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4. Matilde Serao

4.3   Matilde  Serao,  anticipazioni

Gli ultimi due articoli pubblicati da Banti sulla scrittrice napoletana, sono due anticipazioni del volume Matilde Serao, che sarebbe uscito quello stesso 1965 per i tipi di Utet, nella collezione «La vita sociale della nuova Italia». È pertanto più corretto parlare di estratti, non di specifici articoli; non ho voluto tuttavia trascurarli, perché restano utili strumenti per identificare gli aspetti che Banti più apprezza di questa scrittrice; la scelta delle anticipazioni non mi sembra infatti casuale.

Nella prima, la nostra autrice riporta un estratto considerevole relativo agli esordi della parabola letteraria di Serao, il periodo romano, rifacendosi ad elementi già messi in luce anche in articoli precedenti, soprattutto in quello apparso su «Oggi», di cui si è già sottolineata la struttura biografica. La seconda anticipazione è invece costituita dalle pagine che verranno poi inserite da Banti nel capitolo Matilde Serao al suo tavolo di lavoro ed ha come oggetto quello che la scrittrice considera uno dei più riusciti romanzi di Serao, nonché, a suo parere, l’ultimo tra quelli degni di nota, prima che la produzione della scrittrice vada declinando: Suor Giovanna della Croce.

Prima di vedere le due anticipazioni nel dettaglio, è bene tuttavia fare una puntualizzazione. Va infatti ricordato che, benché tra gli scritti a sfondo biografico realizzati dalla scrittrice quello dedicato a Serao sia la «prova biografica più impegnativa», il concetto stesso di biografia per Banti necessita di essere problematizzato. A questo proposito cito le parole di Rita Guerricchio:

Per mole e sede editoriale […], nonché accorto dosaggio di documentazione e aneddotica, risulta, anche la più osservante dei topoi del genere biografico. […] Eppure, definire biografia quest’opera della Banti sarebbe riduttivo (o viceversa) per

un’omogeneità di tono narrativo che agglutina in sé ogni possibile divergenza (la storia ufficiale, le fonti), risucchiandola nell’orbita chiusa del continuo confronto tra narratore e personaggio.51

Della riflessione di Guerricchio condivido che le modalità con cui Banti racconta la biografia di questa personalità letteraria sono di certo qualcosa di ben distante da una descrizione oggettiva del percorso biografico dell’autrice napoletana, tuttavia bisogna tener presente che è proprio dello stile di Banti procedere servendosi di un’andatura mossa, quasi narrativa. A mio avviso, non si può pertanto parlare di una biografia oggettiva, ma nemmeno di invenzione. Per quanto mi riguarda, ritengo che il termine più adatto per definire l’opera della nostra autrice sia quello di “esame critico”, nel senso che, pur non inventando, la scrittrice non manca di manifestare i propri giudizi e di “costruire” il proprio testo, assecondando una propria specifica ottica, che non paventa mai di far passare per imparziale.

4.3.1 La Serao a Roma (1882-1884)

Nella prima delle due anticipazioni, Banti sceglie di pubblicare un estratto di circa venti pagine in cui racconta gli esordi della parabola culturale di Serao, l’esperienza romana. Come già aveva fatto nel pezzo pubblicato su «Oggi», ricorda la collaborazione con il «Capitan Fracassa», per il quale Serao era stata la prima donna a svolgere il ruolo di «redattrice fissa». Scrive infatti:

Al Fracassa la giovane scrittrice collaborava fin dal 1880, anno della sua fondazione, mandando da Napoli articoli, per lo più di varietà. Ma ora, redattrice fissa, - una situazione eccezionale per una donna, in quegli anni – […] scriveva di tutto: dalla critica letteraria all’articolo di costume.52

Un ruolo nuovo, quindi, quello aperto da Serao, nella cui linea si iscrive anche Banti: quello dell’opinionista, capace di spaziare dall’articolo di critica letteraria a quello di costume, dimostrando di essere una presenza critica attenta nel panorama socioculturale. Rosetta Loy scrive che «Banti ha visto riflesso nella Serao quello che è stato il nodo della sua vita […] la letteratura e il giornalismo».53 Considerazione, quest’ultima, che ritengo pienamente condivisibile, in quanto tale legame certamente

51 Rita Guerricchio, Vite vere e immaginarie di Anna Banti, cit., p. 83.

52 Anna Banti, La Serao a Roma (1882-84), cit., p. 41.

non è stato ininfluente nella scelta della biografia da trattare, e non è pertanto sbagliato vedere nell’interesse verso Serao la consapevolezza dell’autrice di tracciare una certa linea di continuità biografico-professionale.

Anche Enza Biagini, nel suo saggio dedicato ai contributi giornalistici di Anna Banti, non manca di notare questo interessante collegamento:

[…] Anna Banti al mondo dei giornali si è mescolata anche attraverso la mediazione di una biografia dedicata appunto ad una delle prime donne scrittrici e giornaliste. Certamente, nelle pagine di quel libro scritto per la Serao non si trova, se non in modo abbozzato e quasi avanti lettera […], l’universo di quel giornalismo inteso propriamente come manifestazione di politica e cultura di genere nella stampa femminile […]. Ma, in via preliminare direi che è la stessa modalità della scrittura giornalistica di Anna Banti ad essere caratterizzata dall’impronta eterogenea («dalla critica letteraria all’articolo di costume») segnalata nel ritratto di Matilde.54

Mi sembra quindi corretto evidenziare una certa linea di continuità tra le due scrittrici, piuttosto che una nota critica da parte di Banti nei confronti della produzione giornalistica di Serao, come hanno invece interpretato, a mio avviso discutibilmente, i primi recensori del volume.55

Un altro degli elementi su cui la lettura bantiana insiste anche nella biografia, come si può notare già da quest’anticipazione, è la capacità di acuta osservatrice della scrittrice napoletana, fatto che, tra l’altro, conferma le preferenze della nostra autrice per il primo periodo di produzione letteraria di Serao:

Osservare, accumulare figure, ambienti, fatti, gesti, parole, per servirsene a tempo e luogo, rimane il suo vero scopo, il suo quotidiano nutrimento.56

A tal proposito, desidero ricordare quanto Banti stessa scrive nella prefazione al volume Matilde Serao, ribaltando con un gioco di parole la definizione data da Croce:

La definizione che dei moventi della sua narrativa dette Benedetto Croce («una osservazione mossa da sentimento») si poteva – mi parve rovesciare così: «un sentimento mosso dall’osservazione».57

54 Enza Biagini, Con sguardo di donna: i “racconti di costume” di Anna Banti, in Donne e

giornalismo, a cura di Silvia Franchini e Simonetta Soldani, FrancoAngeli, Milano, 2004, pp.

276-277.

55 Cfr. Franco Antonicelli, La vita della Serao, «La Stampa», 6 aprile 1965; Sandro De Feo, Si è

salvata malgrado lo Scarfoglio, «L’Espresso», 16 maggio 1965, p. 26 e Lanfranco Caretti, Ritorno di Matilde Serao, cit.

Inoltre, parlando di quella che considera la migliore narrativa di Serao, questo giudizio critico esprime riflessioni molto simili a quelle già espresse in Matilde non sa scrivere:

[…] si trattava adesso, di far meglio, di buttarsi nel mare largo di un realismo puntuale, ma non brutale, di creare caratteri verosimili, minuziosamente indagati e condotti allo scontro drammatico.58

Riferendo, ad esempio, le ragioni che hanno portato al successo uno dei primi romanzi di Serao, Fantasia, Banti segnala un’«obbiettività tutta sua», «quasi più figurativa che letteraria» e la capacità dell’opera di «sottrarsi alla tentazione della scena a grande effetto».59 Il che conferma come l’autrice apprezzi tale produzione narrativa proprio per il fatto che le passioni vengono lasciate agire sulla scena, senza cadere in sentimenti artificiosamente ostentati o in uno stile eccessivamente cesellato. Per dirla con le parole di Manzoni, di cui in altre occasioni si è servita, la scrittrice stima le «passioni che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita».60 Infatti, sebbene l’articolo in questione sia tratto dall’inizio della biografia di Serao, è già in luce il caustico giudizio di Banti sull’evoluzione di tale produzione letteraria, a proposito della quale ritiene che Serao si sia lasciata corrompere da un eccessivo dannunzianesimo, isterilendo così la propria vena letteraria.

Partendo da tali considerazioni, possiamo affermare che Banti riconosce come pregi proprio quegli elementi che avevano portato i contemporanei a giudicare negativamente lo stile di Matilde e a dire che scriveva male. Oltre al realismo, della scrittrice napoletana, la nostra autrice loda difatti anche un altro elemento che in pochi avevano apprezzato: l’espressività del suo stile. Secondo tale giudizio critico, è proprio la capacità di trasmettere vitalità il pregio ed il valore aggiunto di questa prosa sovrabbondante e immaginosa.

Il miglior pregio della sua prosa alquanto arruffona ed enfatica ma guizzante, a tratti, di umori elementari, è la vitalità, una gioiosa affermazione in cui si sciolgono ignoranza, presunzione risicata e un sorriso quasi umile.61

57 Anna Banti, Avvertenza a Matilde Serao, cit., p. X.

58 Anna Banti, La Serao a Roma (1882-84), cit., pp. 46-47.

59 Ivi, p. 48.  

60 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 52. Cfr. anche cap. 3.1.1.

Banti riconosce dunque di trovarsi di fronte ad una personalità vitale e intelligente, fa però anche una precisazione. La scrittrice ricorda come Matilde fosse consapevole dell’inusualità del proprio status, sottolineando l’intesa che Serao aveva con gli uomini e spiegando come li sentisse «più delle donne, vicini a lei, al suo modo di vivere».62 Da quest’ultimo aspetto però, sembra voler prendere le distanze e la ragione la si potrebbe ricercare nel fatto che, più che la possibilità di assimilarsi ad un uomo, vede, nella letteratura e nella stampa, l’opportunità di veicolare la cultura da una propria ottica, sessualmente connotata, idea che invece manca a Serao.

Altri due aspetti su cui riflette la scrittrice mi sembrano poi degni di considerazione: il fatto che ritenga importante riferire come già Serao fosse conscia dell’importanza di un cammino costruito in parallelo tra critica e narrativa e il fatto che insista sul rapporto Serao-Scarfoglio. Se, per il primo elemento, abbiamo già avuto modo di vedere quanto Banti stimasse importante educare la critica e coltivare un rapporto con essa, per quanto concerne il secondo aspetto, si può invece dire che il legame tra i due non è certo un elemento secondario. Lo evidenzia bene anche Rosetta Loy, che scrive come il testo sia più propriamente la «biografia della coppia Serao- Scarfoglio»; Loy ritiene inoltre che in questa relazione si possa scorgere riflesso il rapporto Banti-Longhi.63 E, certamente, si può pensare che la nostra autrice abbia potuto riconoscere in quella coppia lo stesso sottile discrimine tra rapporto professionale e affettivo, che poteva ravvisare nella sua personale esperienza. L’accento posto sulla figura di Scarfoglio viene, tra l’altro, rilevato anche dai critici che per primi recensiscono il volume di Banti. Queste le parole di «Paese Sera-Libri»:

Quello che è poi nel saggio il pepe di Cajenna o, per restare nell’ambiente, u diavolillo, è il disprezzo della Banti per quel farso idolo che fu Edoardo Scarfoglio. È godibilissimo come se lo passa al setaccio, uomo, parodista del «Risaotto al pomidauro», polemista retrivo, giornalista che non comprende i grandi fatti sociali, colonialista, guerrafondaio a senso unico […], francofobo per complesso di inferiorità. Il ritratto, anche questo da ricomporre come dalle pagine di un romanzo, sta fra due deliziosi documenti: la descrizione fatta da D’Annunzio dell’appartamento dei nuovi sposi Scarfoglio […] e la stroncatura che Luigi Lodi fece del «Libro di don Chisciotte».64

62 Ivi, p. 46.

63 Cfr. Rosetta Loy, Anna Banti e Matilde Serao, cit., pp. 107-109.

Una personalità, quella di Scarfoglio, sicuramente presente all’interno di questo testo, così come lo era stata nella vita di Serao. Risulta una figura composita e capace di tenere assieme luci e ombre, in parte stimolo produttivo, in parte limite ingombrante, elemento che, a mio avviso, rende ancora più calzante l’analogia con Longhi.

A conclusione di questa breve riflessione, ritengo infine necessario fare una considerazione anche di carattere stilistico. Si è detto più volte che lo stile, negli articoli di Banti, è narrativo; tale assunto è certamente valido per gli interventi in rivista, ma lo è pure in questo caso, in cui la nostra autrice si trova alle prese con una trattazione critica di ampio respiro, qual è questa biografia. Il tono adoperato non è infatti mai piattamente informativo, bensì, quando parla degli artisti di cui si occupa, la scrittrice sembra quasi dialogare amabilmente con il lettore. Si vedano, come esempio, le parole scritte a proposito del rapporto di Serao con il padre:

Ecco spiegato, una volta per sempre, lo scarso rilievo che don Ciccio ebbe nella vita della figlia: un uomo capace di rinserirsi nella società del suo paese, un fallito che va facilmente in collera, ma chi aveva tempo e voglia di ridargli fiducia? Non certo Matilde.65

In questo estratto, si possono chiaramente notare almeno tre elementi in grado di confermare il tono interlocutorio dell’intervento, di cui si è detto sopra: la scelta di un lessico tutt’altro che neutro – si vedano il sostantivo «fallito» e l’uso dell’espressione idiomatica «avere tempo e voglia» – , l’utilizzo enfatico degli avverbi «ecco», «certo» e «facilmente» e la presenza dell’interrogativa diretta.

4.3.2 Matilde Serao

La seconda anticipazione, pubblicata da Banti sulle pagine de «La Fiera letteraria», è invece incentrata su quel romanzo, Suor Giovanna della Croce, che la scrittrice considera uno dei più riusciti di Serao, nonché l’ultimo degno di nota.

Innanzitutto, credo che non sia casuale che a colpirla sia il personaggio di una monaca. Abbiamo infatti già avuto modo di vedere la fascinazione che ha su Banti la monaca di Monza: all’autrice piacciono i personaggi tutt’altro che monocordi, quelli dove il rapporto con il mondo genera lacerazione o quanto meno conflittualità, e, nel mondo

delle internate, la scrittrice sembra trovare una figurazione particolarmente adatta a rappresentare questi drammi.

D’altronde, la conferma che il confronto con la Gertrude manzoniana non è da considerarsi straniante ce la dà proprio lei, all’interno di questa sua anticipazione, dove cita, affiancandola per antitesi a suor Giovanna, la monaca dei Promessi. Per entrambi i personaggi la clausura è una scelta forzata: imposta dal padre a Gertrude, dettata dal tradimento della sorella, che le porta via il fidanzato, in suor Giovanna. Come nota Banti però, mentre la Gertrude manzoniana non si è pacificata con se stessa nel convento, il personaggio di Serao è soddisfatto della vita che ha trovato tra le mura claustrali ed è il ritorno nel mondo, ormai vecchia, che ne determina lo spaesamento. Secondariamente, la nostra autrice, coerente con se stessa e con le idee già espresse, apprezza che dall’ingiunzione della chiusura dei conventi di clausura, evento storico a cui Serao s’ispira per il romanzo, fosse emerso non tanto un romanzo lacrimevole d’impronta romantica, ma un romanzo realista, in cui si colgono bene le problematiche sociali e in cui il gusto del feullieton è del tutto assente. Scrive infatti:

In Suor Giovanna, nessuna compiacenza per la consumatrici di feullietons, la Serao le condannava a toccar con mano, insieme alla decadenza fisica di una vecchia monaca, la fine squallida di un sentimento amoroso, i suoi compromessi, i suoi egoismi, il suo destino transitorio.66

Oltre alle doti di realista di Serao, la nostra scrittrice apprezza dunque anche la resa delle passioni. E individua che, a differenza di quanto accade nel Paese di Cuccagna – che pure è uno dei romanzi che apprezza di più – in cui non mancavano comunque «episodi romantici e passionali», in Suor Giovanna della Croce il sentimento è una passione riflessiva. È questo aspetto meditativo che Banti coglie molto chiaramente e che più di tutto apprezza, tant’è che insiste su alcuni frangenti tratteggiati alla Čechov, scrivendo:

Nessun colore, nel mondo ritrovato da Luisa Bevilacqua; neppure il nero sempre più sbiadito delle sue vesti ridotte. Immersa in questo clima desolato, riuscì alla Serao di raggiungere due punti di alta intuizione morale, non inferiori a certi passaggi di Cecov. Alludiamo al tocco leggerissimo con cui accenna alla inconsapevole tenerezza materna che la Suora prova per il nipote, tutto simile al padre, cioè all’antico fidanzato traditore, e al colpo davvero maestro che ce la mostra nell’atto

di sedere nell’angolo più quieto della sua camera, di fronte ad una casa silenziosa in cui le pare di ravvisare l’austero raccoglimento claustrale; e si tratta di una casa di tolleranza.67

La citazione consente di richiamare due delle considerazioni importanti fatte sinora: dimostra, ancora una volta, che Banti di Serao apprezza il realismo, che ritiene la forma di espressione più alta del romanzo, e, in secondo luogo, conferma la predilezione della nostra autrice per i personaggi femminili dalla vita difficile. Dato, quest’ultimo, che ribadisce «il suo essere comunque dalla parte delle donne, magari con rabbia, per un insopprimibile desiderio di giustizia e verità».68 A tal proposito, si vede nell’estratto riportato che Banti giudica dei vertici irraggiungibili le pagine in cui Serao tratteggia l’istinto materno di suor Giovanna verso il figlio dell’innamorato traditore e la scena in cui la suora confonde l’abitazione che vede dalla finestra con un monastero, quando in realtà si tratta di una casa di tolleranza. Quest’ultimo passo in particolare colpisce molto la sensibilità di Banti, che vi scorge un accostamento tra due universi di reclusione, il mondo claustrale e quello rappresentato dalla casa di tolleranza, che, da sempre, considera particolarmente rappresentativi del rapporto conflittuale che intercorre tra le donne e la società. Lei stessa esplicita infatti il proprio punto di vista:

Tale, il primo accenno di accostamento fra due reclusioni: un tema – e sia detto a suo merito – che accorava molto la Serao e che la colloca quasi al di sopra del suo tempo e del suo ristretto ambiente.69

In questo, che ritiene l’ultimo degno di nota fra i romanzi di Serao, la scrittrice coglie il compimento di processi iniziati con i romanzi precedenti. Giudica infatti che la coralità del Paese di Cuccagna si evolva nelle vicissitudini di un’unica protagonista, «senza coro», e che la raffigurazione della città partenopea, già abbozzata nel Ventre di Napoli, trovi compimento – in particolare nel capitolo finale – nei termini di «cronaca impassibile e lamento represso, pittura a larghe pennellate e fotografia».70 Inoltre, in linea con queste ultime riflessioni, la nostra autrice iscrive la produzione di Serao nel campo della «letteratura di denunzia», asserendo:

67 Ibidem.

68 Rosetta Loy, Anna Banti e Matilde Serao, cit., p. 108.  

69 Anna Banti, Matilde Serao, in «La Fiera letteraria», cit., p. 7.

Affrontando il soggetto che si era proposta essa mirava, consciamente o no, a una – come oggi si direbbe – letteratura di denunzia. Accuse alla crudeltà del Governo verso le monache sfrattate; proteste contro la reclusione dei conventi e delle case chiuse; orrore per le innumerevoli ingiustizie sociali del suo tempo e del suo paese.71 Infine, non manca nemmeno in quest’occasione una considerazione sulla lingua di Serao. La nostra autrice nota infatti che quelle della scrittrice napoletana sono parole che fluiscono sulla pagina in abbondanza, quasi a cascata, ma puntualizza anche che è proprio attraverso questo torrenziale fluire di vocaboli, che Serao scolpisce e modella la sua pagina:

[…] il clima è ugualmente intenso, anche se la lingua è sdotta, strapazzata. Si direbbe che le tante cose da nominare, da segnalare, mozzino il respiro alla scrittrice e la incalzino con una fretta che non le lascia il tempo di scegliere le parole che scorron via, in serie, ogni tanto interrotte da una spezzatura sintattica.72

Banti sottolinea dunque la capacità di Serao di ottenere, mediante la ricchezza del tessuto linguistico, una notevole penetrazione interpretativa. Degna di nota si conferma peraltro l’espressività della scrittura bantiana: belle sono ad esempio le espressioni «sdotta» e «strapazzata».

71 Ibidem.