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Anna  Banti  critico  letterario:  tratti  peculiari

1. Anna Banti e il mondo dei giornali

1.2   Anna  Banti  critico  letterario:  tratti  peculiari

Ricostruita la storia di Anna Banti come critico letterario e richiamate, a grandi linee, le vicende della rivista da lei diretta, ritengo sia importante definire brevemente i tratti che contraddistinguono il suo lavoro critico, tratti che avremo modo di incontrare nel corso delle diverse analisi che compongono questo studio.

Come si è visto, la nostra autrice collabora con diverse testate, sia specificatamente letterarie, quali «La Fiera letteraria» o «L’Approdo», ma anche lo stesso «Paragone Letteratura», sia di divulgazione più ampia, quali «Il nuovo Corriere» oppure «L’Illustrazione italiana», giusto per nominarne alcune. L’orizzonte di attesa è quindi diverso e, pertanto, gli interventi differiscono sia nel grado di approfondimento, sia nelle modalità di stesura; le variazioni tuttavia non sono mai vera divergenza, perché l’obiettivo primario di Banti resta sempre e comunque quello di impegnarsi, come una sorta di guida, nei confronti del lettore. A discapito di tali diversità, vi sono inoltre degli elementi ricorrenti, che definiscono una certa omogeneità, sia nel corso degli anni, ovvero su di un piano diacronico, sia nel pur diverso orientamento delle varie testate, ovvero su di un piano sincronico.

Vediamo quindi quali sono i tratti peculiari che contraddistinguono gli scritti critici di quest'autrice, sia dal punto di vista stilistico, che da quello contenutistico.

1.2.1 Caratteri contenutistici

Nel corso dei propri interventi critici, Banti insiste dunque su alcuni elementi chiave che fungono da “costanti contenutistiche”: si tratta ovviamente dei principi portanti della sua Weltanschauung, che non mutano quasi per nulla nel corso degli anni e di cui l’autrice non manca mai di ribadire l’importanza. Che i suoi scritti critici siano una sorta di vetrina per tali principi, d’altronde lo afferma lei stessa, nella prefazione di Opinioni

– volume in cui sono raccolti gli scritti di critica letteraria pubblicati dal 1943 al 1961 – in cui scrive:

Non è senza esitazione che mi sono lasciata indurre a raccogliere taluni dei miei scritti che però non ho mai considerato «critici», almeno nel senso che ordinariamente si attribuisce alla parola. Ma ogni scrittore ha un suo modo di vedere le cose che gli succedono intorno e di ragionarci sopra: i suoi princìpi, insomma, che pure essendo ben radicati e preferenziali, hanno – o dovrebbero avere – una apertura e una disponibilità maggiori di quel che dimostrino molti critici, soggetti alle deformazioni professionali.35

Con queste parole, Banti incomincia la dichiarazione programmatica con cui apre la raccolta Opinioni: la scrittrice puntualizza infatti sin da subito le sue distanze dalla critica tout court, specificando che non considera i propri scritti propriamente «critici», ma che tali interventi racchiudono «i suoi princìpi» e che hanno, peraltro, «una apertura ed una disponibilità maggiore» rispetto a quelli di molti critici.

Il primo di tali principi appare evidente proprio dall’estratto appena citato: Banti preferisce non parlare per i propri interventi di scritti «critici», per quanto sia consapevole che di critica si tratti, proprio perché tiene a precisare che il suo punto di vista non è lo stesso di gran parte della critica coeva. Riflessione, quest’ultima, a cui riporta anche la risposta data da Banti a Leone Piccioni, nella già ricordata intervista del 1957, raccolta per il numero speciale de «La Fiera letteraria» a lei dedicato. In quell’occasione, Banti prende esplicitamente posizione in negativo, rispetto alla propria vocazione di articolista ed anche, nello specifico, di critica. Queste sono infatti le parole con cui risponde ad una delle domande poste da Piccioni, che le chiedeva se il suo lavoro critico avesse giovato alla crescita del suo impegno narrativo:

Come ogni altra esperienza, anche quella culturale dovrebbe giovare a ogni scrittore. E così fosse che quelle in cui mi sono trovata involta le avessi sapute portare innanzi con profondità e acutezza. Ma il fatto è che io non credo per niente alla mia vocazione critica: so bene che le occasioni che mi han portata a ragionare di arte, di letteratura, di cinema, sono per dir così, passionali, d’impeto. Senza che io voglia le mie parole prendono allora accento polemico che non era, da principio, nelle mie intenzioni. Sono, si capisce, in buona fede e convinta di aver ragione. Ma non mi sono simpatica per niente. Ed escluderei che queste piccole tempeste arricchiscano la mia vena di narratore.36

35 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 9. Il corsivo è mio.

36 Anna Banti, risposta a Leone Piccioni, 16 domande ad Anna Banti, «La Fiera letteraria», a. XII, n. 5, 3 febbraio 1957, p. 2.  

Come si può vedere, anche in quest’occasione Banti ribadisce di non considerare la propria una «vocazione critica»; preferisce infatti definirla «passionale, d’impeto», chiarendo così la lontananza del proprio lavoro da quello del resto della critica. Sempre nella prefazione ad Opinioni, la scrittrice precisa inoltre che i suoi testi sono piuttosto «interventi appassionati, dunque, magari professionali: sfoghi, comunque, di quel ribollire di pensieri e di dubbi che ogni scrittore cosciente è avvezzo a sopportare ogni giorno».37 E, come puntualizza appropriatamente Giuliano Gramigna, nell’unica recensione che la stampa abbia tributato ad Opinioni all’epoca dell’uscita del volume, quella bantiana «è la passione della chiarezza morale ed intellettuale»; «certo è una passione autentica e il libro la testimonia, ma stiamo attenti a non confonderla con una patetica effusività».38

Da queste parole si può peraltro già intuire un altro valore di assoluta importanza per la scrittrice, che senza dubbio ricorre come una sorta di refrain in tutti, o quasi, gli interventi critici che andremo ad analizzare, ovvero la “moralità”. Nella programmatica prefazione ad Opinioni, Banti afferma infatti che ciò che pervade le sue pagine è la «difesa di valori – siano letterari o tematici –» i quali le «sembrano indispensabili all’arricchimento dello spirito: e perciò indivisibili».39 Proprio tale difesa di valori diventa il minimo comune denominatore di tutte le analisi critiche di questa autrice, tanto di quelle riguardanti gli esordienti, quanto di quelle che hanno per oggetto scrittori consolidati.

In uno degli interventi dal valore più esplicitamente programmatico, Romanzo e romanzo storico, la scrittrice dichiara che «il romanzo vero altro non è che moralità, scelta morale in un tempo determinato», intendendo con questo sostantivo quell’insieme di valori profondamente umani che, a suo avviso, devono animare tanto la vita, quanto la letteratura.40 Ciò che Banti ricerca nelle opere degli scrittori che analizza è dunque l’«impegno», quello stesso impegno che anima la sua penna, nello scrivere questi articoli. Molto esplicite, in tal senso, sono le parole con cui conclude la prefazione:

37 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 9.

38 Giuliano Gramigna, Le opinioni di una scrittrice, «Settimo Giorno», a. XV, 20 febbraio 1962, p. 58.

39 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 10.  

Ma non mi parrebbe il caso di decretare «scontata» la parola «engagement», «impegno». Essa rimonta a un tempo che ci pare lontano, ma, in realtà, non se n’è mai applicato il senso mentre non se n’è mai avuto tanto bisogno. Questa necessità credo di non averla mai trascurata e volentieri me ne valgo come di passaporto di queste mie Opinioni.41

Come testimonia questa dichiarazione d’impegno, Banti crede nella «buona letteratura», così come nel «buon lavoro letterario», che è anche quello di ambito critico, in cui lei stessa sceglie di cimentarsi.

Un altro dei valori di cui sono imbibiti gli scritti di quest’autrice – il quale è sia un tratto caratteristico della sua poetica di scrittrice, sia un elemento che il suo giudizio critico ricerca e apprezza particolarmente negli autori che recensisce – è l’importanza della storia. Per Banti la storia non è da intendersi come un mero riferimento cronologico e nemmeno come semplice materia di cui fare oggetto i propri romanzi, bensì come un filtro attraverso cui osservare e interpretare la realtà. A tal proposito trovo molto significative le parole di Enza Biagini, che, parlando della Camicia bruciata, così commenta l’idea bantiana di storia:

La Storia non è quindi né la referenza culturale […] né il “contenuto” del romanzo, ma appare come un “contenuto vuoto” che reclama una forma e non per sottoporla alla prova della verità, ma per resistere alla prova del senso.42

Come avremo modo di appurare nel dettaglio, la concezione bantiana di storia prende le mosse dalla riflessione manzoniana: la scrittrice crede infatti – ancor più che il suo maestro – nell’importanza della verosimiglianza. E, nel già richiamato intervento Romanzo e romanzo storico, ribadisce che «la storia, mentalmente ricreata, coincide con l’espressione più alta della letteratura».43

L’attenzione per la verosimiglianza è dunque la chiave della poetica dell’autrice. Ben lo sottolinea Paola Carù, la quale, in un intervento dove riflette proprio sul rapporto tra Banti e la storia, scrive che nel verosimile la scrittrice vede un utile filtro di interposizione, attraverso cui addentrarsi ancora più in profondità nel senso della storia. Queste le parole di Carù, che peraltro mettono a fuoco anche le distanze tra la riflessione bantiana e quella manzoniana:

41 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 10.

42 Enza Biagini Sabelli, Il “romanzo” di Marguerite Louise, «Paragone Letteratura», a. XXIV, n. 280, giugno 1973, p. 125.

She disagrees with his [di Manzoni] final defense of the “historical fact” [fatto avvenuto] against the “traps” of the “invented fact” [fatto inventato], which leaves no room for the “hypothetical fact” [fatto supposto], that is for the verisimilar.44

Da tali considerazioni, si può capire perché Banti giudichi in maniera particolarmente favorevole il romanzo storico. Ritiene difatti che si tratti della forma più alta di narrazione in quanto ricrea la complessità tanto del passato, quanto soprattutto del presente. Sempre Paola Carù rende molto chiaramente il punto di vista dell’autrice in merito. Queste sono le sue parole:

Writing allows one to get a better hold on the past, and therefore on the present. It can temporarily halt time by dilating it through the practice of the memory. It allows one to investigate the past and to obtain a key for interpreting the present.45

Sul significato che il romanzo storico ha per quest’autrice, si esprime in maniera molto acuta pure Giuseppe Nava, che, nel suo saggio dedicato ai modi del racconto nella Banti, risulta a tal proposito estremamente chiaro. Egli puntualizza inoltre con estrema precisione che cosa significhi per la scrittrice quel valore di “moralità”, di cui si è in precedenza discusso. Queste le parole di Nava:

Ci sono ora tutti gli elementi per chiarire la concezione peculiare, e tutta novecentesca, che del romanzo storico ha la Banti: non si tratta, ovviamente, del romanzo storico teorizzato da Lukacs nel libro omonimo e fondato sul concetto di «storicità» come dialettica in divenire e sulla categoria del «tipico»; e neppure, malgrado le apparenze, del romanzo storico in accezione manzoniana, in cui rappresentazione di un’epoca e giudizio morale sono strettamente intrecciati. Indubbiamente la Banti insiste a più riprese sulla «moralità» connaturata al romanzo storico, ma i moralisti classici sono in lei un modello letterario, e non culturale: quando parla di giudizio morale, la scrittrice intende il commento della voce narrante al comportamento dei personaggi: commento che di quella voce rispecchia la soggettività, e non un patrimonio di valori universali, che più non si dà.46

44 Paola Carù, “Uno sguardo acuto dalla storia”: Anna Banti’s Historical Writings, in

Gendering Italian Fiction. Feminist Revision of Italian History, edited by Maria Ornella Marotti

and Gabriella Brooke, Associated University presses, London, 1999, p. 88.  

45 Ivi, p. 97.

46 Giuseppe Nava, I modi del racconto nella Banti, in L’opera di Anna Banti. Atti del Convegno

di studi a Firenze, 8-9 maggio 1992, a cura di Enza Biagini, Olschki, Firenze, 1997, p. 160.

Precedentemente pubblicato anche in «Paragone Letteratura», a. XLIV, n.s., n. 37-38, febbraio-aprile 1993, pp. 52-63.  

Nava ribadisce le distanze di Banti dal maestro, chiarendo la concezione «novecentesca» che quest’autrice ha del romanzo storico. Egli, inoltre, precisa appropriatamente che la moralità di cui parla Banti è un valore che con l’ideologia non ha nulla a che fare, ma che nasce e si sviluppa a partire dall’orizzonte letterario di riferimento.

Non completamente slegato da questo apprezzamento del romanzo storico, si può considerare anche l’ultimo dei “princìpi bantiani” che ho ritenuto opportuno evidenziare: ovvero il particolare apprezzamento da parte dell’autrice di romanzi dal respiro realista. Come afferma appropriatamente Giuliano Gramigna, quella della scrittrice è precisamente una «felice identificazione fra romanzo realista, oggettivo e romanzo storico».47 Tale caratteristica è evidente sin dai nomi degli autori che Banti stessa indica come propri modelli narrativi: nel risvolto editoriale di Artemisia, oltre a riconoscere l’umanità del messaggio proustiano, eleva difatti a tale rango tre grandi realisti, Balzac, Verga e Manzoni.48 Di questi ultimi, come ricorda Pietro Bigongiari, ciò che la scrittrice apprezza è proprio quella «verità» di rappresentazione che solo i migliori realisti sono in grado di raggiungere:

[…] e in definitiva ama il lato verghiano, se così posso esprimermi per anticipazione, naturalistico della storia del Manzoni, quel tanto di «verità istantanea» che è nel gran romanzo, non insomma il lato toccato dall’ideologia.49

Tale componente di realismo è un aspetto che Banti apprezza sempre molto negli autori che recensisce. Lo si vede bene, ad esempio, nelle sue letture critiche dell’opera di Matilde Serao: la scrittrice rifiuta infatti l’ultima fase di questa autrice, preferendo di gran lunga la prima produzione di respiro realista.

Banti puntualizza inoltre la diversità fra realismo e naturalismo ed anche quella fra realismo e neorealismo. Ritiene infatti che il valore aggiunto del realismo, rispetto al naturalismo, sia quello di dimostrare una più profonda comprensione da parte di chi scrive, che sceglie di non limitarsi ad essere semplicemente un occhio. D’altro canto, il

47 Giuliano Gramigna, Le opinioni di una scrittrice, cit.

48 Sono questi che indica come «il meglio della propria formazione» nel risvolto della riedizione mondadoriana del 1953, del suo romanzo Artemisia. Cfr. Anna Banti, Artemisia, Mondadori, Milano, 1953.

49 Piero Bigongiari, Antinomie stilistiche di Anna Banti, in L’opera di Anna Banti. Atti del

Convegno di studi a Firenze, 8-9 maggio 1992, a cura di Enza Biagini, cit., p. 3. Pubblicato

realismo che Banti apprezza è quello dei romanzi che hanno come oggetto le dinamiche sociali e storiche della realtà, ma che, diversamente dai romanzi neorealisti “di scuola” – verso i quali lo sguardo dell’autrice non è affatto benevolo – dimostrano di avere una complessità maggiore, di saper cioè fondere i grandi rivolgimenti della storia con le vicissitudini del singolo, manifestando così un’autenticità che le sembra invece assente da molte opere di tal genere.

Per Banti realismo significa inoltre mettere in evidenza il proprio punto di vista, perché, come lei stessa afferma in un Autoritratto scritto nel 1960, «ciascuno deve parlare di quel che sa». Questo spiega come mai lei si dimostri così sensibile al mondo «visto, pensato, sentito, da personalità femminili».50 La nostra autrice difatti non solo scrive di donne, ma si dimostra anche particolarmente interessata a recensire le scrittrici e sensibilmente attenta a come vengono tratteggiati i personaggi femminili. Enza Biagini, nel già ricordato contributo dedicato agli scritti giornalistici di Anna Banti, parla per gli scritti bantiani di «“critica di genere” avanti lettera» e scrive:

Si può dire, infatti, che la donna è presente […] in tutti i contributi apparsi sulle pagine dei giornali, delle riviste femminili o d’attualità letteraria alle quali ha collaborato. È questa la ragione che ci può permettere di considerare quelle prose, di natura o di derivazione spesso inventiva e letteraria, anche come esempio di una “critica di genere” avanti lettera: una critica molto particolare perché si insinua tra i modi del racconto, l’elzeviro e il pezzo di costume.51

Banti manifesta dunque uno sguardo sessualmente connotato che le permette di indagare l’operato delle scrittrici e, allo stesso tempo, di valutare acutamente la rappresentazione dei personaggi femminili.

Per quanto riguarda la valutazione delle scrittrici, come evidenzia Beatrice Manetti – nel saggio da lei dedicato alle donne e la letteratura secondo gli scritti critici bantiani «nelle sue autrici la Banti cerca la capacità di scrivere in presenza della realtà, di coglierla nei suoi aspetti più minuti ed apparentemente insignificanti, nella molteplicità delle sue forme e dei suoi gerghi intraducibili».52 Da queste parole ben si capisce che,

50 Cfr. Anna Banti, Autoritratto, in Ritratti su misura di scrittori italiani. Notizie biografiche,

confessioni, bibliografie di poeti, narratori, critici a cura di Elio Filippo Acrocca, Sodalizio del

libro, Venezia, 1960, pp. 43-44.

51  Enza Biagini, Con sguardo di donna: i “racconti di costume” di Anna Banti, cit., p. 278.  

52 Beatrice Manetti, Quella stanza tutta per loro. Le donne e la letteratura negli scritti critici di

Anna Banti, in Anna Banti. Una regina dimenticata, numero speciale di «Paragone Letteratura»,

per la nostra autrice, una scrittrice non potrà mai tratteggiare un’analisi delle dinamiche sociali e culturali che animano la realtà, disgiunta dalla sua particolare prospettiva di donna. Ciò vale anche per Banti stessa; questo tuttavia non deve far credere che le sue siano recensioni standard, il suo giudizio assume infatti prospettive di volta in volta differenti e, diversamente da quanto avviene con gli scrittori, interagisce anche con «il dettaglio biografico» delle autrici. A tal proposito, mi servo nuovamente delle parole di Beatrice Manetti:

Nell’intreccio continuamente ribadito di dato esistenziale e di quello letterario, forse la Banti lascia trasparire non tanto o non solo la sua idea d uno stile femminile, ma la natura della sua stessa scrittura saggistica sulla letteratura delle donne. Sostanzialmente incline, quando si tratti di scrittori, a ricondurre il proprio discorso nell’ambito di grandi questioni generali (il realismo, la crisi del romanzo, lo sperimentalismo), quando affronta le scrittrici la Banti si concede spesso la divagazione aneddotica o la notazione intima, fa interagire il dettaglio biografico e il rilievo sul testo, il ritratto e il giudizi di valore, assumendo il cannocchiale interiore di Colette non solo come oggetto, ma anche come strumento d’indagine.53

Per quando riguarda invece la sua attenzione ai personaggi, Banti stima quelli rappresentativi delle difficoltà con le quali convive l’universo femminile – vedremo difatti il suo particolare apprezzamento verso la figurazione della monaca di Monza – e, d’altra parte, verso i modelli canonizzati, «innesca un processo di revisione, nel doppio senso di vedere di nuovo, con occhi nuovi, e del riconsiderare da un punto di vista critico gli stereotipi della tradizione».54 Tale operazione, simile in un certo senso a quella che Woolf fa parlando di Judith Shakespeare, ha come obiettivo ridurre le distanze tra la donna vera e quella del romanzo. Emblematico in questo senso è l’intervento Ermengarda e Geltrude.55

1.2.2 Caratteri stilistici

Negli interventi bantiani si possono chiaramente individuare, oltre a degli elementi ricorrenti dal punto di vista contenutistico, i quali, lo si è visto, sono costituiti dagli ideali programmatici entro cui si articola il pensiero bantiano, dei tratti stilistici caratteristici.

53 Ibidem.  

54 Ivi, p. 170.

Innanzitutto, ciò che colpisce sin da subito anche i lettori meno esperti è che gli interventi bantiani manifestano sempre una certa narratività, dando a chi legge l’apparente impressione di trovarsi davanti a dei saggi non strettamente tecnici. Specialmente quelli ideologicamente più impegnati si presentano infatti molto discorsivi e, pertanto, piacevoli da leggere. A tal proposito, cito le parole di Enza Biagini che ribadisce come la produzione di articolista di Banti non si possa considerare una parentesi a sé stante, dal momento che lo stile di questi scritti li colloca a pieno titolo a fianco della ben più nota produzione narrativa:

Perciò questi contributi, sia narrativi o altro, comparsi per diversi decenni su riviste e su giornali, appaiono sempre di più non come delle note a margine nella sua attività, ma come tasselli utili ad estendere lo stesso contesto di storicizzazione e di interpretazione della sua opera. La spia più evidente […] riguarda lo stile.56