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2. Riflessioni su un genere: il romanzo, bilanci e prospettive

2.3   Lingua  e  letteratura

Nel terzo degli interventi che mi sono proposta di esaminare, Banti si addentra nel problema della lingua. L’articolo è realizzato per le pagine de «L’Approdo letterario», con il quale la scrittrice avrebbe successivamente collaborato per molti anni, occupandosi della rubrica Il Cinema.

Qui, ancora una volta, il punto di riferimento per Banti è proprio Manzoni. La scrittrice sosteneva infatti che l’Italia letteraria coeva soffrisse ancora del medesimo problema che aveva lamentato Manzoni nel saggio dedicato al problema della lingua italiana46, ovvero di quella difficoltà nel mettere in parola un fatto. Quest’ultimo aveva rilevato delle discrasie tra significato e espressione verbale, ritenendo che, spesso, la lingua letteraria italiana mancasse del termine adeguato ad esprimere un determinato concetto. Si augurava pertanto di rimpolpare il linguaggio letterario con vocaboli presi dalla lingua d’uso, capaci di rendere la lingua letteraria viva ed efficace quanto la resa dialettale. Così Banti ne ricorda l’operato:

Il povero grand’uomo ci si tormentava; e con paragoni e ragionamenti i più ingegnosi del mondo cercava di dimostrare la necessità di rinsanguare il malcerto e malnoto idioma ufficiale con vocaboli presi dall’uso quotidiano, quelli stessi che in ogni dialetto esistevano tanto ricchi e calzanti.47

Il passo citato permette tra l’altro di fare delle puntualizzazioni stilistiche: come stiamo imparando a riconoscere, anche negli interventi di critica, la scrittrice si muove secondo un procedere che definirei quasi narrativo, che determina una comunicazione molto diretta ed efficace. Ne sono un esempio espressioni come: «il povero granduomo ci si tormentava», e «paragoni e ragionamenti i più ingegnosi del mondo».

Banti trova ancora molto attuali i ragionamenti di Manzoni, che aveva affrontato la questione della lingua secondo le sue specifiche esigenze di romanziere. E, partendo da

46 Il riferimento è qui al trattato Della lingua italiana, al quale Manzoni lavorò per circa trent’anni, di cui nel 1974 sono state pubblicate le cinque redazioni.

tale presupposto, si chiede se qualcosa sia cambiato «nei mezzi e nella potenza della nostra espressione», rispetto agli anni in cui scriveva l’autore dei Promessi sposi.

Nonostante permangano le difficoltà di messa in parola, la scrittrice ritiene che un passo in avanti sia senz’altro stato fatto: dopo aver abbandonato, grazie al superamento di estetismo dannunziano e retorica rondista, i «modi antiquati e troppo “scritti”», si è infatti approdati al romanzo realista, ed è proprio a quest’ultimo che l’autrice attribuisce il merito di aver contribuito ad uno svecchiamento sostanziale del linguaggio letterario:

[…] il primo carattere della letteratura realistica fu quello di una decimazione sulle possibilità del linguaggio letterario, da far pensare ai provvedimenti drastici a cui ricorrono le rivoluzioni prima di aver sottomano chi e che cosa sostituirà gli elementi rifiutati.48

Come ben si comprende dalla seconda parte del passo citato, il problema si articola però nel fatto che, nonostante tramite il romanzo realista si sia messa in atto una notevole operazione di svecchiamento linguistico, continui a mancare una lingua letteraria capace di essere efficace ed espressiva quanto la realtà che raffigura. In altre parole, Banti non trova un linguaggio capace di rendere la complessità del reale che prende vita nella pagina degli autori realisti:

[…] non esisteva - e forse ancora none esiste – la lingua in cui la nuova realtà da raggiungere ed esplorare potesse nuovamente specchiarsi. Tale la ragione, io credo, per cui le pagine sia pur dei più nobili settatori di questo indirizzo, appaiono spesso squallide e convenzionali, senza mordente, e finiscono per dare l’impressione di un mondo, invece che vivo e reale, conforme, grigio, impacciato: in cui il sapore stesso del nostro tempo si scioglie irrimediabilmente. […] i fatti che dovrebbero parlare da soli, risultano, sulla pagina, purgati, impalliditi, alterati accidiosamente, proprio come lamentava il Manzoni quando, per mancargli un linguaggio proprio era costretto ad allontanarsi dal «naturale».49

Dunque, secondo questo giudizio critico, il problema della lingua ben si manifesterebbe proprio in quel romanzo realista, che per sua natura riflette sulle dinamiche sociali ed economiche che definiscono la realtà in cui si muovono i protagonisti, dove i fatti dovrebbero parlare da soli. E tale difficoltà sta principalmente nella scarsa corrispondenza tra la lingua e i fatti che devono essere narrati; corrispondenza che Banti, come già Manzoni, ritrova invece nel dialetto.

48 Ivi, p. 66.

Nel corso della sua analisi, l’autrice riporta all’attualità un problema che ritiene ancora vivo, oltre che specificatamente italiano: trova che, mentre «la gente che parla romano, fiorentino, napoletano si esprime con naturalezza, così d’animo, come di vocabolario»50, manchi nella lingua italiana un’efficacia linguistica capace di rendere in letteratura quella stessa naturalezza d’animo, quell’autenticità così genuina, che si manifesta nel dialetto. E questo è un problema che sembra starle particolarmente a cuore. Vi torna infatti anche in un altro intervento, titolato Speranze di una narrativa, in cui scrive:

[…] l’autenticità delle cose, dei sentimenti, dei discorsi, degli stessi […] personaggi disegnati ed espressi «in lingua» sembra in qualche modo generica e conformista appetto a quella che altri, del Sud o del Nord, ferisce e fa sanguinare con una violenta sferzata dialettale.51

Un limite quest’ultimo che, secondo quanto Banti scrive in Lingua e letteratura, si evidenzierebbe particolarmente nel teatro, genere che per eccellenza è mimesi di autenticità; l’autrice sostiene infatti che questa carenza linguistica abbia determinato l’assenza di un teatro italiano di spessore, al di fuori di quello dialettale.

Un’eccezione linguistica è quella rappresentata da Verga, che «con una sintassi attinta dal dialetto, riusciva insieme alla più profonda e poetica vena di umana verità». Il miracolo verghiano appartiene però, per la scrittrice, ad un «tempio chiuso e per un patto irricreabile».52

Quest’analisi, che ben s’inquadra in una riflessione linguistico-letteraria da molti condivisa, si chiude con un interrogativo verso le sorti future, aperto, ma dall’eco pessimistica. Un pessimismo da attribuire forse alla delusione delle speranze che l’autrice, come molti, aveva riposto nella narrativa di quegli anni, e che lei stessa mitiga negli interventi successivi, quali il già citato Speranze di una narrativa e un altro degli scritti di Opinioni, Critica e letteratura, di cui do conto di seguito.

50 Ibidem.

51 Anna Banti, Speranze di una narrativa, in La narrativa meridionale, Editoriale di cultura e di documentazione, Roma, 1956, p. 74.