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3. Il romanzo italiano

3.1   Il  rapporto  con  Manzoni

I primi due degli interventi sopra elencati appartengono, insieme all’articolo Romanzo e romanzo storico, alla già nominata triade manzoniana8: tre contributi di evidente coerenza tematica e strettamente interconnessi tra di loro, tanto che, nel volume Opinioni, l’autrice sceglie di collocarli l’uno di seguito all’altro. Abbiamo già avuto

4 Pubblicato originariamente su «Il nuovo Corriere», 5 agosto 1953, riproposto poi in «Paragone Letteratura», a. V, n. 52, aprile 1954, pp. 23-30 e successivamente raccolto in Anna Banti,

Opinioni, cit.

5 Pubblicato originariamente in «Paragone Letteratura», a. VII, n. 78, giugno 1956, pp. 24-36 e successivamente raccolto in Anna Banti, Opinioni, cit. Il testo diverge nell’ultima pagina dalla versione poi pubblicata nella raccolta Opinioni. Cfr. Infra.

6 Pubblicato originariamente come Editoriale non firmato in «Paragone Letteratura», a. X, n. 110, febbraio 1959, pp. 3-9 e successivamente raccolto in Anna Banti, Opinioni, cit.

7 Pubblicato sulla rubrica Giornale di «Paragone Letteratura», a. XXIV, n. 286, dicembre 1973, pp. 120-125.

modo di addentrarci in un primo confronto tra i due, esaminando l’intervento intitolato Romanzo e romanzo storico, il primo della triade, nonché quello più strettamente programmatico. Si è visto infatti come la scrittrice, nel proporre la propria idea di romanzo storico, abbia indicato limiti e meriti del nostro primo romanziere.

A differenza di molte altre autrici, Banti stima molto Manzoni e lo considera uno dei suoi maestri, fatto che è evidente anche dalla sua produzione narrativa, dove gli echi manzoniani sono tutt’altro che assenti. La nostra autrice tuttavia problematizza sempre e, come rileva appropriatamente Luciano Parisi, nella sua analisi della lettura che Banti fa di Manzoni, «non è stancamente fedele alle idee del maestro, ma trova in lui delle riflessioni da sviluppare».9 Con l’illustre scrittore Banti si confronta essenzialmente su due nodi critici, che sono poi i nuclei centrali sui quali è imperniata la sua poetica. In primo luogo, riflette sul valore della storia e del romanzo storico, verso il quale nutre da sempre un particolare interesse, che è confermato anche dall’orientamento in questo senso della sua produzione letteraria, e, secondariamente, indaga la rappresentazione manzoniana di tematiche e figurazioni che sono per lei di particolare interesse, ovvero quelle nelle quali è possibile cogliere un’attenzione ai diritti e alle specificità femminili. Trovo dunque che Luciano Parisi, nel suo esame della lettura critica bantiana, colga solo in parte il motivo per cui la scrittrice considera Manzoni un maestro. Egli infatti rileva:

Perché dunque un maestro e non una maestra? e perché Manzoni? L’ammirazione della Banti per lui ha valore solo se ha una spiegazione coerente con gli altri aspetti della sua personalità artistica, se la Banti individua temi e figure dell’opera manzoniana che sono in qualche modo congeniali ai propri racconti e alla rinnovata coscienza dei diritti e delle esigenze femminili che li anima.10

Parisi sembra trascurare uno dei legami fondamentali tra Banti e il grande scrittore, ovvero la storia, limitandosi a contrapporre, in maniera a mio avviso un po’ fuorviante, l’idea di storia dei due autori. Suggerisce infatti che, diversamente da Manzoni, per Banti la storia sia «un pretesto di evasione fantastica».11 In realtà, il legame per quanto riguarda il valore della storia è ben problematizzato; la riflessione prende le fila dalle

9 Luciano Parisi, Anna Banti: la rappresentazione delle donne in Come abbiamo letto Manzoni.

Interpreti novecenteschi, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2008, p. 161. Contributo già

precedentemente pubblicato con il titolo Come abbiamo letto Manzoni: Anna Banti, in «Cenobio», a. LII, n. 1, gennaio-marzo 2003, pp. 5-16.

10 Ivi, p. 161.

pagine del primo intervento, Romanzo e romanzo storico12, e va poi sviluppandosi negli altri due articoli. Nel corso dei tre interventi la scrittrice ribadisce il proprio debito verso il maestro, puntualizzando però la propria personale scommessa sul verosimile. A mio parere, l’unica diversità sta nel fatto che, mentre l’intervento sul romanzo storico ha carattere più esplicitamente programmatico, in Ermengarda e Geltrude e Manzoni e noi il confronto è più diretto, potremmo dire più calato nella pagina.

Per quanto riguarda invece i temi e le figurazioni sviluppate dalla narrativa manzoniana, un’analisi decisamente interessante è quella dei personaggi. In particolare, Banti riserva una singolare attenzione a quelli femminili, rivelando un’ammirazione incondizionata per la figura di Gertrude, che chiama in causa in tutti gli interventi.

Da puntualizzare è peraltro il fatto che, in Ermengarda e Geltrude e Manzoni e noi, la scrittrice adoperi in quasi tutte le occorrenze la variante «Geltrude». Si tratta infatti di una scelta che colpisce il lettore, non mi pare però avere una precisa connotazione filologica. Infatti, benché il personaggio della monaca di Monza abbia questo nome nel Fermo e Lucia, diventando «Gertrude» solo nei Promessi, e in tale prima versione lo spazio dedicato alla vicenda della monaca sia diametralmente più esteso – quindi la scelta di usare tale nomenclatura potrebbe apparentemente far pensare che Banti scelga di riferirsi al personaggio nella sua variante più articolata – , la scrittrice non si richiama mai direttamente al Fermo e Lucia, ma cita sempre I promessi sposi. Di questi ultimi, fa inoltre espressamente riferimento al decimo capitolo, che solo nei Promessi coincide con quello dedicato alla monaca di Monza. Oltretutto, la variante «Geltrude» non è mai adoperata nell’articolo del 1952, Romanzo e romanzo storico, e nemmeno in quello del 1973, L’occhio del Manzoni. Mi sento pertanto di escludere che tale scelta linguistica abbia una voluta connotazione filologica, credo si tratti piuttosto di un vezzo. L’unica influenza del Fermo e Lucia potrebbe, forse, consistere nel fatto che, essendo stato il romanzo pubblicato a posteriori, proprio nel 1954 – stesso anno in cui la scrittrice scrive Ermengarda e Geltrude – , Banti abbia avuto occasione di accostarvisi e le sia rimasta impressa tale variante lessicale, che, come si è detto, non compare ad esempio in Romanzo e romanzo storico (1952). La scrittrice si riferisce quindi, sempre e in maniera indiscussa, ai Promessi sposi.

Infine, mi è parso interessante affiancare a questa famosissima triade un ulteriore intervento, che però, rispetto ad essa, è redatto molti anni dopo e ha come oggetto il rapporto tra la pittura secentesca e le raffigurazioni del Seicento tratteggiate dalle pagine dei Promessi sposi. Quest’ultimo contributo è particolarmente utile perché, da una parte, illumina il pensiero di Banti anche lungo una prospettiva diacronica e, dall’altra, tiene insieme due aspetti che nella nostra autrice sono strettamente interrelati: letteratura e arte figurativa. Vediamo, dunque, gli interventi nel dettaglio.

3.1.1 Ermengarda e Geltrude

Il primo articolo, pubblicato per la prima volta nel 1953, è dedicato ad un confronto tra due grandi figure femminili del repertorio manzoniano: la principessa longobarda protagonista dell’Adelchi e la monaca di Monza.

Secondo uno schema di procedimento abbastanza usuale nei suoi scritti, la scrittrice esordisce interrogandosi sul modus operandi della critica coeva. Banti nota infatti come sia inesorabile la tendenza di quest’ultima ad individuare «in ogni biografia di grande artista, […] una saliente figura di donna, vera o favoleggiata», e come sia «di regola arguire che di questa ninfa egeria rimanga, nell’opera dell’artista, più di una traccia»13, senza risparmiare peraltro una puntualizzazione disillusa sul fatto che, quand’anche tale corrispondenza sia effettivamente riconoscibile, tra la persona reale ed il personaggio letterario intercorre sempre una notevole differenza. L’autrice ritiene inoltre che la spiegazione del grande interesse suscitato da questo genere di trasposizioni vada ricercato nel fatto che, in queste ultime, i critici pensano di poter ravvisare l’intus dell’artista, «la parte meno difesa del suo spirito».14 Da ciò, sostiene, si può capire anche come, in mancanza di una figura di donna di statura adeguata a quella dell’artista, questi ultimi abbiano spesso finito per procedere in maniera opposta, ricercando la donna ideale, nelle protagoniste dei romanzi. Banti sembra dunque voler saggiare questo metodo in prima persona, quando, poco dopo, s’interroga su quale sia la donna «ideale e idealizzabile» del Manzoni.

13 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 44.

Addentrandosi a sondare il terreno delle protagoniste femminili degli scritti manzoniani, com’era prevedibile, il personaggio che Banti predilige non è certo Lucia, ma nemmeno la casta e pura Ermengarda. A tal proposito, nota infatti la scrittrice:

Quale la donna ideale e idealizzabile del Manzoni? Non certo Lucia Mondella, contadinotta dabbene, fatta apposta per suscitare le brame di un materialone come Don Rodrigo, e la benevolenza generica e distratta di un aristocratico intellettuale come Don Alessandro. E neppure le scolorite Antonietta Visconti e Matilde nel Conte di Carmagnola. Rimaneva, fra le donne manzoniane, una dama regale, vittima rassegnata della prepotenza virile e morta giovane. […] Ma a ben riflettere che cos’è la sorella di Adelchi se non la versione signorile, aulica, tanto per la tenerezza del sentimento che per l’acerbità delle disgrazie, della rustica Lucia?15

L’accostamento di queste due figure femminili ci dà innanzitutto un’informazione utile a confermare quanto già detto in precedenza sul significato del romanzo storico: ovvero il fatto che questo genere sceglie di mettere in figura, attraverso la rappresentazione storica, dei problemi altri, dei nodi tematici forti. Tale assunto viene confermato da una considerazione come questa, proprio perché essa rivela come Ermengarda, protagonista di una tragedia, metta in figura problemi analoghi a quelli, che, attraverso forme differenti, rappresenta Lucia.

In secondo luogo, è, a mio avviso, altrettanto chiaro per quale motivo questi due personaggi non piacciano a Banti: non tanto per il fatto che tali protagoniste sono portatrici di valori antitetici al modo bantiano di pensare la figura femminile, quanto piuttosto perché, secondo l’ottica della scrittrice, sono poco verosimili. L’autrice ritiene infatti Lucia e Ermengarda stancamente succubi del pensiero romantico e, quindi, incapaci di toccare quei vertici letterari, che il Manzoni «autentico» raggiunge invece con altri personaggi. Scrive Banti:

Il fatto è che tanto Lucia, quanto Ermengarda non sono personaggi del vero, autentico Manzoni, ma del Manzoni succube dell’età romantica, che era, purtroppo, la sua: mentre i principi tradizionali della sua confessione religiosa vagheggiavano nella donna le virtù della non resistenza all’offesa, della rassegnazione, della pietà. Debolezza, dolcezza, lacrime.16

Come scrive Parisi – che, sotto questo aspetto, mi sembra valutare correttamente – «per la Banti, Lucia e Ermengarda sono il prodotto di una sensibilità romantica superata e di

15 Ivi, pp. 44-45.

una dottrina (quella cattolica) subita da Manzoni».17 Difatti, l’ammirazione che Banti ha per Manzoni non passa per l’ideologia, ma è di carattere più squisitamente stilistico. La scrittrice apprezza cioè soprattutto le pagine più propriamente realiste. Un aspetto, quest’ultimo, che, a mio avviso, coglie appropriatamente Bigongiari, di cui condivido le parole:

E difatti, per esempio, in Manzoni ella non ama la figura di Lucia che ritiene troppo cedevole sotto il pollice del fato, ma ritaglia la storia della monaca di Monza, e in definitiva ama il lato verghiano, se così posso esprimermi per anticipazione, naturalistico della storia del Manzoni, quel tanto di «verità istantanea» che è nel gran romanzo, non insomma il lato toccato dall’ideologia.18

Dunque, come è qui anticipato, se c’è un personaggio femminile che risulta particolarmente congeniale a Manzoni, è per Banti quello di Gertrude, di cui ammira il fascino letterario, che è quello caratteristico dei personaggi dipinti a tinte chiaro-scure. Così la scrittrice descrive infatti la figura della monaca di Monza:

Tutti sappiamo, d’altronde, di quali illuminazioni fosse capace la penna manzoniana quando si cimentò a creare una vera protagonista nella persona di Geltrude. Una vittima anche questa, ma non di modulo romantico, anzi una creatura piena di contrasti e violenza, non del tutto innocente mai, mai del tutto colpevole; infelice nel pianto nascosto e bruciato dall’orgoglio.19

Nel fascino di Gertrude l’autrice ritrova tutta la grandiosità del suo maestro, di cui descrive minuziosamente l’operato, considerando le pagine di «quel decimo capitolo dei suoi “Promessi”» un risultato di grande valore, ben distante dai condizionamenti di modulo romantico, di cui si è parlato in precedenza:

[…] da questa rosa strapazzata, a una a una egli [Manzoni] tolse le spine di una facile esasperazione romantica e la restituì alla logica realtà del suo destino. Né classico né romantico, ma soltanto grande scrittore e cioè davvero, grande poeta, in quel decimo capitolo dei suoi «Promessi» egli riceve dalle mani della storia un simulacro grezzo e ne fa un personaggio buono per tutti i tempi.20

Come si può cogliere dalla citazione, Banti apprezza la complessità della figura della monaca di Monza, ritenendola «un personaggio buono per tutti i tempi». Ancora Parisi

17 Luciano Parisi, Anna Banti: la rappresentazione delle donne, cit., p. 166.

18 Piero Bigongiari, Antinomie stilistiche di Anna Banti, cit., p. 3.

19 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 46.

sottolinea, nei confronti del personaggio di Gertrude, come Banti distingua «il Manzoni moralista dal Manzoni artista» ed afferma che, mentre «il primo che condanna le poche scelte compiute da Geltrude, la irrita, ma le è in fondo indifferente; il secondo, che rivive le emozioni della ragazza con partecipe attenzione, è il suo maestro».21 Le pagine dedicate alla monaca di Monza sono peraltro, per la scrittrice, le più riuscite anche da un punto di vista stilistico; qui sta a suo avviso la grandezza dell’artista, che, «con quel suo “cursus” miracolosamente calibrato, scolpisce, patina, e quasi consola in cadenze di alta dolcezza questa creatura che cresce avidamente in prigione e a cui le forze non bastano per liberarsi».22

La nostra autrice coglie, in tale umanità, quel valore di «pietas storica» che, secondo il suo giudizio, si può esprimere unicamente attraverso l’arte, proprio perché solo con l’interposizione del filtro dell’arte si possono raggiungere dei vertici insuperabili di profondità. Si tratta di quel «finissimo velo che mentre nulla toglie alla realtà ne mitiga le asprezze: ed è il velo della pietas storica, quanto dire il velo dell’arte».23 Il segreto sta nel verosimile storico, che per l’autrice è manzonianamente «più vero del vero». E, se Banti considera quest’aspetto il valore aggiunto di Gertrude, lo valuta allo stesso tempo come la pecca che inficia il personaggio di Ermengarda. A tal proposito, nel suo saggio sugli scritti non narrativi di Anna Banti, così commenta Margherita Ghilardi la figura di Ermengarda:

[…] è dunque una protagonista mancata, è per Anna Banti un personaggio che soffocato da qualità in cui non sa e non può riconoscersi, strappato a qualsiasi possibilità di attendibile verosimiglianza, perde irreparabilmente il suo potere di comunicazione attiva con il futuro, la capacità di esprimere con la propria vicenda «quanto di eterno accomuna e distingue le azioni umane».24

Nel corso dell’intervento, Banti prova pertanto ad immaginare come si sarebbe comportata un’Ermengarda di tutt’altro respiro, «davvero manzoniana, ricercata sul “verosimile storico”, gemella della secentesca Geltrude». Secondo questo parere critico, avrebbe dovuto essere un’eroina meno romantica e più vicina come impostazione alla

21 Luciano Parisi, Anna Banti: la rappresentazione delle donne, cit., pp. 167-168.

22 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 46.  

23 Ivi, p. 47.

24 Margherita Ghilardi, Le piccole tempeste. Sugli «Scritti non narrativi» di Anna Banti, in

L’opera di Anna Banti. Atti del Convegno di studi a Firenze, 8-9 maggio 1992, a cura di Enza

«pagina straziata eppur freddamente “storica” con cui il Manzoni arrischia con approssimazione allucinante l’infanzia oppressa della Geltrudina»25, così da raggiungere quella stessa «connivenza storico-letteraria»26 che dimostra il personaggio della monaca di Monza.

L’autrice immagina di ripercorrere la ricerca storica fatta da Manzoni per delineare il personaggio di Ermengarda, evidenziando però come, seguendo la poetica del verosimile, egli avrebbe potuto giungere a delle soluzioni diverse. Ad esempio, analizzando il tipo di religiosità che Manzoni ha attribuito ad Ermengarda, considera:

Strana contraddizione in colui che mentre così s’introduce nell’animo della figlia di un nobile spagnolo del Seicento, cede poi al goticismo plorante del secolo diciannovesimo tanto da concepirne l’assurdo modulo di una principessa longobarda, cogli occhi sempre rivolti al cielo, umile come una donnicciola, e così mite che la vista di un cinghiale ferito le fa distogliere gli occhi e fare il viso bianco.27

Com’è caratteristico del suo stile, Banti procede sempre per opposizioni disgiuntive, mettendo dunque continuamente in confronto l’eroina manzoniana e il personaggio da lei ricostruito sul modello di Gertrude.

In quest’“altra” Ermengarda, mi sembra di poter ravvisare una qualche eco delle modalità di riflessione adoperate da Woolf nella propria rappresentazione della vicenda di Judith Shakespeare, sebbene l’oggetto e le finalità siano qui di tutt’altro tipo. Ciò è ravvisabile, a parer mio, sia nell’impostazione del passo: l’immaginazione di una vicenda alternativa, così da mettere in evidenza i limiti di quella esistente, sia nei toni dell’intervento, in quanto, pur essendo mirata a dimostrare tutt’altro, anche questa ricostruzione assume dei toni vagamenti polemici nei confronti della condizione femminile. Eccone un esempio che, grazie ad un sarcasmo, nemmeno così sottile, è di grande espressività:

A questi sistemi di gineceo e di dipendenza assoluta, comuni, del resto, a ogni società primitiva, pare tuttavia che le donne germaniche non si accomodassero tutte di buona voglia […]. Non vediamo perché la figlia di Desiderio, sia pur tarda discendente di eroine siffatte debba essere stata proprio un agnello o una colomba.28

25 Anna Banti, Opinioni, p. 47.  

26 La definizione è di Anna Banti, Al lettore in Artemisia, Sansoni, Firenze, 1947, p. VII. Cfr. Margherita Ghilardi, Le piccole tempeste. Sugli «Scritti non narrativi» di Anna Banti, cit., p. 55.

27 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 50.

Verso la fine dell’intervento, Banti ribadisce l’importanza della propria chiave di lettura: insiste infatti sulla necessità di presentare personaggi verosimili, in quanto solo la storia mentalmente ricreata riesce, pur non discostandosi dalla realtà storica, a comunicare qualcosa in più. Come ben esplicita Margherita Ghilardi, l’autrice trasmettere una «verità che trascende la realtà confusa e spicciola dei fatti» e che è capace di «cogliere ciò che nel “cuore dell’uomo” resta immutabile al di là di qualsiasi circostanza del presente o del passato, come di un ancora incognito futuro»29.

Sempre Ghilardi, a proposito del personaggio di Ermengarda, precisa che Banti è «consapevole che se la letteratura ha fallito, inventando per lei una bugiarda e dolciastra “passione romantica”, non sarà ormai la storia a raccontare per noi la sua “tristezza di donna”, a riempire di parole il suo silenzio».30 Proprio la passione romantica di Ermengarda è infatti, per l’autrice, una grave mancanza di Manzoni, perché, come Banti stessa ricorda, lo scrittore aveva ribadito nella Moralità delle opere tragiche che più poetica è la «rappresentazione di passioni che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita».31 E, non lo dice, ma il paragone sale implicitamente agli occhi, se c’è un personaggio animato da una passione che non genera simpatia, ma riflessione, questo è proprio quello di Gertrude.

3.1.2 Manzoni e noi

Il terzo degli interventi che compongono la trilogia di articoli dedicati a Manzoni, pubblicato nel 1956, ha per oggetto quello che, per Banti, si conferma essere il «punto sicuro e solido sul terreno infido della nostra tradizione narrativa», ovvero I promessi sposi. Opera che, ritiene la scrittrice, stava rivelando in quegli anni di «un risalto, un’attualità esemplare», tanto da collocarsi «al centro degli interessi e dei problemi critici del momento».32

Nell’indicare le modalità mediante le quali accingersi alla rilettura di un romanzo di tal prestigio, Banti fornisce quella che potremmo definire un’indicazione di metodo: la rilettura critica di un romanzo come I promessi sposi, per essere efficace, deve partire, secondo l’autrice, da una ricostruzione del proprio percorso di avvicinamento all’opera.

29 Margherita Ghilardi, Le piccole tempeste. Sugli «Scritti non narrativi» di Anna Banti, cit., p. 57.

30 Ivi, p. 57.

31 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 52.  

Un’analisi di questo tipo permette, a suo avviso, di fungere da «esame di coscienza professionale», in grado di saggiare la «validità narrativa» di chi vi si sottopone.33 Tale è la ragione per cui Banti consiglia tale esame anche al suo pubblico: tanto ai giovani narratori, per prendere coscienza di sé e rendersi così più correttamente interpretabili