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G F ILIPPINI , Il labirinto della scrittura e il filo dell’ironia, in Trovare racconti mai narrati, dirli con

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 184-187)

E, ancora, l’episcopo chiese:

21 G F ILIPPINI , Il labirinto della scrittura e il filo dell’ironia, in Trovare racconti mai narrati, dirli con

gioia…, 39. A proposito delle idee atzeniane sulla narrativa sarda, le tematiche, la lingua e il rapporto col

scontra con l’egoismo degli «uomini del mare», a cui corrispondono in età recente i savoiardi.22

I «racconti mai narrati»23 che Atzeni dispiega tra le pagine di Passavamo sulla

terra leggeri afferiscono, come già più volte ribadito nel presente lavoro, alla sfera

della memoria, del ricordo e dell’infavolazione dei fatti rispetto a come essi sono stati trascritti dagli storici del passato. Sulla scia di Ricoeur, per Atzeni si può affermare che il meccanismo secondo cui avviene l’integrazione tra storia e narrazione dei fatti storici si inneschi attraverso il ricorso all’immagine e alla parola, da cui scaturisce un vero e proprio ‘vocabolario dell’attesa’. Infatti, «l’immagine non è un’impronta lasciata dalle cose passate bensì un segno e una causa delle cose future che sono in tal modo anticipate, presentite, predette, annunciate e proclamate in anticipo».24 A questo proposito, il filosofo francese ritiene che si crei una raggiera di corrispondenze che vede coinvolti l’atto del narrare e il sentimento dell’attesa, determinati dall’ossimoro memoria/predizione del futuro. Dall’unione di questi elementi deriva la creazione di un’immagine del passato che funge, machiavellianamente, da impronta per i fatti che verranno. Ciò giustifica la presa di coscienza rispetto alla necessità di conoscere la storia, i personaggi e i risvolti dei fatti che hanno tracciato il sentiero del divenire: «è dalla ex memoria che si estraggono le parole generate dalle loro ex immagini, orme impresse nel nostro animo; così il tempo che non è più si riflette e vede la sua immagine in quello presente poiché sussiste ancora nella memoria».25 Per questo motivo, Atzeni fa proprio il potere referenziale della parola per immagine — tecnica narrativa che Franco Cordelli ha definito «frase figura»26 — con cui traduce la natura polisemica e universale del mito attraverso un procedimento mitopoietico che ricodifica il patrimonio tradizionale. Così come sottolinea Bertazzoli, «se la letteratura nasce come narrazione mitologica, il passaggio da un pre-testo della tradizione orale alla sua dimensione letteraria implica necessariamente la ricodificazione dei materiali sacralizzati con l’uso di codici 22 S. ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…, 76. Volete davvero dividere la terra e le bestie e

andare ognuno per sé? Chi vi aiuterà se vi spezzerete una gamba, chi vi darà pecora e fave se sarete perseguitati dal cattivo destino? Che farete dell’oro? Comprerete schiavi, per diventare parassiti incapaci di fare un passo, ubriachi dall’alba al tramonto, senza più rispetto per i riti»? La terra coltivabile, i pascoli e le pecore appartenevano al villaggio. Ibidem.

23 Ivi, 189.

24 RICOEUR, Tempo e Racconto… I, 27.

25 Ibidem.

26 Cfr. F. CORDELLI, Frasi-figure come cristalli lucenti, «La grotta della vipera», XXII, 75, estate 1996.

espressivi diversi».27 Infatti, nel ripercorrere a ritroso il cammino della storia, Atzeni segue i dettami impartiti da Calvino nelle Lezioni americane, ripensando al passato alla luce di una nuova lettura del presente.28 Allo scrittore, quindi, il compito di riprendere a raccontare il principio che ha dato vita al tutto, restituendolo all’oralità attraverso la contaminazione tra realtà e affabulazione che reinvergina in forma epica un mondo ormai scomparso. Il problema mitopoietico è particolarmente sentito da Atzeni: «A chi scrive compete dunque di portare alla luce le stratificazioni culturali che rappresentano la Sardegna di oggi, ripescando nel passato quelle persistenze storiche, ancestrali e quasi archetipiche che spingono i sardi a percepirsi immaginarsi e raccontarsi diversi».29 Passavamo sulla

terra leggeri segna quindi il percorso di resistenza civile del popolo sardo, sottrattosi

a qualsiasi tipo di lamentazione nostalgica a cui, anzi, si contrappone «un perenne alternarsi di ribellione e assimilazione, che lascia covare un’irriducibile alterità sul fondo delle trasformazioni e delle integrazioni».30 Nonostante, come afferma lo stesso Atzeni, la Sardegna opponga in realtà una resistenza mentale a qualsiasi proposta di trasformazione culturale, sia essa di grande o di piccola entità. Il piccolo custode del tempo, alter-ego dello scrittore, che all’età di otto anni — così come è avvenuto per i suoi predecessori — è investito di una responsabilità sociale nei confronti del suo popolo che gli conferisce il prestigio della sapienza culturale, compie una sorta di percorso formativo che dall’innocenza procede verso la conoscenza e la maturità:

Avevo otto anni, non sapevo nulla della vita, avevo ascoltato la storia, non l’avevo capita, anche ora che la dico non so che senso abbia. Non conoscevo il significato delle parole eterno e increato (forse lo intuivo con vaghezza) rubate a conversazioni famigliari, mi gloriavo di essere ateo. Nell’isola era sinonimo di bandito, a otto anni ero abituato a essere guardato con sospetto, con diffidenza, con paura — molto tempo dopo, scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità degli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.31

27 R.BERTAZZOLI, Introduzione, Natura universale del mito…, V/1, 5..

28 I.CALVINO, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988.

29 G.LO CASTRO, Sardegna poscoloniale? Una lettura di Sergio Atzeni….

30 Ibidem.

In questo contesto, alla luce del rapporto con Chamoiseau e con l’Elogio de la

creolitè si potrebbe comprendere forse ancor meglio l’apporto ideologico che

Atzeni ha riversato nei suoi romanzi e, ancor prima, nei racconti. L’ambiguità della struttura identitaria creola, infatti, supera l’eventualità di un superficiale ‘duello della diversità’ per evolversi in un confronto costruttivo e includente sotto il profilo culturale. Resi davanti all’evidenza di un’identità plurima e scissa in mille sfaccettature, gli scrittori delle periferie assecondano la propria natura cantandone la «peculiarità globale che attraversa la condizione creola di tante regioni del mondo, vittime dell’assimilazione e dell’omologazione occidentale, eppure in una certa misura irriducibili e altre rispetto ad essa».32 Allo stesso tempo, però, nel penetrare in un circuito più vasto, Atzeni sottolinea quelli che sono alcuni dei tratti distintivi della quotidianità sarda, particolarmente connotata nell’intimità della casa, del nucleo familiare. Come sottolinea Argiolas, infatti lo scrittore sceglie non a caso come spazio di ambientazione della cornice narrativa la cucina, luogo di un’oralità familiare, designato al racconto degli antichi. Egli, quindi, rimarca

il passaggio da cultura antica e orale a cultura moderna e scritta, sia in termini storici che letterari, tramite l’esibizione ironica dei più codificati marcatori identitari tradizionali: l’ambiente domestico (le pentole di rame alle pareti), i costumi alimentari (formaggio, cervelli d’agnello, l’immancabile sorso di vino), l’abbigliamento («Antonio Setzu […] teneva in testa notte e giorno lo stesso berretto di fustagno e ai piedi gli stessi gambali di cuoio duro come pietra, impermeabili all’acqua e ai proiettili»), la donna silenziosa e premurosa e il ‘mito del pastore’ («Sapeva la Commedia a memoria. Colpiva un uccello in volo con una pietra a cento passi. Allevava cavalli. Era cercato da chiunque in paese avesse bisogno di un consiglio assennato»)33

In questo modo, il noto e l’ignoto si accompagnano, crescono insieme, e il lettore nel leggere le storie antiche si riconosce nell’intima quotidianità della casa, del nido. Così, il bambino Atzeni, che dopo trentaquattro anni di rimozione riaffiora nel ricordo,34 si identifica in questi elementi autoctoni, che segnano ancor di più il senso di appartenenza ad un gruppo.

32 G.LO CASTRO, Sardegna poscoloniale? Una lettura di Sergio Atzeni….

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 184-187)