa direzione — penso ai postcoloniali Cesaire, Chamoiseau, Rushdie, certo,

13 G.LO CASTRO, Sardegna poscoloniale? Una lettura di Sergio Atzeni, www.lospecchiodicarta.unipa.it.

14 P. P. ARGIOLAS, in Sardegna isola delle storie. Le ragioni della scrittura nel cronotopo atzeniano di

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 180-183)