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7. Il nuovo realismo

7.1   L’ultimo  libro  di  Cesare  Pavese

Il primo degli articoli scelti è dedicato a Cesare Pavese che, come abbiamo già avuto modo di evidenziare quando abbiamo analizzato l’articolo Critica e Letteratura25, Banti considera uno dei primi a misurarsi con queste nuove forme di realismo. Nel corso di tale articolo, che cronologicamente segue quello qui esaminato, la scrittrice arriva ad esprimere compiutamente il proprio pensiero su Pavese e scrive infatti:

[…] Vittorini e, più tardi, e più pensosamente, Pavese, sono i responsabili di queste innovazioni. Fu soprattutto ad opera di quest’ultimo che il realismo americano «cantabile», alla Saroyan, di Vittorini si trasformò faticosamente, prese quota, si naturalizzò nei nostri modi e traversò l’ultima guerra per presentarsi nel ’45, come la novità assoluta e, in un certo senso, il riscatto della letteratura nazionale. Pavese aveva i suoi limiti, le sue cadute, e risulta sempre più chiaramente che il suo accento più personale, quello che insomma di lui rimane, non coincide coi suoi programmi o colla sua stessa concezione dei compiti e dei fini della narrativa; ma la sua lezione di lavoro, di dura ricerca assidua e tormentosa verso un rinnovamento del contenuto, della forma, e soprattutto della lingua, resta e crediamo resterà a lungo di un’importanza massiccia per i narratori che si affacciarono all’arte dopo il 1945 e per i giovanissimi d’oggi.26

Come ben si vede dalla citazione, due sono i grandi meriti che Banti ascrive a questo scrittore: quello di aver contribuito a sviluppare, in Italia, un nuovo genere di realismo, che risente dell’influenza dei modelli americani, e quello di aver promosso un rinnovamento stilistico e linguistico notevole, capace di “far scuola” agli scrittori che sarebbero venuti dopo.

Questa, dunque, la riflessione portata a termine da Banti nel 1955, quando ormai la parabola di Pavese si era, purtroppo, tristemente conclusa. Come si vede, delle due componenti oggi ascritte alla poetica di Pavese, quella realista e quella simbolista, la nostra autrice coglie senz’altro la prima, anzi quasi unicamente quest’ultima. E la ragione, a questo punto del nostro esame critico, la possiamo individuare nella particolare propensione di Banti per questa tipologia romanzesca, che è tanto quella che lei adotta nei propri romanzi, quanto quella che tende maggiormente ad apprezzare in tutti i suoi interventi di critica letteraria.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

24 L’articolo viene pubblicato su «Nuovo Raccoglitore», a. I, n. 26, inserto di «Gazzetta di Parma», 28 dicembre 1983.

25 Cfr. cap. 2.4.

Nel 1949, quando recensisce l’allora appena uscito Prima che il gallo canti, Banti non poteva ancora sapere che quella con cui andava confrontandosi sarebbe stata una delle ultime opere scritte dall’autore, tuttavia il suo pensiero critico appare già ben definito e non distante dalle considerazioni più tarde, di cui si è appena dato conto. Anche qui l’autrice apre l’articolo marcando lo stesso focus: lo sviluppo di un nuovo modus scrivendi, che, nato tra il 1935 e il 1940, in un momento in cui in Italia – e Banti lo aveva già rilevato altre volte – erano presenti anche soluzioni letterarie di tutt’altro respiro (ad esempio quella praticata dall’Ermetismo), va poi assumendo una fisionomia più definita negli anni a seguire.

Banti definisce i modi di questo nuovo realismo una scrittura «che per voler essere feriale, giornaliera, parve ostinarsi a compitare faticosamente un linguaggio rotto scavezzato», che in realtà «con quello dei discorsi quotidiani e di ognuno non aveva niente a vedere».27 L’autrice suggerisce quindi che si possa parlare di un «linguaggio a chiave», elemento che, a mio parere, si può ritenere un rilevamento anche dell’altra componente ascritta a questo genere letterario, quella simbolica, a cui si è detto che Banti non dà largo spazio, ma che, come si vede qui, non è nemmeno totalmente obliata. Sempre nella definizione dei caratteri generali di questo “nuovo realismo”, ancor prima di arrivare a focalizzare i propri pensieri su Pavese – di cui dirà che «“americano” s’era dichiarato davvero» – la scrittrice evoca quale modello sotteso a questo tipo di linguaggio l’espressività dello slang americano. Scrive Banti:

Agivano insomma gli esempi degli attacchi e degli stacchi, del “friggi il pesce e guarda il gatto” di Hemingway, di Caldwell, di Cain; e agivano un po’ brutalmente. Non c’è da deplorare né da entusiasmarsi troppo nel paese delle lettere, ma solo da stare attenti.28

Qui Banti evidenzia il legame con la letteratura americana, con il suo usuale tono colloquiale, mentre assume un piglio più serio nella seconda parte della citazione, quando cioè esprime un concetto che risulta per noi importante per comprendere la sua prospettiva di critico. Si tratta di una lezione di metodo: secondo Banti la chiave per poter “agire” nel paese delle lettere non è né quella di «deplorare», né di «entusiasmarsi», bensì valore indiscutibile per essere un buon critico è l’attenzione, che                                                                                                                

27 Ivi, p. 132.

tradotto in termini più specifici significa possedere una capacità valutativa critica ed obiettiva. Da tali considerazioni appare chiaro che la scrittrice polemizza con la critica coeva, d’altro canto però è manifesto, non solo a Banti, bensì a chiunque, che un linguaggio come questo, «fra la bestemmia e la sentenza biblica», era un risultato difficile da apprezzarsi, almeno nell’immediato, da parte della critica tradizionalista. Fatte queste valutazioni di carattere generale, alla scrittrice risulta certamente agevole ricollegarsi a Pavese, che di questo nuovo genere è stato, insieme a Vittorini, l’iniziatore. Il quadro in cui Banti colloca l’autore piemontese risulta peraltro confermato anche grazie ad un raffronto con un successivo articolo del 1956, in cui, confrontando le nuove prove narrative della collana «I Gettoni» con gli iniziatori del genere – il riferimento, per quanto non esplicitato, è proprio a Pavese – Banti specifica che per costoro «il realismo, non ancora “neorealismo”, era sollecitato dagli esempi americani ad una immediatezza espressiva che all’irruenza univa un ritmo lirico, leggermente cantato».29

Dopo aver fornito le coordinate generali, che permettono di inquadrare la produzione narrativa dell’autore, come abbiamo già riconosciuto usuale del procedere bantiano, la scrittrice richiama brevemente la precedente produzione di Pavese, a partire dalla raccolta poetica del 1936, Lavorare stanca, e dal romanzo Paesi tuoi, che aveva fatto sì che sin da subito l’autore fosse considerato un promettente scrittore neorealista. Banti tuttavia puntualizza la propria posizione in merito, ribadendo quanto si è detto sinora, ovvero che in uno scrittore come Pavese vede operare più le istanze realiste, di quelle neorealiste. A proposito di Paesi tuoi scrive infatti:

Pure, a rileggere dopo otto anni questo racconto, ci sembra oggi che nello scrittore avessero operato soprattutto il vecchio e sanguigno naturalismo zoliano e quel tanto di cadenza dialettale alla Verga in cui tutti i realisti italiani cascano e cascheranno: se questo si chiama cascare.30

È dunque ben evidente la sottolineatura dell’aspetto realista di Pavese, che Banti riconosce tanto nella resa linguistica «alla Verga», quanto nell’adozione di quelle stesse modalità del racconto naturalista, che definisce «vecchie e sanguigne», confermando

                                                                                                               

29 Anna Banti, Nostalgie dell’undecimo anno, «Paragone Letteratura», a. VII, n. 78, giugno 1956, p. 67.

così che la scrittura dell’autore piemontese le appare di un’autenticità per la quale la definizione neorealista risultava limitata.

In seguito, Banti ricorda La spiaggia e Il compagno. Nel commentare questi due romanzi la scrittrice, seppur mai pesante e certamente concisa, come richiede la brevità dell’articolo, si rivela molto precisa. Se per il primo parla di un «racconto borghese», di cui sottolinea però il valore aggiunto dato dal «carattere dichiaratamente sentimentale», più interessante è la valutazione del secondo testo, uno dei pochi romanzi pavesiani per cui Banti adopera la definizione di neorealista: dice infatti che proprio su di esso «si doveva fare il punto, fino a pochi mesi fa, per rendersi conto degli ultimi sviluppi del neorealismo pavesiano».31 In quest’ultimo caso, la valutazione critica è interessata non tanto al contenuto, l’autrice definisce infatti l’opera «quasi un romanzo di propaganda», quanto piuttosto allo stile, che secondo Banti prelude ai migliori risultati di Pavese:

Scomparsi o quasi la vena turgida, il sangue grosso del vecchio naturalismo. Scomparsa l’eco della cadenza verghiana. Il linguaggio fu denudato, frantumato in proposizioni scheletriche, componeva una nuova retorica, persino una nuova enfasi, ossessionata dalla paura di «far bello». Naturalmente il «bello» veniva fuori lo stesso, a tempo e a luogo, perché nessuno scrittore autentico può rinunziare alla sua poesia. Ma il Pavese «americano» s’era dichiarato davvero; […] i segmenti di un periodare agitato e naturale si spezzavano e pungevano come vetro. Gratuito, certo franare ed incepparsi dell’espressione; un affanno nel discorso, un tempo tagliato inopportuno nelle voci delle ore più commosse. E poi quell’eterno alludere, smozzicato e dinoccolato, che da noi nessuno usa.32

La citazione merita di essere attraversata con attenzione, sin dal punto di vista stilistico: infatti, quel medesimo stile «frantumato», che Banti ascrive a Pavese, lei stessa lo usa qui, servendosi di un periodare breve e di una paratassi insistita, che sembra quasi volere mettere in figura ciò di cui lei stessa sta parlando.

Per quanto concerne invece i contenuti, la componente linguistica si conferma un elemento che sta particolarmente a cuore alla scrittrice. Questo stile «smozzicato» porta, secondo Banti, ad un allontanamento dai modi verghiani e dal temperamento zoliano del primo romanzo: viene difatti sottolineato l’utilizzo di un’«enfasi» e una «retorica» scabre, che mira consapevolmente a creare una sintassi ostica ma, proprio per questo, fortemente espressiva. Tutti questi sono caratteri che possono essere ricondotti al                                                                                                                

31 Ibidem.  

«Pavese “americano”» ed hanno, secondo quest’analisi, il merito di creare un’atmosfera allusiva, che, presente nei modelli americani, è invece assente in quelli del realismo italiano ottocentesco. Si tratta di un’atmosfera che rimanda ad una realtà segreta, appena intuibile attraverso la chiave del simbolo.

Dall’estratto citato si può infine rilevare anche un altro elemento: si tratta dell’appellativo di «scrittore autentico» attribuito da Banti a Pavese. Questa definizione, che ricorda quella di «scrittore assoluto» adoperata per Calvino33, specifica una convinzione bantiana che abbiamo già avuto modo di evidenziare, ovvero il fatto che per la scrittrice non è la scelta di una corrente letteraria che fa grande uno scrittore, bensì sono le doti possedute da uno scrittore del respiro di Pavese, che gli consentono di riuscire indipendentemente dalla soluzione letteraria adottata, proprio perché grande scrittore.

Sulla «paura di “far bello”» di cui Banti parla per Il compagno, la scrittrice ritorna anche poco dopo, a proposito dell’opera che sta recensendo. Dopo aver attraversato brevemente le precedenti realizzazioni di Pavese, la nostra autrice arriva infatti a Prima che il gallo canti, di cui analizza uno per volta i due testi che la compongono: Il carcere e La casa in collina. A proposito del Carcere, sottolinea che la «paura di “far bello” qui è solo pudore di chi teme l’eco della parola forte e la smorza con un gesto della mano».34 Parla difatti di «schiettezza umana e concisione poetica», due attribuzioni da cui emerge che ciò che ha colpito questo pensiero critico è l’accostamento di una materia e di un linguaggio così apparentemente prosastici e, in realtà, molto poetici, con una singolare capacità di trasmettere significati umani profondi.

D’altro canto, rispetto al Compagno, Banti riscontra l’autore «illimpidito», ovvero meno volutamente aspro, rileva che egli si muove secondo modalità che «rompono l’uso», ma che non arrivano ad «irritare la collaborazione del lettore».35 A partire da tale osservazione, l’autrice riflette sulla data posta a conclusione del racconto, che altri esponenti della critica avevano rifiutato di prendere in considerazione come elemento d’analisi dirimente. Banti, al contrario, considera tale datazione un aspetto importante e, per mezzo di questo elemento, ribalta il modo in cui sino ad allora aveva valutato il procedimento artistico pavesiano. Dal momento che nel Carcere si possono notare                                                                                                                

33 Cfr. cap. 6.3.

34 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 134.

ancora una struttura ed una lingua legate alla tradizione, il romanzo sarebbe, secondo questo punto di vista, l’ultimo atto di una precisa fase della produzione letteraria dell’autore, che poi avrebbe deciso di percorrere strade diverse, indirizzate cioè ad un pubblico «più vero, se non più vasto». Ecco le parole della scrittrice:

[…] tutta la posizione di Pavese va riveduta. Raggiunta nel ’38 una sua misura esemplare, è chiaro che egli sentì il bisogno di staccarsene e di mettersi ai rudimenti di una espressione che lo avvicinasse ad un pubblico vero, se non più vasto.36

Da tale interesse stilistico deriva la constatazione da parte dell’autrice del fatto che in Pavese il binomio contenutistico-linguistico è molto evidente: rileva difatti che ad un «esame filologico» diverrebbe evidente che «i passi più “americani” coincidono con quelli più a “fronte popolare”».37 Tale riflessione indica che la scrittrice ritiene Pavese capace di servirsi di modalità espressive consone al contenuto che vuole esprimere; trova infatti che egli adoperi una lingua che risente di modi espressivi popolari – dove chiaramente si coglie l’influenza del modello americano – proprio in quei passi in cui manifesta un pensiero che è “popolare”. Questo non significa però che ritenga questi passi meno riusciti, al contrario sono proprio quelli che le sembrano maggiormente poetici.

A questo punto, tornando all’andamento complessivo secondo cui Banti inquadra la produzione di Pavese, mi sembra che si possa dire che l’autrice evidenzia, a partire dalla data posta in calce al Carcere, il 1938, un procedimento dialettico, riconoscibile proprio attraverso l’analisi stilistica. Riporto le parole di Banti che sono in tal senso molto esplicative:

Quel che importa rilevare è che il cristallino poeta della caccia all’alba, in Carcere, ritorna lentamente a meditare sui suoi passi, forse (glielo auguriamo) arricchito dagli esperimenti in cui si è cimentato finora.38

Se Il carcere è quindi considerato l’ultimo romanzo «cristallino», prima che Pavese prenda definitivamente le distanze dalla tradizione, in Paesi tuoi e, ancora più nettamente, nel Compagno; La casa in collina risulta, secondo questa lettura, una sorta di riavvicinamento dialettico. Appare cioè un romanzo condotto attraverso una modalità                                                                                                                

36  Ibidem.  

37 Ibidem.

di scrittura meno “sperimentale”, a cui si abbina anche la scelta di un contenuto meno esplicitamente popolare; Banti dice infatti che i protagonisti si «muovono e si esprimono con un’immediatezza tranquilla».39 Dalle parole della scrittrice, che indica che la scelta di pubblicare assieme i due testi è «non senza intenzione», mi sembra pertanto di poter cogliere l’idea che nella pubblicazione di Pavese vi sia la volontà di mettere in collegamento le due estremità di un percorso intellettuale e umano.

A tal proposito, Banti non manca di rilevare che il protagonista della Casa in collina è un intellettuale, non un bracciante o un operaio. E alla figura dell’intellettuale, che qui è il protagonista dell’opera, la scrittrice dedica infatti una specifica riflessione, che non è da sottovalutarsi, in quanto, oltre allo specifico caso della recensione in esame, la questione del ruolo dell’«intellettuale di sinistra» era in quegli anni una tematica molto frequentata, oltre che una riflessione sentita nel dibattito coevo. Scrive difatti Banti:

La casa in collina è, né più né meno, il processo ad un intellettuale di sinistra, nato proletario, ma fatalmente portato a discriminare, a scrutarsi e dunque ad aver più paura e meno crudeltà di un compagno che non sia stato molto a scuola.40

L’intellettuale è dunque una figura che ha un’umanità diversa dagli altri protagonisti, in quanto ha degli strumenti grazie ai quali affrontare il mondo; una riflessione, quest’ultima, che sembra essere, oltre che capita, anche apprezzata dalla scrittrice. Egli sa difatti «discriminare», al di fuori, e «scrutarsi», fare cioè un esame di coscienza dentro di sé, per quanto questo non sempre conduca ad un esito chiaro e pacificato. E la scrittrice, con davvero pochissime parole, riesce a mettere in evidenza il valore aggiunto di questa figura, tornando su questo concetto anche nel finale del proprio intervento:

Ma soprattutto c’è da rallegrarsi che il bellissimo ritorno di Corrado alle colline delle Langhe (con l’ineffabile sapore di un’attuale fuga di Renzo) rappresenti il coraggioso abbandono di ogni partito preso, a favore degli interessi umanissimi della letteratura e della poesia: per uno scrittore, la forma più meritoria dell’altruismo.41

Banti sembra qui indicare un’elezione della letteratura a valore supremo, ovvero le riconosce di essere «la forma più meritoria dell’altruismo» dell’uomo, in quanto rappresenta la condivisione delle proprie riflessioni con altri esseri dalle vicissitudini                                                                                                                

39 Ibidem.

40 Ivi, p. 134.

similari. Come si è visto nel corso dell’analisi di quest’intervento, questo senso di umanità la scrittrice non manca mai di riconoscerlo in tutta la produzione di Pavese, ma qui le risulta particolarmente evidente.

Infine, interessante risulta il richiamo a Manzoni per l’episodio del «ritorno» di Corrado: quella del “ritorno” è una figurazione molto presente in Pavese e qui viene accostata ad un famoso passo manzoniano; il riferimento, benché non sia colto da lei sola, mi sembra incisivo, in quanto, oltre al singolo riferimento testuale, è un’utile conferma del fatto che Banti sempre, quando recensisce un autore che stima, coglie la possibilità di un qualche confronto con il primo romanzo italiano e con il suo autore.