• Non ci sono risultati.

Lingua e stile.

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 173-180)

E, ancora, l’episcopo chiese:

2.8. Lingua e stile.

Sotto il profilo linguistico, altro aspetto essenziale dell’ideologia atzeniana è il trapianto di una profonda teoria in questo senso che trova antecedenti in quella proposta da Glissant relativamente alla «creolizzazione», termine che nel linguaggio post coloniale si affianca alle sfumature di oraliture e creolitè. Siamo all’interno di una coscienza linguistico ormai matura, che ha fatto del creolo una lingua pronta per la comunicazione sia orale sia scritta. In quest’ultimo caso, essa si traduce nell’«irruzione» del creolo all’interno della lingua ufficiale, così come a proposito del francese hanno teorizzato Patrick Chamoiseau, Raphael Confiant e Jean Bernabè. L’impatto roboante tra due lingue crea una condizione di convivenza pacifica che integra una lingua con l’altra. Il risultato è una lingua altra, diversa, opaca. In Sardegna questo risultato ha prodotto la concezione atavica di

sardità, risultato di un processo evolutivo di natura identitaria che ha percorso

tutto il secolo a partire dall’esperienza deleddiana. Con Atzeni e, successivamente con altri scrittori che hanno goduto di questa esperienza polifonica, come Marcello Fois, essa si evolve in senso non folclorico, inglobante l’interiorizzazione della memoria storica e antropologica dell’isola deprivata dal senso di frustrazione della sconfitta e ormai sepolta autonomia regionale. Conseguenza di questo è sicuramente la fiducia nelle potenzialità di integrazione di questa piccola realtà nel sistema-mondo. Attraverso l’oraliture, ossia il raccontare una storia utilizzando i mezzi propri di un contesto orale, in una mimesis che riproduce il parlato così come si tramanda attraverso la memoria collettiva. La memoria quindi, così come avviene per la lingua creola, esplode nelle storie trascritte dal cantore, irrompendo con l’abuso di metafore dirette e di una sintassi paratattica che concede pause riflessive al lettore: in Atzeni si ricordino gli spazi bianchi che inquadrano i singoli bozzetti e che sembrano scandire il respiro di chi fruisce del testo.

Ciò che Lévinas ha definito come «trascendenza del volto dell’altro»310 compenetra con l’esigenza di offrire un prodotto culturale arricchito dalla «presenza di tutte le lingue del mondo»,311 anche quando si utilizza solo ed esclusivamente il proprio idioma madre, sia in atto di scrittura sia nel parlato.

Il discorso linguistico, quindi, trova ampio spazio negli scrittori di periferia e la lotta per la conquista identitaria parte proprio dalla stabilizzazione almeno 310 Cfr.: E.LÉVINAS, Entre nous: essais sur le penser-a-l’autre, Paris: Grasset, 1991 (trad. it.: Tra noi: saggi

sul pensare-all’altro, Milano, Jaca book, 1998); ID, Dall’altro all’io, cura di Augusto Ponzio, Roma, Meltemi,

2002.

teorica di questo fondamentale aspetto. La lingua connota profondamente un popolo, conferendogli dignità politica, eleggendolo a parte di un tutto, di un contesto storico-sociale, di una terra di eguale. Esigenza questa che, come sottolinea Margherita Marras, trova ampio spazio nell’Oceano che divide la Sardegna dalle Antille, ma che gioca anche sul piano continentale, se pensiamo ai dialettismi che affiorano, seppur raramente, dall’opera di un altro scrittore di periferia come Maurizio Maggiani o, in minor misura, dall’ «oralità gergale» di un Tondelli.312 La chiave di volta che ha segnato l’apertura del Mediterraneo al mare aperto e sterminato è stato il rapporto instauratosi nel 1993 tra Atzeni e Patrick Chamoiseau nel l’ambito di un progetto editoriale per la traduzione e poi pubblicazione del romanzo Texaco. Come sottolinea Marcello Fois, quest’incontro ha segnato davvero una svolta all’interno della letteratura prodotta nell’isola poiché ha introdotto una variabile sconosciuta all’universo sardo, che si compendia nella massima «subsister dans la diversitè»:313

Questo concetto è arrivato a definire qualcosa che noi sardi, in special modo gli intellettuali sardi più sensibili, sentivamo perfettamente, ma non sapevamo qualificare, mettere in chiaro, battezzare: “subsister dans la diversitè” è un concetto semplice e enorme allo stesso tempo, un concetto che soddisfa la necessità di dare corpo ad un pensiero che è stato finora troppo astratto. La chiave di volta è stata Sergio Atzeni che si è preso la responsabilità, attraverso la frequentazione con gli antillani, di trasmettere questa chiave di lettura e di dichiararla universalmente fruibile. È un concetto di selezione, indica la necessità di mettere in funzione un senso critico socio culturale a fare differenza tra quanto va conservato e quanto va modificato della tradizione. La tradizione non è un dogma, ma può diventarlo nelle mani e nelle teste di culture involute. La tradizione come memoria sono fenomeni attivi, non passivi.314

Anche in questo caso, Atzeni non ha rifiutato il contatto e, anzi, nell’incontro con gli scrittori antillani ha scoperto dei «fratelli nella letteratura»,con cui confrontare reciproche esperienze di vita coloniale e postcoloniale, sebbene nella concezione di Atzeni la Sardegna non si può ancora definire in fase di decolonizzazione. Pragmaticamente, quindi, lo scrittore gioca con la sua lingua in prospettiva della ricerca di un’idioma collettivo che amalgami quello natio alle influenze apportate dal colonizzatore/i durante il processo di conquista. Questi stessi idiomi, in molti casi e per varie ragioni, sono stati accolti e interiorizzati durante ma soprattutto dopo la conquista, adattati agli schemi e personalizzati

312 M.MARRAS, Marcello Fois, Fiesole, Cadmo, 2009, 32-33.

313 J.BERNABE -P.CHAMOISEAU –R.CONFIANT, Eloge de la creolitè…, 53-54.

attraverso la mescolanza degli elementi linguistici. Solo in seguito al consolidamento idiomatico si è proceduto verso la stabilizzazione culturale: «Quando la compenetrazione culturale e linguistica è molto forte, allora i vecchi demoni della purezza e dell’opposizione al meticciato resistono e accendono i fuochi infernali che si vedono bruciare sulla superficie della terra».315 Il senso di appartenenza, infatti, costruisce mattone dopo mattone, parola dopo parola una patria-nazione, alternativa rispetto a quelle costruite dalla Storia. E mentre

s’istranzu considera ‘barbara’ la lingua parlata nella terra di conquista, i s’ard hanno

accolto l’arrivo degli ‘altri’ con la curiosità del comprendere: anche qui, la dimensione antitetica noi/loro è espressione della volontà di possesso, quello di acquisire uno strumento non di dominio ma di conoscenza. E la conoscenza dell’altro è il primo passo per arrivare alla sua sconfitta: conoscerne la lingua e la cultura, decidere se accoglierla o meno nelle maglie della tradizione locale, così come è avvenuto rispetto agli usi e ai costumi dei diversi popoli del mare, succedutisi con le loro variegate e spesso eccentriche usanze all’interno del territorio sardo. Conoscere significa scegliere di utilizzare la lingua sarda e non quella latina nella stesura della Carta de Logu, scegliere di essere autonomi piuttosto che sotto l’ègida imperiale, scegliere di non rifiutare la lingua evoluta degli antichi arricchendola con quella dei vari ‘Altro’ di stanza nell’isola. Scegliere, insomma significa conoscere e conoscere significa scegliere.

La lingua per Atzeni e per i postcoloniali diviene il terreno su cui fondare la propria nazione e ciò si evince dalle parole con cui Chamoiseau ricorda il suo «fratello» scomparso: «Il paese di Sergio è una terra di linguaggi, d’ombra e di luci, e di diversità. Egli capiva quello che io dicevo. Lo sapevo già».316 Si capisce quindi che Passavamo sulla terra leggeri, al contrario di come talvolta la critica atzeniana ha scritto, non può essere minimizzata a mera opera imitativa/emulativa rispetto a

Texaco e l’afflato con cui lo scrittore sardo si è interfacciato con i suoi compagni

antillani non è stato unidirezionale, bensì teso alla reciprocità del parlare la stessa lingua, condividere le medesime posizioni ideologiche. Il progetto fondativo di

Passavamo sulla terra leggeri che s traduce in libro solo nel 1995, è certo anteriore alla

pubblicazione di Texaco seppur Atzeni abbia trovato solo nell’epopea antillana, dopo averlo cercato con letture che spaziavano in tutto il mondo, il modello letterario adatto alle sue esigenze. Il legame tra Sardegna e Caraibi diviene da questo momento in poi molto stretto. Dopo Chamoiseau infatti, anche Raphaël Confiant prosegue su questa scia, annoverando Carlo Emilio Gadda e Marcello

315 E. GLISSANT, Poetica del diverso…, 17.

Fois tra i propri modelli letterari, sia in virtù delle scelte narrative di natura composita e agglutinante che essi compiono, sia nel dare voce agli umili, alle comunità inascoltate dalla Storia, agli sconfitti e agli invisibili; e, ancora, nel narrare storie spesso retrodatate rispetto all’oggi, che canonizzano il percorso storico di una comunità fissandolo e fissandola nel tempo. Nonostante gli esiti linguistico-letterari di Atzeni e degli scrittori di periferia vertano in un’altra direzione, gli esperimenti di Gadda in questo senso sono stati precursori nell’iniettare vitalità alla lingua italiana e, anche in questo caso, la lingua viene considerata come patrimonio non unitario ma variegato. In altra accezione, invece, i sardi come gli antillani moltiplicano rispettivamente l’italiano e il francese con l’assorbimento delle lingue locali, considerandole come una miniera inesauribile di trovate lessicali che, serbate sotto un velo di apparente spontaneità e immediatezza, sono il risultato di vere e proprie ricerche erudite. Basti pensare al modello apportato dall’esperienza linguistica che Pasolini compie all’interno delle borgate romane. Gli scrittori postcoloniali quindi, accentuano questo momento di creatività e invenzione linguistica da cui emergono le mariposas e le tonterias di Atzeni e il nouteka di Chamoiseau. La ricerca linguistica, volta ad un mistilinguismo misurato senza eccessi, può trovare antecedenti nelle scritture italiane contemporanee, in particolare in quelle volte alla costituzione di una lingua sovranazionale che abbracci tutte le microlingue presenti sul nostro territorio. E proprio quest’aspetto è determinante nell’apertura dell’insularità ad una dimensione nazionale che renda l’isola parte di un tutto, così come sostiene Paola Ghinelli: «malgrado la diversità dei percorsi storici che hanno portato alle due situazioni, i contatti letterari ci permettono di istituire un parallelo tra l’isolamento linguistico dei dipartimenti d’oltremare (la Martinica in particolare) e la frammentazione linguistica italiana».317 Sebbene oggi la situazione sia per molti versi cambiata, fino al primo dopoguerra il bilinguismo delle Antille francofono aveva implicazioni sociali, politiche e culturali molto simili a quelle del rapporto tra l’italiano e i diversi dialetti. Al di là di questi macroscopici elementi comuni, rafforzati spesso da contatti umani tra scrittori, esistono naturalmente rapporti letterari più sottili, ma egualmente importanti tra la letteratura italiana e quella caraibica contemporanee. La lingua presa in prestito tende ad essere ambigua e ricca di sfumature, mai relegata al puro ruolo informativo, ma abbarbicata sui sentieri immaginativi che non si chiudono intorno ad un concetto perché prima che essere compresa essa deve essere sognata, così come avviene per la «scrittura a 317 P. GHINELLI, La letteratura francofona e l’Italia, «El Ghibli» rivista online di letteratura delle

voce alta» di Roland Barthes, consistente in «un linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa intendere la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda».318 É il trionfo del

pastiche, dell’ibridismo, dell’intertestualità e del moltiplicarsi dei discorsi espressivi:

la scrittura coloniale è la scrittura del palinsesto mentre quella postcoloniale si confà alla consapevolezza che se l’io si fonda sull’altro, ed è quindi soggetto alla volubilità del cambiamento, differenza e molteplicità sono da esaltarsi; per la stessa ragione al monologo interiore modernista si oppone una prospettiva collettiva che alle suggestioni della letteratura occidentale contrappone gli argomenti della relazione e del collettivismo inteso come rapporto costante del sé con l’altro. Essa deve confondere i molteplici influssi in un orizzonte di musicalità, arricchendosi di tratti dialettali che devono essere difesi dall’oblio o dall’essere fagocitate dall’esperantizzazione dell’inglese, cui si oppone un originale sincretismo linguistico e culturale. Lingua come gioco ma anche come caccia al tesoro e possibilità di trovare infiniti significati, disponibilità ad accoglierli. Il plurilinguismo si tramuta in rifiuto programmatico dell’orgoglio monolingue, apertura ai fermenti innovativi della propria lingua e disponibilità a porsi in relazione con tutte le lingue del mondo. Jacques Derrida ha descritto la metafisica occidentale come «la mitologia bianca che riassume e riflette la cultura dell’Est: l’uomo bianco prende la propria mitologia, la mitologia Europea, il proprio logos, cioè il mythos del proprio idioma, per la forma universale che chiama Ragione».319

E, quest’ultima, subisce a sua volta il processo di mitizzazione, poiché la ragione dei conquistadores, che guardano il mondo con gli occhi della razionalità illuminata, contrasta con la rappresentazione del mondo osservata attraverso gli occhi incantati di un bambino —spesso alter-ego dell’autore— che guarda alla nazione moderna interrogandosi sul suo futuro ma raccogliendo l’eredità del passato rurale. Il rito è coordinato dall’iconografia di un vecchio saggio che fornisce al neofita lo stimolo per affrontare la lotta. Alla fine del racconto essi sono tutti riuniti per la naming ceremony della bambina/nazione:

Ora sei custode del tempo, disse Antonio Setzu e soggiunse a bassa voce: come coloro che ti hanno preceduto dovrai rimanere cristiano senza discussioni e rispettare le leggi che ci siamo dati nella notte del tempo e abbiamo scritto e modificato durante i giudicati di Mariano e Eleonora. Più malvagi saranno i tempi più l’adesione all’antica legge parrà 318 R.BARTHES, Le plaisir du texte, Paris, Ed. du Seuil, 1973 (trad. it. Il piacere del testo, Torino : Einaudi, 1975.1 Qui si utilizza Il piacere del testo, in Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo,

Torino, Einaudi, 1999, 127).

319J.DERRIDA,Marges de la philosophie,Paris,Editions de Minuit, 1972 (trad. it. Margini della filosofia,

ribellione o sedizione. Potrai aggiungere spiegazioni nuove dei fatti antichi narrati nella storia che ti è affidata e raccontare avvenimenti memorabili del trentennio della tua custodia, purché con chiarezza e concisione. Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.320 Disse Antonio Setzu.

III

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 173-180)