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Mariano ed Eleonora d’Arborea.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 156-159)

E, ancora, l’episcopo chiese:

2.7. Apologhi di genealogie: dall’ Apologo del giudice bandito a Passavamo

2.7.2. Mariano ed Eleonora d’Arborea.

La memoria collettiva ha sicuramente ben impresso la figura del giudice Mariano, e per questo Atzeni si diverte a farlo conoscere al lettore in una veste nuova, diversa. Mariano, già custode del tempo quando viene eletto giudice racconta la storia ad Arsoco, nipote del Maestro Arsoco già citato in precedenza, e viene sicuramente ricordato, anche se il lettore non lo sa, come il custode del tempo meno duraturo della storia dei giudici. Il suo giudicato si apre, in continuità con il lavoro del padre Barisone, con la difesa della libertà dall’invadenza della chiesa romana, in nome della storia di Tauro e Lucifero. Nonostante questo, Mariano ed Eleonora non disdegnarono il confronto e invitarono l’episcopo Pantaleo alla loro tavola. Mariano, intanto «rendeva giustizia dappertutto. A cavallo da un capo all’altro delle terre dei giudici. Chiunque avesse una querela poteva fermarle in giudice in qualsiasi momento».265

La trascrizione delle leggi dei giudici, conosciute a memoria e tramandate oralmente dalla notte del tempo in avanti, è legata alla figura di Mariano e di sua figlia Eleonora. Chiaramente a questo passaggio fondamentale per la storia del popolo sardo, Atzeni non dedica più di qualche riga, una breve parentesi in mezzo a un uragano di storie. Come per esempio lo sprigionarsi della fantasia del nostro davanti all’avventura matrimoniale di Mariano ed Eleonora (qui conosciuta come Eleonora di Seu) ritratti a districarsi tra monache guardiane in stile boccaccesco reclutate dall’episcopo per scongiurare patti diabolici durante l’amplesso:

Mariano chiese a Eleonora di sposarlo. Eleonora accettò. Mariano fece costruire una basilica bianca su un colle accanto alle paludi. La eressero usando le colonne di un tempio romano. Furono necessari quattro anni. Mariano e Eleonora chiesero all’episcopo di sposarli nella nuova basilica. L’episcopo disse: «La chiesa vuole essere certa che i figli siano di Mariano e Eleonora. Se giurate di permettermi la verifica, vi sposerò».

Giurarono.

Da quel giorno quattro monache accompagnarono dappertutto Eleonora e la notte sorreggevano candelabri a tredici candele accanto agli amanti per controllare che nessun estraneo si avvicinasse. A volte pretendevano di toccare visi e petti per essere certe che fossero proprio loro, Mariano e Eleonora. A volte toccavano i genitali uniti per verificare non ci fosse presenza di corno di Lucifero, fecondatore di femmine. Il tempo cambiò. Ugone nacque da Eleonora un anno dopo il matrimonio. I sardi festeggiarono ubriacandosi per tre giorni. Era la certezza della libertà futura, pensavano, rassegnati all’idea che per essere liberi fosse necessario affidarsi a una famiglia di giudici ereditari. A due anni Ugone non sapeva camminare e non diceva una parola. Era già quel che sarebbe stato da uomo: un essere torpido di mente e di corpo. Mariano e Eleonora, circondati da 265 Ivi, 157.

monache che illuminavano con candele e toccavano con mano la mancanza di imbroglio e artificio, cercarono ancora la fortuna della fecondazione.266

Qui si inserisce la vicenda della monaca Sinna «maura di Serbariu»,267 la quale sostiene che «il contatto delle sue mani coi testicoli dell’uomo durante l’atto impedisce la fecondazione. Non sapeva spiegare perché ma l’episcopo pisano le credette e le ordinò di toccare i testicoli di Mariano per tutta la durata dell’atto».268

Sinna che pratica l’«antico gioco» insieme ai giudici, testimonia ulteriormente la presa di posizione di Atzeni nella riscrittura di una storia diversa da quella manualistica. Il racconto prosegue con il ricorso al gioco del doppio, dello scherno che conduce i personaggi verso una risoluzione favorevole. Eleonora elaborò un piano secondo cui il giudice Mariano avrebbe sospeso per tre anni il proprio mandato in favore della corona per ritirarsi sui monti con la moglie e la monaca Sinna, imposta dall’episcopo. Qui i due coniugi si astennero nella carne per tutto l’inverno, stimolando così le fantasie di Sinna, colmate solo con l’arrivo dell’estate:

Giunta l’estate Mariano e Eleonora si amarono sull’erba accanto al torrente. Sinna si spogliò per il troppo caldo e controllò con la solita meticolosità. Controllò per giorni e notti. Eleonora giocando con Mariano parlava e scherzava con Sinna, la toccava fra le gambe, sulla schiena, sulle natiche. Gli scherzi accendevano il desiderio di Sinna di compiere il proprio dovere di vigilanza con scrupolo e precisione ogni giorno crescenti. Si fuse con gli amanti. Quando Mariano la prese, Sinna non si lamentò. Aveva dimenticato chi fosse. Dall’alba al tramonto vedeva il corpo del giudice. Di notte lo sognava. Quando Mariano la prese, Sinna provò il piacere della carne e ne fu felice. L’attesa era stata spasmodica, la preparazione estenuante. Dopo un mese seppero che la gravidanza era probabile. Sinna, dimenticata dal mondo, non faceva che sfregarsi a Mariano e Eleonora. Negli ultimi tre mesi di gravidanza, spaventata da quel che accadeva e temendo punizioni episcopali e divine, non si mosse e rifiutò ogni contatto. Mangiava però, chiedeva ogni genere di cibo. Beveva. Cantava. Piangeva e rideva senza motivo. Nacque un maschio e lo chiamarono Mariano. La nascita del bambino rasserenò la monaca. Nessuno avrebbe potuto più vedere la pancia che denunciava il peccato commesso. Sinna allattò Mariano e ricominciò a assolvere ai propri compiti di vigilanza. Senza accorgersene fu incinta per la seconda volta. Nacque Martina e Sinna la allattò. Allo scadere dei tre anni Eleonora assoldò tre nutrici e il giudice tornò in città con due figli. Sinna giurò all’episcopo: «Nella casa non eravamo che io e i coniugi. Non c’è alcun dubbio». L’episcopo non si preoccupò. Aveva in mano l’erede designato.269

266 Ivi, 161-62. 267 Ivi, 162. 268 Ibidem. 269 Ivi, 164-65.

Atzeni, come ben mette in luce questo brano, gioca — anzi joga — continuamente con il ruolo delle monache, le quali vengono completamente spogliate, fuori di metafora, da ogni possibile ascendente divino. Ricordiamo le verutane, le prostitute di Karale e ora le monache scaccia demonio designate ufficialmente dalla chiesa. Sinna e, si vedrà in seguito, Giustina, rappresentano l’antitesi del modello monacale e sfilano sulla scena rendendosi partecipi del racconto più con i gesti che con le parole. Siamo sicuramente lontani dalla grave religiosità di natura medioevale o manzoniana, e anzi si rivela chiaro il supporto di Boccaccio per quanto riguarda il rapporto ironia/seriosità che scaturisce dalle immagini delle monache.

In ogni caso, i due figli nati dalla triplice unione tra Eleonora, Mariano e Sinna, crebbero tranquilli poiché l’erede designato è Ugone, affetto da gravi patologie e per questo palesemente non adatto al ruolo che avrebbe dovuto investire. Atzeni, sovrappone tre piani narrativi che corrispondono a tre discorsi diversi su altrettanti personaggi, secondo la consueta tecnica cinematografica:

Ugone a tre anni sapeva camminare e conosceva soltanto una parola: «Dio». Si cagava addosso. Viveva circondato dalle monache. Lo educavano nel monastero di Cantàra impedendo a Eleonora di avvicinarlo. Mariano e Eleonora spiati da monache illuminanti cercavano la fortuna della maternità. Le monache esultavano perché il miracolo non si ripeteva. Ugone a sette anni sapeva recitare a memoria otto preghiere, non capiva nove frasi su dieci di quel che gli si diceva e non sapeva salire a cavallo. Mariano e Eleonora toccati da monache esultanti cercavano la fortuna della paternità.270

La contrapposizione tra Ugone e Mariano-Eleonora contribuisce ad elevare i due “protagonisti” sul piano morale bilanciandoli su quello dell’ironia derisoria attraverso la figura di un personaggio che si offre come rappresentazione fisica della situazione socio-politica in cui versa la Sardegna in questo particolare momento storico, proiettata verso la fine della libertà leggera dei giudici danzatori.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 156-159)