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3. Il romanzo italiano

3.2   Il  “caso”  del  Gattopardo

Come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, Anna Banti ha i suoi modelli, grazie ai quali tenta di individuare un archetipo di romanzo specificatamente italiano. I nomi proposti, oltre a quello di Manzoni, sono quelli di Verga, Nievo e, infine, quello di Tomasi di Lampedusa. Sono costoro l’oggetto di questo intervento, pubblicato nel 1959

69  Ivi, p. 125.

70 Ibidem. Il corsivo è mio.

71 Fausta Garavini, Introduzione, in Anna Banti, Romanzi e racconti, cit., p. XVII.

come editoriale di «Paragone Letteratura», che, prima di soffermarsi sull’ultimo dei narratori qui considerati, riattraversa per rapidi cenni i maestri del romanzo nostrano. L’autrice afferma che un romanzo come quello che si è sviluppato in Francia e in Inghilterra nel corso dell’Ottocento, in Italia è difficile trovarlo, e la ragione la ritrova nella «scarsità di lettori, e cioè di quel medio ceto, ordinariamente colto, atto a gustarlo».73 Banti sostiene infatti che il mercato inglese e francese avesse radici in un terreno sociale dai caratteri decisamente diversi da quello italiano e questo spiegherebbe perché da noi «il romanzo nasce, per così dire, armato; intenzioni, costruzioni, partiture, lingua, vi son lungamente vagliate, studiate»74. Del romanzo italiano infatti scrive:

In altre parole, il romanzo italiano, quando è degno di vivere, mostra di preferire il grande panorama sociale al romanzo singolo, l’affresco al quadro di piccole proporzioni, i problemi di classe a quelli puramente psicologici.75

Due elementi sono qui da sottolineare: il fatto che l’autrice colga il valore del romanzo italiano come romanzo impegnato, di grande respiro, riferendosi qui ai grandi romanzi storici della nostra tradizione e al realismo verghiano, e, d’altro canto, il fatto che il quadro tracciato da Banti escluda tutto quel filone di stampo più introspettivo- psicologico, che è l’altro grande ramo della nostra tradizione romanzesca. Quest’ultimo aspetto, a mio avviso, si spiega da un lato in un pregiudizio culturale, che non è solo di Banti, ma che trova riscontro in una congerie culturale che riscopre ben più tardi il valore di questo secondo filone rispetto al precedente, e, dall’altro, in una personale attitudine della scrittrice, che la orienta a preferire le narrazioni di respiro storico-realista.

Vediamo dunque, nel dettaglio, il canone proposto dell’autrice. Manzoni, come si è ampiamente sottolineato, è il suo maestro, e quindi Banti non può non ricordarne anche qui il ruolo di primo e più illustre esponente del romanzo italiano. Di Nievo la scrittrice non si è occupata spesso; infatti, al di fuori di queste poche righe, non sono presenti interventi a lui specificatamente dedicati. Gli attribuisce comunque una nota di valore, nella quale non manca di apprezzare il respiro della sua prosa e di riconoscere il fascino della bella protagonista:

73 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 189.

74 Ivi, p. 190.

Non a caso Le confessioni del Nievo si aggiudica, nella nostra narrativa ottocentesca, il posto di brillante e amabile secondo: fondato com’è sul clima fantastico-storico del microcosmo feudale di Fratta, un clima che si ravvolge per tutto il libro e colora l’incanto della Pisana.76

Verga è anch’esso un modello decisamente presente nella poetica di Banti, al quale la scrittrice si rifà spesso: sia per un fattore linguistico, è quanto abbiamo visto, ad esempio, nell’articolo pubblicato sulle pagine de «L’Approdo letterario»77, sia perché ne ammira le doti di grande realista. Banti non parla infatti tanto di naturalismo, quanto piuttosto di realismo, di cui coglie – precocemente, oserei dire – i toni, mai piattamente modellati sul naturalismo francese, freddamente autoptico, ma dotati di un’attenzione umana decisamente maggiore, enfatizzandola forse anche eccessivamente. Quest’ultimo aspetto è ben sottolineato nell’articolo Neorealismo nel cinema italiano, in cui l’autrice, confrontando l’esperienza cinematografica neorealista con il realismo verghiano, così si esprime sulla poetica di Verga:

[…] la sostanza del nostro realismo non si è mai identificata con un resoconto analitico e freddo, ma è sempre risultata mossa da un lievito di patetica rivendicazione, da un appello in favore del debole e dell’oppresso.78

In un’altra occasione, sempre comparando la produzione cinematografica neorealista con l’opera di Verga, la scrittrice scrive ancora:

Giovanni Verga: realista, non naturalista alla francese. Il naturalismo può finire nelle dissolvenze e nelle assunzioni crepuscolari, il realismo no. Rivoluzionario per definizione, esso può manifestarsi dove meno lo si aspetta.79

Il modello verghiano è quindi ben presente ed assimilato, sebbene non siano presenti, nemmeno in questo caso, interventi critici dedicati unicamente a questo scrittore. Nell’articolo in esame, tuttavia, Banti non manca di considerare entrambi gli aspetti sopra citati, ribadendo il valore di Verga tanto per quanto concerne i contenuti, quanto dal punto di vista della resa formale:

76 Ivi, pp. 190-191.  

77 Cfr. cap. 2.3.

78 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 94. L’articolo appare originariamente in «Paragone Letteratura», a. I, n. 8, agosto 1950, pp. 22-32.

79 Risposta di Anna Banti in Inchiesta sul neorealismo, a cura di Carlo Bo, ERI, Torino, 1951, p. 75.

Quando, sulla fine del secolo, il terzo autentico romanziere italiano, Giovanni Verga, concepisce il ciclo de I Vinti, non si rende forse conto di obbedire, più che allo stimolo del naturalismo francese, al desiderio e quasi alla necessità di rendere, in una larga prospettiva, il pensiero, i modi, la voce della folla del suo paese. Dopo Verga non ci sembra che un vero romanzo italiano sia stato scritto; il che non significa, si capisce, che in Italia non siano stati scritti romanzi, anche ottimi. Ma erano, ormai, di tipo internazionale, anche se, come quelli «neorealisti» del nord o del sud, parlavano di contadini e operai e riferivano le loro azioni e i loro discorsi, all’americana.80 L’ultimo autore chiamato in causa in questa linea specificatamente italiana è Tomasi di Lampedusa, a cui è titolato l’intervento. È legittimo domandarsi per quale motivo Banti elegga proprio Lampedusa a completamento di un così nobile quartetto, tanto più con una precocità sorprendente, dal momento che, essendo il romanzo appena uscito, non poteva certamente conoscere il grande successo che l’opera avrebbe avuto negli anni a venire. A mio parere, la risposta è duplice: in primo luogo le sembra straordinario che, proprio da chi non aveva mai pubblicato nulla, fuoriesca un romanzo di tale calibro, secondariamente, vede nel Gattopardo quell’unicità, che ritiene contraddistingua il “filone italiano” che sta cercando di definire. Scrive infatti l’autrice a proposito di tale carattere di italianità:

Ci riferiamo al tipo dei fatti e al modo di narrarli, al tono distaccato, all’accento «storico» […]. Sicché il Seicento di Manzoni, il Settecento del Nievo, l’Ottocento del Verga e quello del Lampedusa paiono scaturire dalla memoria di un medesimo portentoso vegliardo, troppo saggio per esser severo, troppo sfiduciato per affrontare l’ingiustizia umana con un sentimento più vivo di una fredda costatazione. In lui si configura l’animo dell’eterno italiano.81

Un’immagine quest’ultima che io trovo, oltre che esplicativa, molto evocativa: quattro grandi della nostra tradizione che forgiano, con le loro penne, una sorta di Atlante, dall’animo profondamente italiano. D’altro canto, che Banti voglia iscrivere Il Gattopardo nella linea inaugurata da Manzoni, appare chiaro sin dal momento in cui l’autrice parla, per il protagonista dell’opera, di personaggio dai sentimenti «verosimili». Conoscendo il valore che questa parola ha per la scrittrice, si può infatti comprendere sin da subito il quadro in cui il critico sceglie di collocare l’opera di Lampedusa.

80Anna Banti, Opinioni, cit., p. 191.  

Nell’esaminare l’opera, Banti si muove sempre con una magistrale leggerezza, presentando il proprio acume critico, in modo tutt’altro che banale. Utilizza infatti una leggera ironia, capace di mantenere viva l’attenzione del lettore, senza però per questo scadere di livello. Cito, per esemplificare, un passo dell’articolo, in cui l’autrice polemizza contro i modelli che la critica ha sotteso al romanzo:

Ora se I Viceré richiamano ovviamente, per analogia di soggetto, Il Gattopardo – e figuriamoci se per il colto Lampedusa non era questo un fatto scontato – ognuno si avvede subito che tanto varrebbe appaiare l’Orlando ai Reali di Francia; mentre lo spirto dell’opera di Brancati è quanto di più dissimile si possa immaginare da quello del Nostro, uno spirito tutto intriso e persino intristito dal grottesco amaro della macchietta intellettuale, celebrale. Per quel che riguarda poi le influenze di James e Proust (e perché non di Balzac?) rivelarle è altrettanto vano quanto osservare che il Petrarca funziona ancor oggi sui poeti. 82

Nel passo citato lo stile è interlocutorio e il ritmo incalzante, e non manca nemmeno una certa costruzione retorica, come dimostra, ad esempio, la scelta della paronomasia «tutto intriso e persino intristito».

Dal punto di vista contenutistico, dopo aver decostruito i modelli che la critica contemporanea aveva affiancato all’opera, Banti traccia i propri: si tratta ovviamente di Manzoni e Verga. Le sembra infatti che «il segreto del Gattopardo» stia «nella sua filiazione diretta da loro, nell’affinità spirituale che ad essi lo lega».83 Considera quindi questi narratori, non solamente emblemi del medesimo spirito culturale italiano, ma anche intessuti l’uno dell’altro ed in linea diretta l’uno con l’altro.

Con Verga «scommette» che ci sia una vicinanza «non tanto (come superficialmente parrebbe) per una suggestione del tema, quanto per una sorta di spirito polemico dove magari sobbolle un qualche grumo di orgoglio di casta».84 Dunque, un fil rouge, che si articola però, secondo l’autrice, nei termini di una revisione. Esemplifico:

La grande umana pietà del borghese di Catania per il rustico nuovo ricco, astuto e infaticabile, che consuma la vita e le sudate sostanze a pro della figlia «duchessa», doveva suscitare nel principe di Lampedusa, qualcosa come l’indulgente stizzetta di chi conosce quella realtà in maniera ben più concreta e ascolta il suono di tutt’altra campana. Da Mastro don Gesualdo che muore, solo come un cane, nel palazzo del nobile genero, al Sedara, trattato con ogni riguardo ed anche con una vaga

82 Ivi, p. 193.  

83 Ibidem.

ammirazione dal Salina e dal Falconeri, tutta una revisione è in atto: dove la pietà per i vari Sedara, questi papà Goriot della Sicilia, non ha ragion d’essere. 85

Qui, Banti confronta i due narratori siciliani e individua in Lampedusa dei nodi tematici già presenti in Verga, rivisti però sulla base di prospettive sociali differenti. Secondo l’analisi da lei proposta, se in Verga è possibile evidenziare un sentimento di «umana pietà» per la sorte di Gesualdo, tale sentimento non trova corrispondenza in Lampedusa, dove la figura del parvenue è inquadrata secondo tutt’altra ottica ed ha ben altro spessore umano. E il motivo Banti lo attribuisce, forse in maniera un po’ riduttiva, alla diversa estrazione sociale di Lampedusa, il quale, rispetto a Verga, ascolta «il suono di tutt’altra campana». Nonostante questa diversità di prospettive, Banti non manca però di evidenziare anche i punti di contatto tra i due autori: trova difatti che entrambi manifestino nella propria scrittura una stessa «rassegnazione poetica». Afferma pertanto che «l’ironia dei due siciliani è dello stesso ceppo», «temperata di accoratezza nel “signore” borghese, di scettica bonomia nel nobiluomo».86

Le sembra, inoltre, di poter riconoscere nelle fattezze dei personaggi che animano la pagina di Lampedusa, i tratti di diversi protagonisti verghiani e una simile vicinanza la coglie anche con i personaggi dei Promessi, un accostamento quest’ultimo decisamente inusuale. In tal senso, è interessante, anche per mettere in luce lo stile dell’autrice, la comparazione che Banti porta tra l’ironia di cui si serve Tomasi nel tratteggiare il cognato di Padre Pirrone, Vicenzino, e quella che Manzoni adopera nei confronti di Renzo:

D’accordo, don Alessandro mai avrebbe trasceso a volontarie volgarità sottolineando l’anatomia del povero filatore di seta. Ma ripassatevi un poco il capitolo della sua ubriachezza milanese: se ne sprigiona un signorile disgusto per il marrano che si lascia infinocchiare, una tale insistita «empietà» nel descrivere la sua balordaggine che, malgrado i suggerimenti della carità cristiana, il villico brianzolo e il siciliano «uomo d’onore» risultano della stessa pasta, guardati dagli stessi occhi ironicamente socchiusi, per schifo o per noia.87

Il passo qui riportato mi pare estremamente adatto a confermare come queste note critiche, dal tono decisamente narrativo, in alcuni frangenti – e questo ne è un esempio – sembrino proprio interagire con il lettore.

85 Ibidem.

86 Ibidem.  

Non manca comunque l’attenzione ai contenuti, la scrittrice puntualizza infatti anche ben più cospicue vicinanze stilistiche e ritmiche tra Lampedusa e Manzoni: riscontra lo stesso ritmo nello scandire il procedere dei soliloqui, lo stesso utilizzo acuto, ma discreto dell’«indagine psicologica», nonché la medesima allusività perspicace. Non poteva poi sfuggirle, e infatti lo appunta con perizia, il richiamo velato, ma nemmeno così nascosto, alla monaca di Monza:

Finanche la purissima Concetta, innamorata tradita, pare avere in quel suo «cipiglietto» tra la fronte e il naso e nel contegno altero, un tratto, un’ombra della Monaca di Monza. 88

Un po’ posticcio mi sembra invece il finale dell’intervento, dove, in appena sei righe, Banti si tutela dalle eventuali critiche e ribadisce di non aver voluto mettere in discussione le differenze «di scrittura e di qualità» tra Il Gattopardo e I promessi, ma di aver sottolineato come queste due opere siano animate da un medesimo spirito “italiano”. È in questo senso che parla di «unicum» per il libro di Lampedusa, proprio in quanto non si può considerare figlio del suo tempo, né interessato ad inserirvisi, ma di una larghezza di vedute che lei vede in diretta connessione con gli archetipi della nostra tradizione.