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Il pensiero postcoloniale, rispecchiandosi nel dolore storico dei popoli che per questo vi afferiscono, determinata, così come sostiene Paul Gilroy «dall’abisso, dalla permanente condizione

Nel documento Sergio Atzeni e il racconto di fondazione (pagine 72-74)

ontologica di dolore» (P. GILROY, The Black Atlantic, Meltemi 2003) si identifica metaforicamente,

secondo Glissant, nella «stiva» della nave negriera e nel «ventre stesso della bestia», da cui quel grido di ribellione e di rifiuto azzanna l’esperienza storica del «marronaggio» ossia della fuga dello schiavo dall’universo delle piantagioni per rifugiarsi sulle alture nel cuore della foresta e dar vita a comunità di ribelli. Quel grido risuona ancora nell’inconscio collettivo dei popoli della Tratta, estrinsecato in forma profetica dalla voce notturna e ambigua del conteur créole, da cui risorge una parola nuova e aperta all’altro da sé, a quell’umanità del mondo che Glissant definisce il «pensiero del Tout-monde».

28 S.ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri…42.

29 V.CHANDRA, Terra rossa e pioggia scrosciante, Torino, Instar Libri, 1998, 741. (Red earth and ouring

2.3. Prodromi epici.

«É tempo questo di romanzi epici»?30 Già vent’anni prima della stesura del postumo Passavamo sulla terra leggeri Sergio Atzeni propose una riflessione sull’argomento dettata dalla contingenza della pubblicazione del romanzo di Bachisio Zizi, Greggi d’ira,31 in cui il racconto apparentemente personale ed univoco delle vicende del protagonista, abbraccia l’esperienza di tanti come lui «dai nomi diversi e dalla sorte uguale»32 e, metaforicamente, dell’intero popolo sardo. Il respiro emanato dal romanzo di Zizi richiama un orizzonte epico, corale, «in cui anche chi scrive è esterno al discorso, ma nello stesso tempo fa profondamente parte, costituzionalmente, del mondo in cui l’azione si svolge»;33 inoltre, nonostante esso offra una descrizione di tipo «verista e verghiana» delle classi umili sarde, «resta da dire che in un panorama quale quello attuale il libro di Zizi è da leggere e da meditare, cosa che si può dire per poca altra narrativa isolana e, perché no, anche nazionale».34 Su questa linea e a proposito dell’Odissea di Antonino Rubattu,35 Atzeni sposa in parte la tesi espressa dallo stesso autore a proposito del fatto che, alle soglie del XXI secolo, tradurre o interpretare in lingua sarda il poema omerico è apparentemente un atto anacronistico poiché quest’opera, come confida Zizi, rappresenta una cartina da tornasole in cui universalmente potrebbe riconoscersi qualunque civiltà volta ad intraprendere un viaggio ascendente che dalla barbarie conduce verso la vetta della conoscenza e dell’emancipazione. Nel sostenere questa teoria, Atzeni si fa portavoce della necessità di un confronto intellettuale da cui germogli un’epica autoctona, che esprima sì una comunità in evoluzione ma, allo stesso tempo, il

passato collettivo del popolo sardo: profondo, sì, migliaia di anni, ma anche disperatamente muto, privo di scrittura che si esprime soltanto attraverso enigmatici nuraghi e strani guerrieri di bronzo, tale comunque da richiedere miti che coprano il vuoto.

30 S.ATZENI, Una lezione barbaricina, «Rinascita sarda», 10 luglio 1974. Ora in ID, Scritti giornalistici (1966-1995), a cura di G. Sulis, Nuoro Il Maestrale, 2005, II, 599-600.

31 B.ZIZI, Greggi d’ira, Cagliari, Fossataro, 1974; Nuoro, Il Maestrale, 1999. 32 S.ATZENI, Una lezione barbaricina…, 599.

33 Ivi, 600. 34 Ibidem.

Come dire: se non abbiamo un’epica nostra, dei nuraghi, abbiamo però il diritto di appropriarci di quella comune a tutta l’area mediterranea, che è patria anche nostra… C’è poi, palese, un altro tentativo: la letteratura in lingua sarda tenta di costruire, attraverso opere come questa, una propria identità «autonoma» e «nazionale», capace non solo di creare in proprio ma anche di appropriarsi, attraverso le tradizioni, della cultura di altri popoli e di altre lingue.36

Questo passaggio è interessante per comprendere non solo la presa di coscienza da parte della comunità sarda del vuoto ideologico — che si rispecchia, poi, nell’oblio storico —, ma anche la necessità di ricorrere al mito per colmare questa lacuna, interfacciandosi con esperienze precedenti e paradigmatiche come, in questo caso, quella omerica, da cui suggere per creare una propria tradizione epica. Da questa breve ma illuminante recensione si evince già uno dei caposaldi ideologici della narrativa atzeniana, che vede nel confronto con l’altro da sé, a prescindere dall’assetto spazio-temporale, l’elemento fondante per la crescita costruttiva di un popolo e per la realizzazione della sua indipendenza ed autonomia. Ci si appropria, così del messaggio gramsciano, teso non all’isolamento e alla chiusura bensì alla partecipazione intensa e costante, al rinnovamento politico e culturale che si identifica in un’entità nazionale più grande. Nel caso della Sardegna quest’organismo si identifica inizialmente con l’Italia, ma via via esso abbisogna di un respiro più ampio, estendibile a un universo onnicomprensivo che coincide con il mondo intero.37

Il percorso epico di Atzeni prosegue negli anni, di pari passo al dibattito interno alla Sardegna, e si arricchisce di volta in volta in base alle novità editoriali sull’argomento che, tra gli anni Settanta-Ottanta, traducono in forma letteraria le teorie critiche nate in seno all’Accademia. Nell’ambito di una tavola rotonda, che vede protagonisti Gianni Olla, Giovanni Mameli e lo stesso Atzeni,38 la discussione è incentrata sulla vivacità della narrativa sarda contemporanea e sui suoi esiti anche al di fuori del confine isolano. Nello specifico, le opere che vengono passate in rassegna, edite tutte tra il 1979 e il 1984, sono: Il giorno del

giudizio39 di Salvatore Satta, I racconti di Nuragheologia40 di Raimondo De Muro, 36S.ATZENI, Le peripezie di Ulisse viste dai nuraghi, in ID, Scritti giornalistici… II, 978.

37 Più volte negli scritti Atzeni fa riferimento alle teorie gramsciane e il pensiero del teorico si

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