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Genealogie epiche.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 188-200)

E, ancora, l’episcopo chiese:

34 Si ricordi la ricorsività del numero nella scrittura atzeniana, dettaglio significativo per una lettura autobiografica del testo: «Ruggero parla a se stesso: “Fuggi Dopo trentaquattro anni ti strappi alla

3.2. Genealogie epiche.

Il “noi” collettivo che già dal titolo coinvolge il lettore a prescindere dalla sua provenienza e dal suo status sociale Antonio Setzu — crasi del sardo su betzu — ha quindi ereditato l’umile facoltà di giudicare nel senso di “accompagnare” e consigliare, cara agli antichi giudici danzatori. Nel rito di iniziazione che vede impegnati sia Antonio Setzu che il bambino di otto anni la narrazione diviene libera, libera di sfogarsi, di migliorarsi; libera di moltiplicarsi di mille altre storie che il custode del tempo può raccontare al termine del suo mandato: «Potrai aggiungere spiegazioni nuove dei fatti antichi narrati nella storia che ti è affidata e raccontare avvenimenti memorabili del trentennio della tua custodia, purché con chiarezza e concisione».35 La libertà diviene il vincolo essenziale che fonda l’identità dei sardi, e nel momento in cui questa viene meno tutta la realtà si perde e diviene vana, il presente non ha più senso, è schiavizzato. Non rimane altro che la memoria, unico elemento per cui valga la pena di resistere, unica forma di resistenza: «Aspettavo che il racconto riprendesse e imponevo a me stesso di non dimenticare neppure una parola. Non sapevo che è impossibile. Ero avvinto al racconto come mai fino a oggi a nessun altro racconto o narrazione, sia in parole o immagini».36 A questo punto non rimane che l’infavolazione, la ricostruzione del mosaico tessera dopo tessera, per fantasia, per racconto. La tecnica ante- storica e, anche, anti-storica utilizzata da Atzeni non solo in Passavamo sulla terra

leggeri ma in tutta la sua produzione, letteraria e non, certo non differisce da quella

di altri scrittori a lui contemporanei, legati a doppio filo all’universo del racconto orale e fieri di riscoprire un mondo ormai sbiadito, in via di dissoluzione. Ma in realtà essa scava le sue radici in un passato dal sapore antico, che precede il lungo cammino di storie di Erodoto e si annida nell’esperienza di Ecateo di Mileto, il primo ad aver compreso la necessità di fermare il racconto orale in forma scritta, ad aver messo in discussione il mito genealogico così come esso veniva tramandato, promuovendo una verità altra, alternativa rispetto a quella corrente. Per questo, seppur la validità storica e conoscitiva del mito rimanga invariata Ecateo, esprimendosi in prima persona sostiene: «Scrivo queste cose, come mi appaiono vere. Infatti i discorsi degli Elleni sono, come a me pare, molti e ridicoli».37 Niente di diverso, invero, con quanto affermato da Atzeni in diversi

35 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 204. 36 Ivi…, 66.

luoghi della sua narrazione — basti pensare a Raccontar fole e al Figlio di Bakunìn e all’arringa contro gli storici, in particolare quelli savoiardi —, che confluiscono nella forte esigenza di raccontare che emerge dalle pagine epiche di Passavamo sulla

terra leggeri, in cui tutti i personaggi si fermano e “raccontano”, tutti hanno

qualcuno che vuole ascoltare le loro storie. Così la storia, il mito, si riscrive, non si accetta acriticamente ma è continuamente sottoposto a revisione. E solo, come aveva intuito Ecateo nel IV secolo a. C, registrando attraverso la scrittura che il racconto prende forma, acquista un senso e diviene imprescindibile. Da qui l’importanza del libro, così evidente in Passavamo sulla terra leggeri da divenire il protagonista del racconto di fondazione, come narra lo stesso bambino-Atzeni rispetto alla grandezza e alla pesantezza delle parole di Setzu, che tratteggiano la cornice narrativa del romanzo:

Non osavo aprire bocca per timore che qualunque parola potesse essere fraintesa come stanchezza o voglia di andare via. Cominciavo a intuire che la storia narrata era la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell’isola dei danzatori, madri e padri forse a noi simili per dolcezza e sorrisi o per la follia che non sappiamo dove nasca.38

E Atzeni, nel desiderio di raccontare e dare voce a tutte le storie e a tutti coloro che possono raccontarle ripercorre idealmente un presupposto già omerico, secondo cui la nominazione, il racconto, fissano e stimolano indelebilmente la memoria, tanto più se questa a sua volta viene fissata con la scrittura:

Ditemi adesso, Muse che abitate l’Olimpo — voi dee, che siete sempre presenti e sapete tutto,

noi sentiamo soltanto la fama e non sappiamo niente — chi erano i principi e i capi dei Greci:

io non posso nominare la massa degli uomini, neanche avessi dieci lingue e dieci brocche e una voce instancabile e un cuore di bronzo,

a meno che siano le Muse d’Olimpo, figlie di Zeus signore dell’egida, a far menzionare di tutti quelli che vennero a Troia.

Ma nominerò i capi e tutte le navi.39

La fama, a cui Virgilio in seguito darà un volto e un carattere negativo confondendola con lo sprezzante pettegolezzo,40 qui conserva quel significato

38 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 85.

primigenio legato ancora alla memoria del tramandare di padre in figlio nozioni che il tempo potrebbe obliare. In Atzeni, la fama acquisisce il significato moderno del temine: ad esempio, nel momento in cui Lucifero convoca Tauro per consegnargli il libro sacro tradotto da Esén, sostiene che quest’ultimo «era morto ai miei tempi ma la sua fama di santo e di traduttore era viva»;41 e, ancora, di Veruta «fama che la diceva lasciva, mistica e profetessa»;42 «Pantaleo ebbe subito fama di santo».43 La catalogazione, insieme alla nominazione inoltre, sono i mezzi attraverso i quali una comunità che ancora si muove nell’oralità o che inizia a muoversi con insicurezza nella scrittura si costruisce un proprio bagaglio culturale, di cui appunto la fama — nel senso antico e moderno del termine — contribuisce a tramandare. Nominare le cose significa battezzarle, iniziarle, ricordarle: «Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle»44 e, ancora: «Le correnti furono dolci e nominando tutte le sillabe nominammo anche Le, stella del mattino, prima stella della notte, favorevole alla fecondità e vedemmo le scogliere rosse avvicinarsi».45 L’epica di Passavamo sulla

terra leggeri si fonda su tali presupposti da cui trae linfa, scossa da continui climax

ed enumerazioni che incalzano la narrazione arricchendola con fitte schiere di nomi, aggettivi, verbi.

Così come nell’antesignano omerico, il Catalogo delle navi scandisce la sequenza dei capi e delle navi conscio di offrire ai suoi concittadini un esemplare modello mnemonico ed educativo. Questo espediente, che già in Virgilio sfuma, ma di cui Atzeni conosce bene il meccanismo, è ripreso e utilizzato come espediente retorico per inventare una lingua di cui le fonti non hanno riportato traccia: così nasce un catalogo di ipotetiche stelle fisse che, sostenuto dal computo astronomico e matematico ed espresso sottoforma di preghiera, accompagna al ritmo di canto e danza i s’ard nel loro percorso fondativo:

Il vento calò. La nave si fermò, il mare era immobile. Non sapendo che fare guardammo M’u il saggio. Disse: “Preghiamo elencando le sillabe del creatore e le loro distanze. Er, otto piedi celesti da Uh. Uh, sedici piedi celesti da Is. Is, nove piedi celesti da Om. Om,

40 Cfr., P. Virgilius Maro, Eneide…, IV. 41 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 110. 42 Ivi, 115.

43 Ivi, 156.

44 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 65.

nove piedi celesti da Is, da El, da Un, da Se, da Af, da En, da Mi, da Uv, da Ja”. Cantando danzavamo».46

Il racconto è dunque la sede, oltre la memoria, predisposta ad accogliere la sequenza degli elementi fondanti su cui si costruisce l’identità di una comunità. Il catalogo delle navi omerico costituisce un testo a sé stante, la cui rilevanza è sottolineata dal fatto che sia abbracciato da due invocazioni alle Muse ma la cui storicità è ancor oggi oggetto di discussione.

Nonostante questo, tra verità e menzogna, l’importanza della catalogazione come descrizione di un mondo è un concetto che negli anni Ottanta viene ripreso genericamente in senso postmoderno ma — nel caso di una letteratura a forte impatto emotivo quale quella atzeniana ambisce ad essere —, la nominazione, l’elencazione o entrambe vengono riesumate in senso epico, applicate alla forte necessità di narrare. L’esperienza di Walcott, Glissant, Chamoiseau, Maggiani, Rushdie, consiste nel narrare le storie, “divorarle”, riacquistare la dimensione originaria del racconto — riprendendolo dalla tradizione delle Mille e una notte e del

Decameron —, di rinascita, o meglio di procrastinare la morte intesa come oblio,

sconfiggerla, scongiurarla, eterizzando la parola e chi la pronuncia. che nel 1981 con I figli della Mezzanotte riadatta l’epica e lo stesso romanzo storico alle esigenze della nazione indiana, Così il narratore di Ruschdie sin dalle prime pagine del romanzo si rivolge al lettore integrandolo ed esplicitando il senso di un individualismo che ormai è onnicomprensivo, collettivo: «ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza di improbabile e mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi dovrete anche voi inghiottire tutto quanto». Come sottolinea Silvia Albertazzi, infatti,

lo scrittore che nasce sulla scia di Rushdie è un cannibale, che divora le storie della sua gente come quelle degli altri per assorbirne la forza e l’energia. Inghiottire storie è un atto necessario quanto irriverente, una sorta di resistenza culturale, una violazione di codici, ma anche una forma di omaggio e riconoscimento. È il contagio postcoloniale, che instaura tra le diverse narrazioni, occidentale e orientale, del colonizzato e del colonizzatore, una forma di contaminazione positiva, imperniata sul passaggio di esperienze, sogni, racconti, da chi narra a chi ascolta, attraverso i tempi e gli spazi, ipotizzando la possibilità di superare la fine, di acquisire immortalità, trasmettendo ad altri la propria storia.47

46 Ivi, 43.

Su questa stessa linea Maurizio Maggiani offre il suo apporto di storie lunigianesi e del Levante ligure ma non solo, facendosi cantore a sua volta di una terra di frontiera che scava nella memoria storica, ricostruendola attraverso il racconto. Alla stregua di Ruschdie, di Atzeni e degli scrittori di periferia, Maggiani sente forte il senso di protezione verso la sua terra e il sostrato culturale di riferimento. Sin dai primi passi nelle vie della letteratura, lo scrittore della Magra si arruola volontario nella missione di riscrittura della storia attraverso la proposta di un’altra verità, espressione del popolo. Come lo stesso scrittore ammette:

Io ho un chiodo fisso: raccontare la vita di persone che sono abbastanza grandi da fare qualcosa di più che sopravvivere, senza che questo venga chiesto loro da nessuno se non dalla loro stessa assunzione di responsabilità. È gente che si assume la responsabilità di vivere. Questo significa che compromettono, toccano, sfiorano, manipolano anche la vita degli altri. Quando una vita è vissuta in modo “regale”, influisce poi sulla vita degli altri. Non sono un adoratore dei bei tempi andati però voglio che il passato mi appartenga e voglio appartenere anche al passato perché è l'unico modo che ho per vivere quest’epoca con dignità e con responsabilità, sapendo che, così come vengo da qualche punto indietro, ho ancora dello spazio davanti, ho un orizzonte oltre quello che vedo.

[…] Quello che faccio io, ormai da anni, è raccontare delle storie che hanno lo scopo di dare voce a chi voce non ha, perchè una vita senza voce è una vita cui non si rende giustizia. Lo scopo della letteratura è di costituire una sorta di luogo epico a disposizione di chi non viene ascoltato, di chi non ha voce. Perché ogni esistenza ha la sua profonda dignità: ogni vita è una grande vita.48

Per uno scopo così alto, prezioso, il romanzo storico per definizione, tanto più quello di matrice postmoderna, si rivela un luogo di narrazione agro, superficiale. Bisogna rispolverare l’epica o, meglio, l’epopea perché «le epopee servono a questo. Omero non scrisse la storia di Troia, ma ha creato un´epica in cui tutti si sono riconosciuti. E grazie al suo racconto Troia è ancora viva».49

Non esistono quindi storie piccole e storie grandi, esistono storie e persone ugualmente sottoponibili al vaglio del mito dal quale attraverso l’infavolazione narrativa nasce il racconto di fondazione. Così Atzeni, ha costruito l’epopea del popolo sardo a partire da piccoli personaggi che, tradìti dalla storia ma tràditi attraverso il racconto, diventano grandi, esemplari:

Io credo che la Sardegna vada raccontata tutta. Finora la zona maggiormente descritta nelle opere letterarie è la Barbagia, e si capisce perché: lì gli uomini sono più alti di quelli del sud, sono più forti, sparano. Insomma, c’è qualche differenza. Nuoro è l’Atene della Sardegna, A Nuoro nasce solo gente intelligente, mentre a Cagliari nascono più bassi e un 48 M.MAGGIANI, Io, stregato dalla libertà, intervista di M. T. Lemme, «Il Mattino», 9 luglio 2005. 49 ID, Quanta fatica per traslocare in un´altra lingua, intervista di Simonetta Fiori, «la Repubblica», 10

po’più scemi, è una città torbida che ama soprattutto mangiar bene. Però io credo che sia importante raccontare anche Cagliari, anche Guspini, Arbus, Carbonia; se avrò vita per fare questo, ma cercherò di farlo perché tutto merita di essere narrato. Credo che le vite di tutti gli uomini meritino di essere in qualche modo ricordate, trasmesse. Questo è il compito che si devono assumere gli scrittori piccoli; gli scrittori grandi creano le grandi metafore, i capolavori; gli scrittori piccoli hanno il compito molto più modesto di raccontare, così come sono capaci, le persone che hanno conosciuto.50

E gli anonimi protagonisti di Passavamo sulla terra leggeri ora hanno un nome, hanno una storia che sicuramente verrà raccontata di generazione in generazione.

L’intenctio autoris è stata rispettata e lo scrittore diviene canettianamente un

“custode delle metamorfosi” di un tempo senza tempo, che cambia ma resta sempre lo stesso. Egli crede che la vita abbia un senso solo se questa viene raccontata. Così, si riscrive una genealogia nuova che dà voce a quelli che Gramsci definiva subalterni — da cui negli anni Ottanta nacque in India il movimento dei

Subaltern studies — che addiziona al suo interno passato presente e futuro, per poi

rinascere sempre in parole nuove. È il punto fermo che segna il passo della danza atzeniana. In questo crogiuolo di storie che geminano su se stesse, si moltiplicano, crescono, la memoria di una comunità rimane viva e si arricchisce, poiché «una storia crescerà come un loto rampicante, si avvolgerà su se stessa e si spanderà senza fine, finché ciascuno entrerà a farne parte in un’armoniosa confusione che contiene il passato, ogni attimo del presente e il futuro infinito [...] e con queste parole ricominceremo tutto daccapo».51

Alla luce della rinascita sarda che accavalla gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, Atzeni sente che i tempi sono maturi per riproporre un modello di resistenza forte, che oltrepassa e sconfigge il tempo: il libro, un racconto di fondazione, espressione più alta di un popolo. Francesco Enna scrive che «il racconto storico propriamente detto è rarissimo: si possono trovare accenni ai momenti fondamentali della storia della Sardegna, ma mai un ciclo organico, una vera e propria epica».52 Gino Bottiglioni, nel 1922, aveva riconosciuto che i riferimenti alla Sardegna sono scarsi anche a livello leggendario. Manca una memoria storica relativa ai periodi antichi, sia precedenti il dominio romano che durante la romanità. La chiesa ha, oltretutto, cristianizzato quei pochi elementi leggendari esistenti e li ha posti su un livello di superstizione. Il ciclo leggendario 50 S. ATZENI, Il mestiere dello scrittore, in Sì…otto, Cagliari, Condaghes, 19961. Qui si utilizza

l’edizione del 2005, 82-83.

51 V.CHANDRA, Red earth and pouring rain, London – Boston, Faber and Faber, 1995 (trad. It. Terra

rossa e pioggia scrosciante, Torino, Instar Libri, 1998, 741.

sardo si focalizza su due periodi storici ben definiti: il primo coincide con quello delle incursioni saracene, con il quale si intrecciano le leggende dei santi più importanti; il secondo con la quello dei giudicati. È interessante vedere come Bottiglioni utilizzi, all’occorrenza, per i suoi scritti sia le fonti storiche che quelle romanzesche le quali, su questo piano, hanno la stessa valenza documentaria. Pietro Lutzu, nel suo intervento all’interno del «Bullettino storico sardo» scrive che Le Carte di Arborea sono false e che gli autori sono dei dotti moderni che si sono serviti anche di fonti popolari per la creazione dei testi sia storici che letterari. Egli vuole salvare la figura storica di Eleonora ma anche il suo mito nella versione popolare esistente. Il giudizio del popolo sulla sovrana, non corrisponde alla realtà dei fatti per il fatto che il popolo confonde date, nomi, rimaneggia le tradizioni orali che esso tramanda di padre in figlio. In questa accezione, i falsi d’Arborea presentano un fondo di verità dovuto al fatto che essi abbiano riportato su carta la figura di Eleonora non idealizzandola ma rispettando l’idealizzazione che di essa il popolo aveva fatto. La judikissa rappresenta il sovrano ideale, ciò che i sardi avrebbero voluto al posto dei piemontesi. Essa quindi diventò il simbolo della «nazione sarda» anche per le sue doti personali, legate alla saggezza, all’animo guerriero, alla sapienza nel legiferare, all’amor di patria. La leggenda nata intorno alla figura di Eleonora è di origine medievale ed è veritiera e storicamente fondata in quanto riconducibile ad un’epoca contemporanea rispetto ai fatti narrati e logisticamente vicina all’ambiente in cui visse la sovrana. Un’epica sarda, quindi, non esiste e alcuni passaggi della storia dell’isola si sono fissati nella tradizione orale sotto complete vesti mitiche o hanno perso la loro specificità storica grazie alla cristianizzazione e alla costruzione di una memoria storica costituita da santi—eroi. Testimonianze orali sulla storia antica non sono, in alcun modo, utilizzabili ai fini della ricostruzione storica. La ricostruzione del tempo storico, individuale o collettiva che sia, prende forma in base al punto di vista del presente. La fama degli antichi eroi ed eroine contribuiscono nella costruzione dell’identità sarda.53

53 Cfr.: A.GRAFTON, Falsari e critici. Creatività e finzione nella tradizione; La Sardegna di ieri e di oggi.

Scritti e discorsi sulla Sardegna, a cura di U. Cardia, Sassari, Edes, 1988; L.MARROCU-M.BRIGAGLIA, La

perdita del regno. Intellettuali; T.MOMMSEN, Relazione sui manoscritti d’Arborea, in «Archivio stortico italiano»,

III, XII, 243 ss; A.ACCARDO, La nascita del mito della nazione sarda, AM&D, 1996; F.CESARE CASULA,

Breve storia della scrittura in Sardegna, Edes, Cagliari, 1978; Intellettuali e società in Sardegna tra restaurazione e unità d’Italia, Atti del convegno internazionale di studi a cura di G. Sotgiu, A. Accardo; G. Siotto Pintor,

in Storia letteraria di Sardegna; G.MELE, Atti del convegno internazionale di studi, società e cultura nel

giudicato d’Arborea e nella carta de logu; E. DELITALA, Gli studi sulla narrativa tradizionale sarda. Profilo

storico e bibliografia analitica; N. RUDAS, L’isola dei coralli. Itinerari dell’identità; Roma, La Nuova Italia

Se tutta la produzione atzeniana è fondata sulla necessità di «raccontare le vite degli uomini» svelando la specificità della propria memoria collettiva solo in rapporto a quella individuale legata al singolo personaggio, Passavamo sulla terra

leggeri ribalta l’assunto interiorizzando la memoria individuale in funzione di quella

collettiva. Questo procedimento rientra nella più generale concezione di «rivolta dell’oggetto» teorizzata da Michelangelo Pira negli anni Settanta, a cui Atzeni sembra rendere omaggio attraverso il racconto fondativo. Nella concezione di Pira la «rivolta dell’oggetto» concepisce una forma di resistenza in cui ciascun individuo è invitato a mutuare la propria posizione subalterna contribuendo alla determinazione di una forte ideologia collettiva. In questo modo, il concetto stesso di etnocentrismo acquisisce un significato nuovo, aprendosi alla contrapposizione tra forze antergiche e sinergiche, ossia nella definizione del rapporto fra il sé e l’altro da sè:

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 188-200)