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4. Matilde Serao

4.2   Matilde  non  sa  scrivere

Il secondo intervento dedicato a Serao, Banti lo sviluppa da un punto di vista più specificatamente linguistico. Pubblicato nel 1949 su «L’Illustrazione italiana», si tratta di un articolo particolarmente significativo, tanto che la scrittrice sceglie di riprenderlo per la silloge di Opinioni.

Com’è proprio dello stile dell’autrice, l’esordio è anche in questo caso di tipo discorsivo, tuttavia si rivela ancora una volta ben scelto: in maniera molto interessante, il «mondo delle lettere» viene paragonato a quello dei rigattieri, che certo Banti doveva conoscere bene. Proprio come avviene nelle botteghe dei rigattieri, dove nella maggior parte dei casi i reperti dissepolti dall’oblio sono destinati, dopo un rapido recupero, alla certezza di esser dimenticati, così accade anche per i libri, che, scaduti di gusto, non vengono recuperati per altro motivo se non per una sorta di curiosità. Il paragone funziona però anche per quegli altri pochi casi in cui tali riscoperte non restano infruttuose, com’è il caso della raccolta in volume delle opere di Serao.23

È da questa considerazione che Banti trae lo spunto per iniziare a tracciare, molto puntualmente, il quadro letterario entro cui la scrittrice napoletana si trovò ad operare:

Morta nel 1927, nata nel 1856, Matilde Serao visse e lavorò nel momento più soggetto ed oppresso della letteratura italiana: fra il classicismo di Carducci e il bizantinismo di D’Annunzio, fra l’assalto del naturalismo francese e la voga dello psicologismo bourgettiano, era difficile, nonché muoversi, respirare.24

La scrittrice individua dunque le diverse componenti che hanno dato il proprio contributo alla formazione di Serao, nelle quali si può riconoscere una linea di

23 Quella nominata da Banti è l’edizione Garzanti del 1944, curata da Pancrazi, che raccoglieva quelli che erano allora considerati i migliori romanzi e racconti dell’autrice, uscita cinque anni prima della pubblicazione dell’articolo.

continuità con quelle che già erano state individuate nell’articolo del 1939: si tratta dell’influenza verista e di quella dannunziana.

Questa varietà di modelli è, secondo Banti, un valore aggiunto, nient’affatto una perdita; se invece c’è un motivo che ha condannato l’autrice napoletana a finire per essere dimenticata dai posteri, Banti lo individua nel «decadere della sua produzione dal 1904 al 1927». E motiva la propria affermazione:

Dopo trent’anni di nobili fatiche, i più muoiono; essa cadde nella frivolezza, si riposò nella falsa eleganza, domata, più che altro, da quel suo tempo sofisticato e torbido. Ognuno si riposa come può e gli riesce; la Serao si abbandonò; si abbandonò alla voglia di scriver bene.25

La scrittrice ritiene cioè che il risultato sia stato buono, finché le due componenti della scrittura di Serao si sono mantenute fuse tra di loro, o finché quella verista ha prevalso, e che invece sia divenuto scadente, quando l’influenza estetizzante ha cominciato a prendere il sopravvento. Di quell’accusa, quella cioè di «scriver male», che - Banti c’informa puntualmente - trae origine dalle pagine di una lettera di Scarfoglio a Ugo Ojetti, Banti capovolge il senso. Secondo la nostra autrice infatti, Serao avrebbe cominciato a scrivere male proprio quando più voleva scrivere bene, quando cioè ha abbandonato quella naturalezza propria dei modi veristi. Idea, quest’ultima, che si evince tanto più chiaramente quando Banti accomuna lo “scrivere male” di Serao allo “scrivere male” di Verga:

Cosa significasse, infatti, “scriver male” tra l’80 e il’90 in Italia, fu chiarito nella rivoluzione solitaria operata da Giovanni Verga quando concepì I Malavoglia.26

Un giudizio di questo tipo si spiega anche tenendo presente la ben poca simpatia di Banti nei confronti del dannunzianesimo. A tal proposito, credo che interpreti correttamente Pietro Bianchi che, qualche anno dopo, recensendo il volume biografico Matilde Serao, scrive:

Banti non ha indulgenza per Gabriele d’Annunzio, perché lo vede come massimo esponente dell’Italia guitta che si gonfia di parole sonore.27

25 Ivi, pp. 109-110.

26 Ibidem.

27 Pietro Bianchi, Ritratto rigoroso della pittoresca «donna Matilde», in «Il Giorno», 9 giugno 1965.

Si è già vista, d’altronde, la propensione di Banti ad assumere come propri, modelli di ben altro genere, quali i grandi autori del romanzo storico e Verga, e qui non fa eccezione. In questo intervento tuttavia, come ho anticipato, la riflessione si articola principalmente su di un piano linguistico. La scrittrice insiste pertanto, ancora una volta, su di un nodo problematico più volte esaminato: il fatto che, mentre il naturalismo d’oltralpe aveva un linguaggio nazionale, attraverso cui potersi esprimere, non è stato così per quello italiano, che ha dovuto adottare altre soluzioni per rispondere alla «necessità di toccare le cose quotidiane e di popolo con una lingua di popolo e quotidiana».28 Una volta constatato ciò, Banti, perfettamente conscia dei limiti di gran parte dei naturalisti italiani, afferma che risultati considerevoli sono stati invece raggiunti, dopo l’esempio sommo di Verga, proprio da Serao. Nota infatti:

Questa era la strada, si capisce, che menava al folclore: e fatalmente al folclore si ridusse – e tutt’ora seguita a ridursi – il naturalismo in Italia. Intorno all’80, tuttavia, questa intuizione portò a due risultati positivi: grandissimo l’uno, l’altro un po’ claudicante e discontinuo, un po’ sciatto, ma eccellentemente indicativo: tollerino il critico e il lettore questo accostamento non sacrilego del Verga, più che a De Roberto e a Capuana, all’ottima donna Matilde. Ambedue, infatti, scoprirono in sede propria e furono portati a dimostrare che con la lingua “risciacquata in Arno” e postmanzoniana (e non è detto che il Manzoni non sarebbe stato con loro) non si poteva procedere: e che la funzione del “toscano”, esauriti gli escorsi barbaro-fantasisti del Nievo, del Tommaseo, della Percoto, era del tutto spenta.29

Dunque, Banti ribadisce qui che gli esiti migliori dal punto di vista linguistico sono quelli di Verga e Serao, proprio perché questi ultimi, da un lato, hanno evitato il rischio di sconfinare nel «folclore» e, dall’altro, hanno preso le debite distanze dalla «"risciacquata in Arno”» dei post-manzoniani. La scrittrice trova infatti «spenta» la «funzione del “toscano”», anche se concede una benevola approvazione a quei risultati che, con un’espressione molto efficace, giudica «barbaro-fantasisti», tra i quali inserisce tra l’altro anche Percoto, un riferimento che forse non è un unicum, ma che certamente è inusuale.

In seguito, la scrittrice si sofferma sulla forza espressiva dei dialetti, che le sembra invece mancare nella lingua letteraria italiana, anticipando riflessioni che teorizzerà

28 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 110.

compiutamente nel già visto articolo, redatto per le pagine di «L’Approdo letterario».30 Proprio di questa espressività dialettale, di cui necessita, secondo la nostra autrice, l’italiano, si servono Verga e, per quanto senza il genio del maestro siciliano, Serao. Dell’originalità del cursus di Matilde, infatti Banti scrive:

Naturalmente la Serao non disponeva di tanto coraggio, di tanta pazienza, soprattutto di tanto genio: ma il talento autentico di narratore, le umane qualità di osservatrice cordiale la consigliarono di buttarsi allo sbaraglio e di succhiare nella sua scrittura a ventosa, a mulinello, a cateratta, il decrepito e il nuovissimo, l’impugnatura linguaiola e il corrivo popolare, il languore vezzoso e la concitazione fulminante. Con questi mezzi, essa mise insieme parecchie pagine, se non proprio esemplari, di un oggettivismo lucido, preciso, gremito insieme e sprezzante: non mai ozioso e fotografico.31

Nella propria descrizione dello stile di Serao, Banti mi sembra quasi immedesimarsi: dà infatti una definizione ricca di tricola nominali e aggettivali, servendosi di scelte lessicali curate nel dettaglio. La lingua, costruita per accumulo, risulta così densa e immaginosa.

Quello che la scrittrice non apprezza di Serao è invece l’aver abbandonato la via maestra del realismo, l’essere caduta verso la fine della sua produzione narrativa «nell’adorazione di Paul Bourget», ovvero in una sorta di psicologismo decadente, dimentica di quei modi narrativi grazie ai quali Banti l’aveva elevata al ruolo di «pioniera del racconto “dall’esterno”».32

Come si è già potuto osservare in altre occorrenze, il ragionamento della nostra autrice, per quanto non proceda secondo un ordine sistematico – la scrittrice tende infatti a riproporre, declinandoli in diversi modi, i nodi problematici che le stanno a cuore – non si stacca mai dal legame con i testi degli autori che esamina. E l’articolo in questione non fa eccezione: per definire questo stile da «surrealista avanti lettera»33, proprio di quella che per lei è la Serao migliore, richiama, per rapidi cenni, degli episodi che ritiene particolarmente esplicativi. Cito qui l’esempio più chiaro, in cui la scrittrice si rifà a quella che per lei è una delle realizzazioni migliori di Matilde Serao, Il paese di Cuccagna:

30 Cfr. cap. 2.3.  

31 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 111.

32 Ivi, p. 112.

33 Con il termine surrealista Banti intende qui usare una definizione che ricomprenda tutti gli elementi, di cui l’abbiamo vista finora servirsi, per definire il peculiare realismo di Serao.  

Senza indizio di moti interiori e quasi senza congetture psicologiche, avanza e precipita la tragedia di Carmela la sigaraia: così, scevro di artifici decorativi, si definisce il tessuto di quelle pagine, dove la parola e le giunture sintattiche traggono origine e movenze dalla tradizione e dall’uso popolare: il modo migliore per legarsi ad una vivente classicità.34

Questo estratto, servendosi della vicenda di uno dei personaggi del Paese di Cuccagna, riassume, molto puntualmente, quanto già detto sopra. Banti insiste infatti su come la scelta delle modalità espressive sia tutt’altro che ininfluente e come, allo stesso modo, tutt’altro che secondaria sia anche la forza che un testo trae dalla resa linguistica, la quale deve, secondo l’autrice, essere strettamente connessa con la realtà che raffigura. Per Banti, è proprio grazie a tale produzione realista che Serao, per quanto un po’ grezza, merita di essere considerata di «una vivente classicità» e di essere inserita a pieno titolo nel panorama dei «veristi italiani». La nostra autrice riconosce tra l’altro che Matilde non è stata «creata da nessuno, anzi deve considerarsi fra i primi sperimentatori di un atteggiamento morale e artistico che, ormai, si respirava come l’aria».35 Dato, quest’ultimo, che conferma anche attraverso una rapida rassegna cronologica. Banti coglie infatti, molto acutamente, la complessa situazione di quegli anni: il verismo che «si respirava come l’aria», D’Annunzio che «cominciava a strillar squisitezze e a drogare il palato di chi giurava per la bella prosa» e il grande pubblico che ancora propendeva per romanzi di taglio romantico.

Ma era un maledetto tempo. Pubblicato Il Paese di Cuccagna, donna Matilde si sentì dire, dalla buonanima di Margherita regina, ch’essa gli preferiva ancora e sempre Addio, amore. La capofila delle intellettuali italiane deplorava che Verga, dopo Tigre Reale, fosse scaduto a I Malavoglia. D’Annunzio intanto cominciava a strillar squisitezze e a drogare il palato di chi giurava per la bella prosa: gusti che lui solo poteva sostenere, ma che ai più riuscivano veleno. Così si spiega come Matilde arrivasse a scrivere Ella non rispose.36

Appare dunque chiaro che, se Banti ha ben presente qual è la situazione di quegli anni, non fa nemmeno mistero di quali siano le proprie preferenze tanto stilistiche, quanto linguistiche. La Matilde che preferisce si conferma quindi quella che “non sa scrivere”,

34Anna Banti, Opinioni, cit., p. 112.  

35 Ivi, pp. 112-113.

quella cioè che non sacrifica alla bella prosa la propria capacità di osservazione e le proprie modalità espressive.

4.2.1 Prefazione a L’occhio di Napoli

Nel 1962, Banti accetta di scrivere, per i tipi dell’editore Garzanti37, la prefazione alla raccolta di racconti L’occhio di Napoli. In quest’occasione, la scrittrice ripropone le idee già presentate nell’articolo Matilde non sa scrivere, riuscendo però, nella messa a fuoco di alcuni concetti chiave, ancora più chiara ed esplicita e toccando quelli che Lanfranco Caretti definisce vertici di «rara acutezza critica». Questa prefazione, che si colloca, sia cronologicamente, sia per quanto riguarda i contenuti, in una posizione intermedia tra gli articoli già visti e la biografia di Matilde, ha inoltre già il merito di focalizzare acutamente quel «quadro rigoroso della nostra situazione letteraria tra verismo regionale e naturalismo europeo, tra realismo ottocentesco ed estetismo misticheggiante o psicologismo decadente»38, che per larga parte della critica sarà un indiscusso pregio della successiva opera biografica. Mi sembrano, questi, motivi sufficienti per proporre, prima di esaminare le anticipazioni della biografia, un breve confronto tra gli articoli usciti in rivista, in particolare Matilde non sa scrivere, e questa prefazione.

I raffronti sono possibili sin dall’esordio. Se nell’articolo sopra indicato la scrittrice aveva esordito paragonando il mondo della narrativa alla bottega di un rigattiere e guardando fiduciosamente alla raccolta delle opere di Serao riproposta da Pancrazi, qui, per quanto continui a ritenere quell’edizione un ottimo lavoro, appare molto più disillusa nei confronti dell’apprezzamento di tale edizione da parte dei suoi contemporanei. Scrive infatti:

Tuttavia non ci risulta che i due folti volumi suscitassero in qualche modo l’interesse o almeno la curiosità delle nuove generazioni: possiamo anzi dire che, cadendo il discorso sulla scrittrice napoletana, abbiam sempre notato con sorpresa come per i giovani e giovanissimi narratori il suo nome non evocasse alcunché di valido; considerandola i più alla pari con i contemporanei (soprattutto con le

37 L’editore Garzanti era lo stesso per il quale era uscita, nel 1944, la prima raccolta delle opere di Serao, curata da Pietro Pancrazi.

38 Lanfranco Caretti, Ritorno di Matilde Serao, «L’Approdo letterario», a. XI, n.s., n. 31, luglio-settembre 1965, p. 120.

contemporanee) di leggenda mondana e futile. A parlar chiaro: nessuno ne aveva letto una pagina, né dava segno di volerlo fare con una qualche serietà.39

La scrittrice cerca quindi di approfondire, andando ad indagare le ragioni di tale indifferenza da parte della posterità, e suggerisce che la risposta potrebbe essere da ricercare nell’«enorme prestigio umano» di questo personaggio. Già nelle altre occasioni in cui si era occupata di donna Matilde, la nostra autrice aveva posto l’accento sulla straordinaria vitalità della sua personalità, tuttavia, a differenza degli altri interventi, insiste qui anche su un aspetto su cui, fino ad allora, non si era ancora soffermata: la complessità di Serao, vale a dire l’essere un’autrice articolata e tutt’altro che banale. Ed è proprio a questa ricchezza di vedute, tanto più inusuale perché a trasmetterla era una donna e perché lo faceva con uno stile di scrittura diverso da quello dettato dai canoni tradizionali, che Banti ascrive il silenzio a cui in quegli anni vedeva condannata la scrittrice napoletana.

Creatura dilatata da un enorme prestigio umano, «divertente» all’eccesso della ragione come nel torto, questa donna bigotta e spregiudicata, di un’attività tanto costante da divenire routine, fu presto un personaggio troppo complesso per la penna che lo serviva: in un certo senso essa fece di tutto per secondare la sua cattiva sorte, l’indifferenza, cioè della posterità. Era uno scrittore e volle essere un giornalista. Ci riuscì, purtroppo, assai bene. E anche oggi, da chi le è stato accanto ogni giorno, dagli stessi suoi famigliari, senti ripetere opinioni contraddittorie sulle sue preponderanti qualità: scrittore, più che giornalista; giornalista, più che scrittore.40 Anche in quest’occasione, come si vede bene dalla citazione, la nostra autrice mette in luce le due facce della personalità letteraria di Serao: quella della scrittrice e quella della giornalista, guardando a questo secondo aspetto con uno sguardo tutt’altro che negativo, come invece è stato spesso giudicato (cfr. Infra). Fatto quest’ultimo che ci consente di dire che, di Serao, Banti apprezza non soltanto le qualità di scrittrice, ma anche le doti di articolista, attribuendo a questa seconda componente la peculiarità di quel suo stile narrativo “dall’esterno”. Non tragga in inganno quel: «ci riuscì, purtroppo, assai bene», in apparenza contraddittorio; si ricordi difatti quanto si è già detto a proposito del tono degli interventi bantiani. Qui, pertanto – sebbene, non trattandosi di un articolo, bensì di una prefazione, il tono risulti meno narrativo degli altri interventi – l’affermazione di Banti mi sembra da intendere più in senso enfatico, che come una ritrattazione di quanto

39 Anna Banti, Prefazione a Matilde Serao, L’occhio di Napoli, cit., p. V.

appena affermato sulle abilità di articolista di Serao. Quale sia il senso generale dell’assunto mi pare, d’altronde, ben confermato anche dalla parte conclusiva della citazione.

Come nell’articolo Matilde non sa scrivere, viene poi riproposto l’accostamento a Verga; la nostra autrice conferma difatti di ritenere costoro le uniche due personalità in grado di condurre il naturalismo italiano fuori dalle forme chiuse del folklore regionale. Risultando, a mio avviso, ancora più chiara di quanto riesce ad essere nel suddetto articolo, Banti scrive:

Uscire da tali limiti di contenuto e di espressione per assurgere ad un piano nazionale con mezzi regionali riformati era la difficile meta che i migliori si prefiggevano, ma direi che due soltanto ne ebbero la piena coscienza e conoscenza e ne seppero parlare senza scoraggiamenti e pessimismo: Giovanni Verga e Matilde Serao. […] Verga e la Serao, pur nella disuguaglianza del livello culturale, si mostrano parimenti preoccupati della questione linguistica e del modo di risolverla.41

Ecco dunque la teorizzazione compiuta di quella che Banti ritiene l’unica risposta possibile alla questione della lingua: «assurgere ad un piano nazionale con mezzi regionali riformati». E gli unici due autori che ne erano stati capaci, la scrittrice li identifica proprio in Verga e Serao, rifacendosi ad un legame messo in evidenza dalla stessa donna Matilde.

Di seguito infatti, riportando le risposte di entrambi all’intervista che Ojetti aveva fatto loro nel 1894, delle parole di Serao, la quale si iscrive nella linea tracciata da Verga, Banti loda l’acume di saper riconoscere «la superiorità di un collega di più difficile diffusione». Non manca peraltro la frecciata polemica nei confronti del proprio tempo, in quanto la nostra autrice afferma che «oggi le cose andrebbero diversamente», se ci fossero ancora giovani scrittori di successo in grado di comportarsi come donna Matilde.42

Inoltre, a differenza degli articoli, nei quali viene solo detto che Serao segue la via segnata da Verga, senza però raggiungerne il livello magistrale, nominando appena vagamente una certa «linea dall’esterno», alla quale apparterrebbe la produzione di Matilde, qui Banti esplicita pienamente la differenza con Verga e cosa intenda con tale espressione:

41 Ivi, p. VII.

Verga costruisce dall’interno, con misteriose cadenze dell’animo e della parola, attraverso cui le cose assumono una classica fissità; la Serao agglutina dall’esterno il suo mondo gremito, dove le passioni sono prevedibili e meccaniche mentre le cose ammiccano in una luce quasi surreale. […] Sta in questa moltitudine di fatti esterni, ci sembra, la novità della Serao: la quale, se fosse vissuta ai giorni nostri, non si sarebbe negata, vien fatto di pensare, gli esperimenti più rischiosi dello “sguardo”.43 La differenza con Verga è quindi, secondo la scrittrice, proprio nel modo di accostarsi a queste forme di realismo: se Verga s’immerge nella mentalità e nei pensieri della realtà che raffigura, quello di Serao è invece un «agglutinare» dall’esterno. Banti non mi sembra però affatto giudicare tali modalità espressive come una mancanza, bensì piuttosto come una peculiarità stilistica. Tant’è che arriva a sostenere che il modo di scrivere di Serao sembra quasi prefigurare certi esperimenti «rischiosi dello “sguardo”», propri del suo tempo. Tale peculiarità di stile viene peraltro attribuita dalla nostra scrittrice proprio al fatto che Matilde fosse imbibita «di un altro inchiostro», quello «delle tipografie e dei giornali».44

Un ulteriore aspetto, che manca negli altri articoli dedicati a Serao e che invece Banti qui non manca di evidenziare, è il riferimento alla critica. I giudizi negativi sono attribuiti massimamente alla critica formalistica – un nome su tutti è quello di Renato Serra – la quale, secondo la scrittrice, avrebbe «devastato la fama di Serao forse assai