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6. Il romanzo allegorico-fantastico

6.1   Vocazione  di  Orsola  Nemi

Orsola Nemi, pseudonimo di Flora Vezzani, è stata una scrittrice italiana, con la quale Banti ha avuto modo di maturare, oltre ad un confronto culturale, anche un rapporto di amicizia, suggellato da un comprovato scambio epistolare.5 Coetanee, figlie del medesimo contesto storico-culturale ed entrambe spose di celebri uomini di cultura6, Nemi e Banti condividono l’interesse per la storia7, ma anche quella meticolosa attenzione per le piccole cose che animano la vita di ogni giorno, che solo chi giudica vita e letteratura inscindibilmente connesse riesce trasmettere.

L’occasione che spinge Banti a redigere questo primo pezzo su Orsola Nemi è l’uscita in quegli stessi mesi, per la casa editrice Longanesi, del romanzo Maddalena della Palude.8 Il romanzo, ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, racconta una storia, a tratti noir e molto cruda, di un uomo di chiesa condannato a morte per certe pratiche di negromanzia in cui erano state coinvolte anche due giovani monache innocenti. Banti, esaminando il romanzo, rileva la presenza di una certa densità di elementi tra il fantastico e il noir, ritenendo che, proprio per lo spazio concesso a questi ultimi, si possa affermare che Nemi dimostri un gusto abbastanza fuori dal comune, almeno rispetto all’orizzonte di attesa costituito dalla comune mentalità italiana. Specifica infatti che chi si accinge a inoltrarsi nella lettura di questo testo deve tener presente che si tratta di un romanzo diverso da quelli che il gusto latino è abituato ad apprezzare. E scrive:

Da questi moti occorre che si guardi, avanzando nella lettura, chi non sia troppo distaccato dagli onesti pregiudizi che ogni gentile italiano si trova ad aver ereditato, in fatto di stregonecci e di sabba.9

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

4 L’articolo viene pubblicato nella rubrica Appunti di «Paragone Letteratura», a. IV, n. 72, dicembre 1955, pp. 127-128.

5 Cfr. Francesca Rotta-Gentile, Orsola Nemi-Biografia, https://orsolanemi.wordpress.com/ (ultima consultazione 23/08/2016).

6 Nemi sposa Henry Furst, celebre letterato americano, innamorato dell’Italia.

7 Ad esempio, non mi sembra un caso il comune interesse nei confronti di un’affascinante figura della storia fiorentina, qual è quella di Caterina de Medici: Banti dedica a questa storica figura un articolo, pubblicato nel 1939 su «Oggi», e designa come protagoniste del romanzo storico La

camicia bruciata, pubblicato nel 1973, due nobildonne appartenenti alla medesima casata; Nemi

invece, nel 1980, porta a termine una biografia dello stesso personaggio.

8 Faccio qui riferimento a Orsola Nemi, Maddalena della Palude, Longanesi, Milano, 1949.

L’utilizzo di due aggettivi come «onesto» e «gentile» evoca sin da subito un ben preciso orizzonte culturale, quello formatosi sulla tradizione letteraria nazionale, la quale ha alimentato nei secoli il costituirsi di un gusto letterario dai tratti peculiari. E, come si evince dalle parole di Banti, tale gusto tipicamente italiano, in quegli anni, è ancora ben lungi dall’apprezzare il fantastico-noir di cui è così impregnato il romanzo di Nemi. Nelle parole della scrittrice si può dunque cogliere una sottile vena polemica nei confronti di quel pubblico, di cultura medio-alta, che si attende che ogni romanzo italiano rientri in dei canoni ben precisi, a partire dai quali l’innovazione è sempre guardata con sospetto, tanto più se proviene dalla penna di una donna.

All’interno di questo quadro, Banti non manca di ribadire nemmeno la decisa influenza del modello manzoniano, il quale, a suo avviso, contribuisce a rafforzare la difficoltà di calarsi nell’ottica di un romanzo come Maddalena della Palude, proprio perché «tutti rammentano e taluni portano in cuore la penna e lo sdegno di Alessandro Manzoni» nei confronti di quelle situazioni in cui la ragione viene «ridotta a macchina infernale per straziare corpi e coscienze».10 Banti articola dunque un confronto tra il punto di vista offerto dal romanzo di Nemi e quello sviluppato da Manzoni nella Storia della colonna infame e nelle pagine dei Promessi dedicate alla rappresentazione della peste milanese. La comparazione è implicita, come spesso accade nei ragionamenti bantiani, ma chiara: se la figurazione manzoniana della peste dimostra lo «sdegno» di Manzoni verso l’universo della stregoneria e della superstizione, nel romanzo di Nemi questo genere di figurazione è l’oggetto stesso del romanzo. Si può allora ben capire perché Banti dica che risulta difficile per un lettore manzoniano apprezzare la prospettiva offerta dalla favola della Nemi. D’altra parte però, nel momento in cui indica questa difficoltà, Banti offre al lettore anche la soluzione: l’universo stregonesco che s’incontra nel romanzo di Nemi ha infatti i toni della fiaba e, per quanto l’autrice prenda spunto da una vicenda realmente accaduta, essa viene poi trasfigurata secondo quest’ottica fiabesca; la prospettiva assunta è dunque ben diversa da quella proposta da Manzoni.

Per tornare al discorso iniziale, secondo Banti, il romanzo di Nemi risulta quindi un prodotto culturale innovativo rispetto al gusto tradizionale, tant’è che il modello che la scrittrice vi riconosce è tutt’altro che latino: ricorda infatti il mito del Faust, ribadendo

                                                                                                               

che questo romanzo è «una favola», intessuta però «su un documento di sangue e di orrore».11

È da questa considerazione che Banti comincia a sviluppare la propria riflessione su quella componente favolistica, che, oltre ad essere la lente attraverso cui esaminare il romanzo in questione, è anche un tratto peculiare della narrativa di Nemi e permette pertanto di completarne l’analisi, guardando anche agli altri romanzi scritti sino ad allora dalla scrittrice spezzina.

La riflessione bantiana si articola in due tempi: muove da considerazioni sull’esigua offerta del nostro panorama letterario «in materia di favole», per poi focalizzarsi, in un secondo momento, sullo specifico carattere che tale componente favolistica ha assunto nella produzione letteraria di Nemi. Per quanto riguarda l’esiguità della tradizione favolistica italiana, Banti ne attribuisce la ragione allo stile peculiare che caratterizza la favola italiana, la quale ha dei tratti suoi propri, ben diversi da quelli evidenziabili nelle tradizioni letterarie di altri stati europei:

Ma, s’è detto: una favola e la tradizione letteraria italiana è, in materia di favole tanto povera che ci corre l’obbligo di festeggiare a priori chi dimostri, da noi, di possederne la vocazione. Non è una novità: dal secentesco Cunto de li Cunti, agli spassi libreschi di Carlo Gozzi, gli italiani hanno usato, raccontando favole, mano pesante, cucina indigesta e soprattutto una mutria scanzonata da far cascare le braccia. […] Sta di fatto che le iridescenze, il segno impalpabile della favola orientale, non trovarono cultori in Italia e trasvolarono senz’altro a settentrione.12 Secondo Banti, la scarna tradizione favolistica italiana procederebbe dunque lungo una propria linea ben precisa, che, più che verso mondi animati da spiriti e magie, le sembra incline ad atmosfere limpide e solari, proprie della tradizione mediterranea, in cui non mancano nemmeno situazioni che fanno sorridere. A mio avviso, sembra peraltro emergere da tali parole un implicito collegamento tra questo genere di favola, dallo stile tipicamente italiano, e la tradizione novellistica trecentesca.

In maniera ben diversa sono invece valutate dallo sguardo critico dell’autrice le tematiche rappresentate dalla narrativa d’oltralpe. Banti coglie infatti come quest’ultima, sviluppando la componente magica proveniente dalla tradizione orientale, metta in figura racconti fiabeschi, dove la componente fantastica agisce da protagonista.                                                                                                                

11 Ibidem.

Questa diversità non è peraltro un’osservazione nuova, dal momento che, sin dall’Ottocento, gli autori italiani hanno rilevato l’assenza nella tradizione italiana di questa componente fantastica che risulta invece ben presente nella tradizione del nord Europa, come aveva reso manifestamente evidente il peculiare carattere del romanticismo nordico, in cui tali figurazioni sono largamente utilizzate.

Nel già nominato intervento dedicato alla traduzione italiana delle Favole dei fratelli Grimm, la scrittrice puntualizza in maniera ancora più esplicita tale assunto, mettendo a confronto tre grandi modelli: Basile, Perrault e i Grimm. Grazie all’esempio di questi tre grandi autori, può infatti ben esemplificare come questa componente fantastica sia una peculiarità propria della letteratura nordica. Scrive infatti:

Pensiamo a tre raccolte, a tre nomi. Il grande Perrault, l’infocato nostro Basile, e questi scrupolosi, incantati fratelli Grimm. […] e con un colpo di bacchetta magica – in questo caso di sagacia signorile, metà feudale e metà cortigiana – il francese ne fa scaturire le moralità sobrie ed argute di Cenerentola, di Puccettino, di Cappuccetto Rosso, dove il miracolo è tutto letterario, destinato ad ascoltatori che vezzeggiano la propria infanzia piuttosto che viverla. Più ridanciano, più libero, ma insieme più carico di messaggi, per così dire, sepolcrali, l’italiano sfolgora d’improvvisazioni rutilanti che fanno pensare a Gòngora, persino a Shakespeare, e anche ai ruoli del Capitan Coviello: e l’uditorio sarà questa volta di cavalieri e di forensi, di cittadini e di vagabondi, gente di ogni età che si ferma all’aperto, sotto il sole, coi piedi nella polvere.

Più tardi venuta, si ha l’impressione che la raccolta dei fratelli Grimm escluda ogni voce viva, tutta pervasa di un rispetto religioso per voci estinte, di giornate colate a picco nel mare del tempo, di un mondo scomparso in cui il bosco stregato lambisce la città e la vita degli uomini è più dura e misteriosa di quel che oggi non si possa immaginare.13

La citazione è lunga, ma ben esplicativa: al calore delle favole di tradizione nostrana, di cui Banti sottolinea anche in quest’occasione la componente di solarità ed il carattere più bonario, rispondono d’oltralpe, da un lato, il signorile colpo di bacchetta magica di Perrault e, dall’altro, i mondi fantastici creati dai Grimm.

Detto ciò, si spiega ancor meglio perché Banti, parlando del romanzo di Orsola Nemi, abbia dovuto premettere che un romanzo di tal genere si sarebbe scontrato con i pregiudizi letterari degli italiani in materia di figurazioni fantastiche e “stregonesche”. Secondo Banti, Orsola Nemi fa infatti riferimento proprio a quel tipo di favolistica

                                                                                                               

d’oltralpe di cui si sono appena puntualizzate le caratteristiche, e tale propensione la nostra autrice la ritiene evidente sin dal primo romanzo della scrittrice spezzina:

Ora, che Orsola Nemi sia nata con il talento della favola, fu chiaro sin dal ’40, quando Bompiani lo ebbe stampato quel Rococò, più favola che romanzo, d’un gusto lievemente drogato eppur villereccio di bibita al lampone, in tempo di fiera.14

Il giudizio di Banti sulla produzione di Nemi è condiviso sia dalla critica coeva all’uscita del romanzo, che da quella odierna, che confermano entrambe la prospettiva offerta dalla nostra autrice: Orsola Nemi viene giudicata come una scrittrice dai toni e dalle modalità espressive proprie della favola. Tra i giudizi contemporanei alla pubblicazione del romanzo, cito ad esempio quello di Giorgio Petrocchi, il quale, a proposito di Maddalena della Palude, dice che: «tutta la narrazione è legata da un poetico tono favolistico dove pur gli assurdi stregoneschi si placano nella freschezza

quasi fanciullesca della fantasia».15 Per quanto riguarda invece la critica che si è

recentemente occupata della produzione narrativa della Nemi, Simona Verduci, docente all’università di Torino, in un intervento dedicato a Maddalena della Palude, scrive:

In questo romanzo la Nemi è molto abile nel delineare i suoi personaggi, tutti presentati con minuziose descrizioni, ricche di dettagli fisici e psicologici. La scrittrice, attraverso i protagonisti delle sue opere, vuole creare dei veri e propri mondi letterari, paralleli a quello reale. Orsola Nemi, convinta che “solamente la fantasia ci muove”, riesce a comporre con Maddalena della Palude un romanzo dai tratti fiabeschi.16

Come anticipato prima, questo della favola è per Banti un filo conduttore e di esso la nostra autrice si serve per attraversare, seppur velocemente, ciò che la Nemi aveva scritto fino ad allora. Degli elementi tipici del genere favolistico vengono rintracciati da quest’esame critico già in Rococò; essi consistono nella presenza di animali parlanti e in una struttura dei personaggi propria del mondo della fiaba: di Amata, la protagonista, Banti nota ad esempio che figura sia da «principessa tradita», che da «incantatrice traditora», incarnando quindi due ruoli emblematici nella struttura narrativa della fiaba. Inoltre, anche nell’ambientazione, Banti non manca di rilevare la parentela con le ambientazioni fantastiche dei paesaggi fiabeschi, di cui suggerisce anche un possibile                                                                                                                

14 Ivi, p. 136.

15 Giorgio Petrocchi, Momenti di una narrativa cattolica, in «La Via», 1 aprile 1950.

16 Simona Verduci, Maddalena della Palude, https://orsolanemi.wordpress.com (ultima consultazione 25/08/2016).

archetipo letterario nel «clima di mascherata notturna» di Le grand Meaulnes di Alain Fournier.17

Se questa componente fiabesca è già ben evidente nei personaggi e nelle ambientazioni di Rococò, risulta allora chiara anche la linea di continuità che Banti individua tra quest’ultimo romanzo e Maddalena della Palude, in cui rileva la presenza di personaggi e topoi propri del mondo fiabesco in quantità ben maggiore. Tali modalità di narrazione collegate al genere della fiaba sono pertanto quelle che, secondo questo giudizio critico, risultano più congeniali a Nemi, che infatti, a parere di Banti, appare invece acerba quando tenta di misurarsi con romanzi improntati alle poetiche del realismo, come dimostrerebbe un’opera quale Anime disabilitate.

A proposito dello stile di Nemi, la nostra autrice scrive che aveva «i doni naturali di una fantasia fra il grottesco e il barocchetto, con quel tanto di apodittico che è una delle sue

grazie e, forse, uno dei suoi pericoli».18 Rispetto a tale considerazione, è interessante

riferire che Banti, per dimostrare quanto sta affermando, fa ricorso alla citazione di un passo di uno dei racconti di Nemi, Espero, nel quale viene detto che Dio, che è la verità per eccellenza, ama l’inganno. A mio avviso, la citazione si rivela appropriata per almeno due motivi: uno contenutistico, l’altro strutturale. Il primo è che essa dimostra come la nostra scrittrice riconosca, nelle modalità espressive del racconto fantastico, quella componente d’invenzione che riesce a raggiungere una «verità» più profonda di quella della realtà stessa. Elemento, quest’ultimo, che si rivela peraltro in modo particolarmente chiaro nel caso di un’autrice come Nemi, per la quale modalità espressive di questo genere appaiono molto più consone di quanto non siano quelle di tipo realistico. In secondo luogo, la scelta di una citazione da Espero conferma l’utilizzo da parte della nostra autrice di un procedere dimostrativo efficace: per quanto si trovi davanti lo spazio esiguo di una recensione, Banti vede in Maddalena della Palude la piena rappresentazione di una vocazione narrativa, che è già in luce, negli stessi termini, nelle opere precedenti.

Procedendo nell’analisi, l’autrice afferma anche che, su questa componente fiabesco-favolistica, Nemi avrebbe innestato «i moderni miti di Freud e del tenebroso subcosciente», arrivando in alcuni punti a sfociare, «purtroppo, addirittura nel                                                                                                                

17 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 137.

confessionale».19 Nell’evidenziare questa sovrascrittura psicanalitica però, a mio avviso, Banti confonde un po’ i piani, in quanto assimila confessione psicologica e confessione religiosa, aspetto che mi sembra, tra i due, il più presente. Inoltre, sebbene di subconscio e di definizione psicologica dei personaggi si possa parlare, non mi sembra invece che si possa trattare di costruzione dei personaggi in chiave psicanalitica. In ogni caso, nonostante abbia ritenuto di dover evidenziare anche questi aspetti, la scrittrice specifica che non sono questi elementi – che anzi spesso finiscono per sconfinare nell’eccesso – quelli attraverso cui va sondato il temperamento di Nemi, bensì sono ben altri i tratti notevoli, sui quali conviene soffermarsi per giudicare l’operato della scrittrice, primo fra tutti il suo «temperamento così pronto al volo fantastico»:

[…] non è da vagliarsi a questi lumi un temperamento così pronto al volo fantastico, così libero e innocente da raccoglier fiori nello stesso antro delle streghe: le fiammelle, appunto, rosse, verdi, celesti, che i bambini portati dai parenti al sabba colgono impunemente dalle braci e vanno ad offrire come mazzolini al “Piccolo

Padrone”.20

Come ben si può vedere dal passo citato, la scrittrice si muove in maniera decisamente agile: qui passa dalle riflessioni su Nemi a quelle su Maddalena della Palude, in maniera molto rapida, e così fa anche nel resto dell’articolo; non ripete quasi mai un medesimo concetto, né vi si dilunga, riuscendo però, ugualmente, a definire in maniera abbastanza chiara i collegamenti tra una considerazione e l’altra.

Parlando di Maddalena della Palude, Banti si sofferma anche su quei documenti dai quali Nemi avrebbe tratto spunto per la scelta della tematica del romanzo, ritenendo che, benché essi testimonino un collegamento con un avvenimento realmente accaduto, l’elezione di un fatto di questo tipo come soggetto della vicenda sia in realtà da considerarsi come frutto degli interessi letterari di Nemi:

[…] questo processo di un negromante e delle sue giovani complici e accusatrici, dovette incantarla come una leggenda fra l’infernale e l’angelico, fertile di visioni straordinarie, di eroiche allucinazioni e disperazioni, e di quell’arcano profumo di domestico, esca dei viaggiatori avventurosi, di cui le vere favole non mancano mai.21

                                                                                                               

19 Ivi, p. 138.

20 Ibidem.

Per quanto riguarda lo stile di Orsola Nemi, Banti rileva che il romanzo è costruito per «quadri successivi», ne mette quindi in risalto la costruzione per sovrapposizione di immagini, che, giustapposte l’una all’altra, creano l’effetto di una stampa dai colori vivi e dal contenuto popolare, appunto come in una fiaba. La nostra autrice definisce infatti tali quadri narrativi «images d’Epinal», specificando che possono divenire soggetto di tali sequenze, tanto gli esseri animati, quanto gli elementi naturali come il vento o le nuvole. La vicinanza di tali modalità rappresentative con il mondo della fiaba può ancora una volta essere messa in luce mediante un confronto con l’articolo Le «Favole» dei Grimm, in cui, parlando dei modi narrativi di questi scrittori, Banti ne sottolinea l’utilizzo di un linguaggio che è «senza compiacimenti letterari», in cui anche gli elementi del paesaggio hanno «una presenza schietta e potente».22

L’autrice non poteva infine mancare di notare la «moralité» conclusiva, di cui dice che «squilla» il finale del romanzo. Certamente si tratta di un aspetto tipico della favola, ma è una sottolineatura che risulta ben più rilevante, se si ricorda l’importanza che questo valore ha per Banti, la quale ritiene che la letteratura deve sempre e comunque essere considerata un’espressione morale, proprio perché la moralità è una condizione imprescindibile, tanto nell’arte, quanto nella vita.

Nel finale dell’articolo, come spesso capita negli incipit o negli explicit dei suoi interventi, la scrittrice fa riferimento alla particolare situazione letteraria in cui i narratori a lei contemporanei si trovano ad operare, sottolineando ancora una volta come all’artista sia richiesta «una quotidiana giustificazione della sua scelta e dei suoi mezzi; delle sue trasfigurazioni e delle sue evasioni».23 A differenza però di altri casi, dove tale considerazione resta una frecciata polemica verso una società letteraria che stimola ben poco gli scrittori, in quest’occasione tale affermazione diventa uno spunto grazie al quale l’autrice può affermare che Orsola Nemi è in grado di superare le obiezioni sollevate dalla critica e la ragione che indica è semplice: la giustificazione è di carattere silistico e sta proprio nei toni beati che animano il romanzo di Nemi, un richiamo all’infanzia perduta che nessun critico potrà mai misconoscere. Scrive infatti Banti:

                                                                                                               

22 Ivi, p. 146.

È un discorso chiaro, un po’ cantato, che va innanzi come una barca ben condotta; a cui ci si può affidare per dimenticar la vita e sostituirla con sapori essenziali, limpidi come quelli dell’infanzia perduta.24

Banti conferma quindi, anche nel finale, il giudizio che aveva dato all’inizio, ovvero che questa scrittrice, per mezzo di una rappresentazione fantastica, riesce laddove non sarebbe mai giunta mediante una rappresentazione realistica. Ribadisce inoltre che è