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2. Riflessioni su un genere: il romanzo, bilanci e prospettive

2.4   Critica  e  letteratura

Per completare il quadro dell’orizzonte di pensiero in cui si iscrive l’operato della nostra autrice, ritengo sia necessario analizzare anche un quarto intervento, comparso per la prima volta sulle pagine de «Il Contemporaneo», nel 1955, ed entrato poi a far parte del volume Opinioni. In questo intervento, Banti procede parallelamente lungo due binari: da una parte analizza come si sia evoluta la situazione letteraria, dall’altra riflette sulla critica, senza dimenticare l’elemento che fa da ponte tra i due binari, ovvero la lingua, provando a mettere in luce «elementi nuovi» e «persistenza della tradizione». L’analisi bantiana inizia la propria ricostruzione a partire dagli anni trenta, chiarendo innanzitutto «come si concepiva l’esercizio letterario e la figura stessa dell’uomo di lettere fino al 1940».53

Per la «civiltà dell’anteguerra», la scrittrice sostiene l’influenza di quelli che lei chiama «paesi-pilota» – la Francia e i paesi di lingua inglese – nella formazione di alcune esperienze letterarie nazionali, quali soprattutto l’ermetismo e le esperienze realistiche di gusto americano. E, per tanta parte di tale produzione letteraria, tanto in versi quanto in prosa, l’autrice lamenta un carattere di compromesso, privo di un’originalità, davvero capace di fare scuola:

[I modelli stranieri] proponevano ad un’Italia rassegnata ai compromessi, modelli di lettura e di esegesi difficoltose o di spregiudicata crudezza; ogni cosa avvolta nel riflesso di una libertà perduta, solo recuperabile nelle onerose strutture di gruppo, di cerchio chiuso, di clan snobistico internazionale.54

Questo avvertire nella nostra letteratura un’ansia di partecipare al respiro culturale internazionale non è, mi sembra, da considerarsi come un invito a chiudersi in un’italianissima “torre d’avorio”, bensì da intendersi come l’auspicio di raggiungere una letteratura più consapevole. Banti si augura infatti che i nuovi scrittori siano in grado di esprimere, e il pubblico di capire, quel pensiero che trova la propria forma di espressione più compiuta proprio quando si scrive secondo una lingua e delle forme che trovano radici nelle tradizioni letterarie del proprio paese. Questa questione sta particolarmente a cuore alla nostra autrice, tant’è che l’avrebbe sentita ancora attuale molti anni dopo, quando, in un articolo intitolato Del tradurre, apparso sulle pagine di

53 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 83.

«Paragone Letteratura» nel 1983, si sarebbe interrogata pubblicamente sulla reale necessità di tradurre, scrivendo:

Da ciò la conclusione: pochi sono i libri che per eccesso o per difetto di qualità, reclamino una diffusione per così dire universale delle idee o dei sentimenti in essi contenuti.55

E il motivo viene spiegato poco più avanti:

Non tutte le lingue e non tutti gli scrittori sono traducibili nel pensiero e nella forma che lo esprime.56

È interessante che quest’idea di «snobismo esterofilo», se così lo si può chiamare, di cui Banti parla verso la metà del secolo, appaia quasi identica, circa trent’anni dopo:

È noto che gli Italiani leggono poco, ma per quel poco le loro preferenze vanno ai libri stranieri, vedi francesi e persino russi. Si tratta di un piccolo caso di snobismo esterofilo o di semplice curiosità? Sta di fatto che raramente le opere di un premio Nobel, di un premio Goncourt o Phoemina mancano sui banchi dei librai difficilmente ospitali per il libro italiano di più di sei mesi.57

Tornando all’intervento in esame, possiamo notare come la scrittrice riscontri nei critici degli anni trenta la stessa esterofilia individuata nei letterati:

[…] al saggio critico, al resoconto delle ultime novità, soprattutto straniere, era lasciato un posto ragguardevole; come del resto non si concepiva una terza pagina di un quotidiano senza un responsabile di critica letteraria ben provveduto.58

Di questa critica, la nostra autrice, che conosceva bene tale ambiente, lamenta la contraddizione intrinseca: ritiene infatti che, benché destinata al «consumo spicciolo del pubblico corrente», poco le importasse di adoperare «formule di definizione e di giudizio non solo scelte, ma spesso addirittura cifrate e quasi iniziatiche».59 E non è più benevolo il giudizio nei confronti di quella critica giovane, diffusasi a partire dal 1945, che Banti ritiene aver sacrificato «la precisione e l’imparzialità del referto tecnico per

55 Anna Banti, Del tradurre, «Paragone Letteratura», a. XXXIV, n. 396, febbraio 1983, p. 3.

56 Ivi, p. 4.

57 Ibidem.

58 Anna Banti, Opinioni, cit., pp. 83-84. Il corsivo è mio.

fini che con l’arte e la letteratura non hanno nulla a che fare».60 Tuttavia, secondo questo giudizio critico, qualche eccezione non è mancata:

Non mancava, è vero, qualche critico di primo piano (qui si parla intendiamoci di critica militante) che, sostenuto da una personalità d’artista, svolgeva egregiamente l’ufficio di guida ragionevole e, per così dire classica, tanto al lettore comune, quanto a quello professionale. Alludiamo a quegli storici e filologi che mai indulsero ad oscurità gratuite, mai scambiarono finezza d’indagine per sofisticata sensiblerie […].61

La caustica penna di Banti preserva quindi una linea d’eccellenza, pure tra i critici. I nomi che compaiono sono quello di Cecchi, al quale la scrittrice dedicherà (caso unico fra i critici) anche due specifici interventi in occasione della sua scomparsa62, e, fra i giovani, quello di Niccolò Gallo.

Come si è detto, il discorso sulla critica non è mai disgiunto da quello sulla letteratura. Pertanto, dopo aver parlato dei recensori giovani, l’autrice esamina il panorama letterario contemporaneo, ritenendo che sia troppo delicato e sottile per accontentarsi di una critica superficiale:

[I narratori che si affacciarono all’arte dopo il 1945 e i giovanissimi di oggi] I quali sono non dico legione, ma un nutrito manipolo tanto distinto e caratterizzato da obbedire, forse senza rendersene esatto conto, alle condizioni di gruppo, corrente, tendenza, e offrire argomento a un discorso critico non solo interessante e fecondo di scoperte, ma volto addirittura a distinguere ciò che oggi è letteratura e non letteratura soltanto. Senonché, chi farà questo discorso senza partiti presi, a difesa dei «suoi»? Eccoci ritornati al lamento di poco fa, a quella carenza di critica giovane che proprio i narratori nuovi patiscono in modo singolare.63

È qui che, pur senza alcuna dichiarazione esplicita, la scrittrice suggerisce una soluzione, che a me pare un autochiamarsi in causa: consiglia infatti alla critica giovane di affidarsi alle figure guida dei «narratori anziani». E, a conferma di quanto detto, di seguito esprime il proprio pensiero sul panorama letterario del decennio 1945-1955. Secondo Banti, il carattere comune che identifica questi nuovi scrittori è: «l’ansia che si

60 Ivi, pp. 84-85.  

61 Ibidem.

62 Faccio qui riferimento al Necrologio, pubblicato in «Paragone Letteratura», a. XVII, n. 200/20, ottobre 1966, p. 179-180 e a Ricordo di Emilio Cecchi, «L’Approdo letterario», a. XIII, n. 40, ottobre – dicembre 1967, p. 87-88.

stende verso l’avvenire, verso il grande scrittore e poeta che darà un senso ai loro tentativi».64

Questa fiducia nell’avvenire, tratteggiata dalla scrittrice come propria dei narratori del ’45, mi sembra definire quel medesimo panorama, di cui parlano anche molti altri autori contemporanei. Hannah Arendt, nel 1961, nelle pagine di Tra passato e futuro65 parla difatti per la stagione post ’45, di «vuoto pneumatico», uno stato di interregno tra passato che non c’è e futuro che non c’è ancora, che è quello specifico momento in cui tutti hanno la necessità di parlare e di dar voce alle proprie speranze. Un sentimento, quest’ultimo, che viene percepito da molte riflessioni coeve a quella bantiana o poco più tarde: Calvino, nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, scrive infatti che si era «carichi di storie da raccontare»66; Raimondi lo definisce «il tempo meraviglioso della speranza»67; Ginzburg parla di «un tempo in cui tutti pensavano d’esser poeti; e tutti pensavano d’esser dei politici».68 Un’attesa del nuovo, che era vista essenzialmente in un’ottica positiva, sia per quanto riguarda la prospettiva storica, ma anche per quanto riguarda appunto la letteratura.

Queste attese si sarebbero però dimostrate una grande illusione e le speranze nutrite nei confronti di un generale rinnovamento nazionale, anche da un punto di vista culturale, si sarebbero rivelate fallimentari: il nuovo infatti, altro non era che il vecchio sotto un’altra luce. Una disillusione che non mancherà di cogliere anche Anna Banti, tanto che nel romanzo del 1967, Noi credevamo, dedicato al nonno Domenico Lopresti, metterà in figura un’immagine di patriota risorgimentale amareggiato che ben rispecchia la delusione resistenziale. Scrive infatti Fausta Garavini che «la figura del patriota deluso dagli esiti delle lotte risorgimentali si presta egregiamente a dar voce all’amarezza dello slancio democratico nato con la Resistenza».69

Per quanto riguarda infine gli autori degli anni cinquanta a lei contemporanei, Banti riconosce una linea di narrativa genuinamente italiana, anche se puntualizza che «la sua

64 Ibidem.  

65 Faccio qui riferimento a Hannah Ardent, Between Past and Future: Six Exercices in Political

Thought, The Viking Press, New York, 1961, tradotto in italiano per la prima volta come: Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze, 1970.

66 Italo Calvino, Prefazione (1964) a Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Einaudi, Torino, 1970, p. 7.  

67 Giuseppe Raimondi, Prefazione a Le domeniche d’estate, Mondadori, Milano, 1963, p.19.

68 Natalia Ginzburg, Lessico famigliare (1963), Einaudi, Torino, 1992, p. 196.

salute e la sua stessa esistenza dipendono da una condizione difficile». L’autrice prescrive difatti un necessario contatto tra vita e letteratura, che non possono essere disgiunte l’una dall’altra e devono essere animate da una stessa «moralità»:

È di ogni giorno e di tutti la constatazione di come vita e letteratura risultino ormai strettamente intrecciate e condizionate l’una all’altra, tanto che chi si ostinasse a considerare quest’ultima avulsa dalla norma di un’esperienza comune, potrebbe davvero farne l’elogio funebre. Così unite, tuttavia, vita e letteratura son destinate al fallimento e alle involuzioni più tragiche senza una “moralità” d’altronde indivisibile, in ogni tempo, dalla scelta che è alla base di un cosciente contatto con le cose di questo mondo.70

Come ben si vede dalla citazione, questo legame tra vita e letteratura, all’insegna di un’imprescindibile «“moralità”», è ben puntualizzato. Secondo Banti, questa stessa continuità deve poi potersi riscontrare anche tra contenuto e forma. Per le nuove realizzazioni letterarie, la nostra autrice auspica dunque tanto la scelta di nuovi argomenti, quanto la necessità di un nuovo linguaggio, e le due istanze paiono indiscutibilmente legate:

Mai, infatti, come in questo momento, contenuto e forma si son visti legati, anzi bloccati dall’impossibilità di procedere autonomi, dato che mai come oggi è stato chiaro che ogni modo di esprimersi nasce da un particolare contenuto e ogni contenuto chiama una lingua sua propria, diversa da quella che il Manzoni si sforzò di restituire ad un’Italia ancora culturalmente divisa.71

Per quanto riguarda il linguaggio, come già evidenziato in precedenza, anche in questo intervento vengono individuate le medesime difficoltà, già puntualizzate nell’articolo Lingua e letteratura:

Tanto vale dire che l’italiano «scritto» ha ormai la vita difficile; e la constatazione non è nuova, né da intendersi come nostalgico lamento, che sarebbe sciocco rilievo; ma come urgente testimonianza che in Italia le fragili barriere del linguaggio ufficiale, civile, consegnatoci (con quanti dubbi e sospiri e pentimenti) da Alessandro Manzoni, ultimo legislatore con le carte in regola, non reggono alla confusa invasione dei dialetti e – quel che è peggio – a uno scomposto meticciato fra dialetto e lingua pretenziosa.72

70 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 88.

71 Ivi, p. 87.

Mi pare, dunque, di poter ancora una volta sottolineare la forza espressiva che la scrittrice individua nei dialetti; ritiene infatti che abbiano un’espressività che l’italiano letterario è incapace di rendere con altrettanta incisività. Ed è proprio per questa efficacia espressiva dei modi dialettali che, secondo l’autrice, un esperimento linguistico come quello di Pavese ha riscosso così grande successo e che si moltiplicano gli studi sulla lingua di Verga. Nel già citato intervento Speranze di una narrativa, del 1956, lei stessa puntualizzerà quanto sia necessaria una «nuova espressione poetica», capace di rendere anche in italiano, con la massima efficacia, tutta quella serie di fatti e problematiche più regionali che nazionali, con cui, a suo avviso, non riesce a misurarsi l’«ottocentesca convenzione linguistica tanto fragile, forse, quanto la nostra unità nazionale».73

Tuttavia, in Critica e letteratura, a differenza di quanto si è detto per l’articolo pubblicato su «L’Approdo», dove le conclusioni risultano molto più disilluse, mi sembra che il giudizio di Banti conceda qualche spiraglio d’apertura. Parlando della narrativa realista più recente, scrive infatti l’autrice:

I resultati sono, per ora, incastri dialogici, soluzioni ritmiche e tagli di racconto che spesso, quasi per incanto, sebbene un po’ alla cieca, paion cogliere nel segno ed esprimere con aderenza nuova certe crudezze innocenti, certi mondi chiusi che solo una retorica generica aveva sin qui sfiorato.74

Mi sembra particolarmente evocativo anche il lessico di cui la scrittrice si serve per illuminare la forza espressiva di queste nuove soluzioni linguistiche. L’idea di una lingua evocata «per incanto», ma allo stesso tempo capace di «cogliere nel segno» è una definizione che quasi stride, ma che, proprio grazie a tale stridore, comunica ciò che intende. Sullo stesso piano, quasi ossimorico, classificherei: «crudezze innocenti» e «mondi chiusi».

I risultati meno felici, in quest’occasione, Banti li attribuisce invece a quella narrativa meridionale, che, apparentemente più avvantaggiata per i propri illustri precedenti, le sembra invece ricadere in una mera riproposizione verghiana, priva di un carattere autonomo. Anche nell’intervento Speranze di una narrativa, lamenterà infatti il medesimo problema:

73 Anna Banti, Speranze di una narrativa, in La narrativa meridionale, cit., p. 74.

[…] quei tali limiti da cui qualche narratore del Sud mostra di sentirsi menomato, rispondono ad una realtà più geografica che storica: una realtà, inoltre, delle più impegnative, perché discende da una tradizione illustre e dunque esigente.75