2. Riflessioni su un genere: il romanzo, bilanci e prospettive
2.2 Storia e ragioni del “romanzo rosa”
In questo intervento del 1953, Banti si chiede quale sia l’effettivo peso con cui considerare quella letteratura che è comunemente nota come “letteratura rosa”, addentrandosi in uno spinoso interrogativo: può essere considerata letteratura? Nell’esaminare la questione, la scrittrice procede servendosi di un’ironia velata, ma mordace e decostruisce, passo dopo passo, la folta schiera di pregiudizi sul genere. Lo spunto per confrontarsi con tale tipologia narrativa viene offerto all’autrice dal dibattito accesosi sulla letteratura popolare:
Nell’aria è senza dubbio, e da tempo, il bisogno di rendersi conto, in un’età ambigua come la nostra, della consistenza, dei modi, del peso della cosiddetta letteratura popolare.24
Tra i diversi sottogeneri in cui spazia quel mare magnum che è la letteratura popolare, c’è infatti anche questo, che, più che rosa, dovrebbe secondo Banti essere chiamato «grigio, il colore della folla, della velocità, della disattenzione: letto se le statistiche non ingannano, da tre milioni di individui».25
22 Ivi, p. 43.
23 Gianfranco Contini, Un anno di letteratura, Le Monnier, Firenze, 1946, p. 37.
24 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 75.
Quest’intervento fa una puntuale ricostruzione della storia di tale genere: nato fra il Settecento e l’Ottocento, sarebbe stato inizialmente destinato ad un pubblico di dame e damigelle, perché erano costoro che avevano tempo da dedicarvi e soprattutto – ed è questo uno dei punti in cui, a mio avviso, si sente molto chiaramente l’ironia di cui parlavo poc’anzi – perché era questo un modo per distrarre le giovani fanciulle dal «pericolo numero uno, l’insorgere di sempre più numerosi romanzi e di donne romanziere».26 Se dunque il “pericolo romanzo” era ormai inarginabile, meglio convogliarlo nei termini di una letteratura meno pericolosa. E, a tal proposito, la scrittrice esemplifica molto chiaramente:
Se c’erano le Madame de Ségur, scrittrici pedagogiche per i fanciulli di ottima famiglia e per le loro madri e sorelle, splendevano dai roghi dello scandalo le Madame de Staël, le George Sand; senza parlare delle loro imitatrici. Il romanzo, gloria del secolo decimonono, minacciava le basi della società borghese, tanto più che la donna analfabeta stava ormai diventando un’eccezione. Padri benpensanti e direttori spirituali non riparavano a condannare, a proibire e fu con vero sollievo che si videro comparire certi libretti dalla copertina rosa o celeste, abbondantemente ornati di fregi o incisioni.27
Come si vede dal passo citato, Banti rileva la compresenza di scrittrici di spessore culturale differente, sottolineando come già nell’Ottocento il romanzo rosa apparisse a padri e mariti una soluzione per tenere le proprie donne lontane da autrici dai contenuti ben più eversivi. Quest’ultimo estratto mi sembra inoltre particolarmente illuminante dal punto di vista stilistico. La stessa scelta lessicale risulta ad esempio fortemente connotativa, se si considera che si tratta comunque di un articolo di critica, per quanto destinato ad una rivista letteraria: molto espressiva è la scelta del predicato, «le madame de Staël e le George Sand» infatti «splendono dai roghi dello scandalo». Un verbo che allo stesso tempo dà l’idea della luce del rogo, evocando l’iniziale ostilità del pubblico nei confronti degli scritti di queste autrici, ma che rende anche molto bene l’idea di come da quei libri promani la luce, che è quella della cultura.
E ancora, il romanzo è leopardianamente «gloria del secolo decimonono» e minaccia le basi della benpensante società borghese, di cui esso stesso è figlio. Un’immagine quest’ultima che, a me pare, mostra come l’autrice veda perspicacemente nel romanzo il
26 Ivi, p. 76.
frutto di un’epoca, ma allo stesso tempo la sonda capace di svelarne le contraddizioni, tanto più insidiosa quando finisce nelle mani “sbagliate”, quali quelle di una donna. In un altro articolo, di carattere però più sociale che letterario, apparso su «Noi donne» nel 1961, l’autrice definisce il “romanzo rosa” «letteratura pastorizzata» e ribadisce:
Prima di quel tempo [il secolo XIX], infatti, i casi erano due: o le donne non leggevano – e cioè erano analfabete – o, se sapevano leggere e ne avevano l’opportunità, potevano accedere a qualunque genere di lettura, alla pari degli uomini. La commovente premura di considerare le donne come eterni bambini irrimediabilmente ingenui illumina in maniera piuttosto sinistra quel buon vecchio tempo che è ancora, per molti benpensanti l’Ottocento, specie nostrano. 28
La scrittrice mostra dunque chiaramente quale fosse il pensiero dei benpensanti verso questo genere di letteratura: una soluzione dai toni facili e dai contenuti innocui.
Nel corso dell’analisi condotta in Storia e ragioni del “romanzo rosa”, Banti, tuttavia, manifesta sin da subito il dubbio proprio di chi indaga, e, grazie ad una sapiente miscela di dottrina e ironia, mette in discussione la verità di questa affermazione:
[I romanzi rosa] Erano sciocchi, erano, magari, sgrammaticati, ma ci si poteva fidare: leggessero, le dame e le damigelle, se proprio non potevano farne a meno. Naturalmente non mancò chi insinuava che, in fondo, quei romanzetti sentimentali, pieni di lacrime inutili e di palpiti superflui non erano meno dannosi al carattere e al giudizio delle madri di famiglia, che i romanzi veri e propri, e, almeno, scritti bene.29 L’ironia qui è molto leggera, quasi, mi si passi il termine, maliziosa, e sembra mettere in dubbio quanto detto in precedenza. Si percepisce infatti un effetto di straniamento – che è ottenuto grazie all’uso degli avverbi «naturalmente» e «almeno», alla scelta del diminutivo «romanzetti» e ad un’aggettivazione forte – che, enfatizzandolo, fa sì che il giudizio dei benpensanti venga da subito messo in discussione.
Che l’assioma “letteratura rosa” uguale semplici romanzetti d’amore, dalla lacrima facile, vada, secondo l’autrice, almeno vagliato criticamente è d’altronde confermato nel corso dell’intervento. Poco dopo afferma infatti Banti:
Così il nuovo genere prosperò, non senza qualche strizzatina d’occhio alle lettrici, alla barba dei superiori.30
28 Anna Banti, La ragione contro l’istinto, in «Noi donne», a. XVI, n. 1, 1° gennaio 1961, p. 12.
29 Anna Banti, Opinioni, cit., pp. 76-77.
Le parole dell’autrice sembrano dunque far intendere che già nell’Ottocento la letteratura rosa, pur con i suoi limiti, dava modo alle donne di esprimersi e che non tutti i risultati appaiono così banali.
Continuando a ripercorrere, per grandi campiture, la storia letteraria del genere, l’articolo procede spostandosi nel XX secolo. E la riflessione, oltre a rivelare il punto di vista di Anna Banti su questa particolare questione letteraria, è interessante quantomeno per altri due motivi: la rarità, sono infatti ben pochi i pensieri analoghi, e il fatto che permette di entrare in contatto anche con personalità letterarie – se così si può definirle – sconosciute o semi sconosciute. Inoltre, la scrittrice non manca di notare anche un cambiamento nel pubblico, rilevando che diventa quello della società a lei coeva: non più costituito dalle damine ottocentesche, ma da casalinghe, commesse e impiegate. L’interrogazione su cui si regge l’intera seconda parte dell’intervento è affine a quella d’aperura, in cui l’autrice si chiedeva se questa potesse effettivamente esser considerata letteratura:
Distoglierne gli affezionati (giacché anche gli uomini lo consumano, se le statistiche delle biblioteche circolanti non mentono) è possibile? È augurabile, è praticabile rialzarne il livello?31
Ancora una volta dunque, la scrittrice parte dalla considerazione che si tratta di una letteratura di livello inferiore, tuttavia non l’accantona a priori e si chiede se sia possibile innalzarne il livello. Per rispondere ad una domanda del genere, Banti sostiene si debba partire proprio da coloro che scrivono questi romanzi. Ritiene infatti che queste scrittrici siano «le prime a trascurare la loro notorietà» e che la loro maggior preoccupazione sia semmai quella di «essere scrupolosamente pieghevoli al gusto del pubblico»32, ma che infine non riescano a nascondere mai del tutto come la propria sia anzitutto una vocazione letteraria:
Esse finiscono tuttavia per tradire tutto, fuorché le loro segrete ascendenze, appunto, letterarie. La penna è la penna: dietro un’ostentata assenza di ambizioni c’è un lavoro in cui, per la pratica stessa dell’uso della parola, della frase, dell’osservazione sia pur generica non si possono operare tagli netti fra letteratura e non letteratura.33
31 Ibidem.
32 Ivi, p. 78.
Secondo la riflessione bantiana dunque, anche nel Novecento questa tipologia narrativa, seppur vista come lavoro remunerativo e quindi capace di adattarsi alle diverse mode e alle differenti temperie culturali, rimane pur sempre per le donne un mezzo attraverso il quale potersi esprimere, da una parte, e potersi avvicinare alla letteratura, dall’altra. Mi sembra inoltre che dal giudizio della scrittrice emerga un’idea di letteratura assimilabile ad una sensibilità profonda, piuttosto che a qualcosa di imparato o scolasticamente appreso, vicina in questo senso all’idea che prima di Banti avevano avuto anche tante altre autrici. D’altronde, quest’ultima, come altre prima di lei, rifiuta l’idea di un “femminismo letterario”, sostenendo che la donna che scrive non possa raggiungere risultati degni di nota, «se non con il distacco, con l’argine razionale alla tradizione dell’istinto, che sono il frutto di un’assidua e paziente elevazione culturale».34
Il confine tra letteratura e non letteratura pare quindi davvero molto sottile, tanto che la stessa categoria di romanzo rosa è secondo Banti divisibile per correnti. A tal proposito, nel 1961, in occasione del già citato articolo di «Noi donne», la nostra autrice specificherà infatti il carattere razzista di una divisione operata per genere, anziché per stili:
[…] definii razzista il criterio per cui, non solo in Italia, della letteratura femminile, sia pure ad alto livello, si usa render conto in rubriche speciali, confrontando scrittrice con scrittrice, mai scrittrice con scrittore.35
Per questo giudizio critico, è dunque possibile parlare anche per il romanzo rosa di correnti; la scrittrice ne nomina due: quella dannunziana, che viene definita non del tutto spenta, nella quale sono citati i nomi di Mura e Liala36, e quella d’importazione americana, diffusasi attorno agli anni trenta. Di quest’ultima Banti ritiene che le tendenze italiane abbiano assorbito non tanto l’humor, che ancora in quegli anni le sembra lontano dal respiro delle scrittrici italiane, quanto i contenuti, modellati secondo quella che molto liberamente potremmo definire “la favola di Cenerentola”; scrive difatti:
34 Anna Banti, La ragione contro l’istinto, in «Noi donne», cit., p. 12.
35 Ibidem.
36 Due scrittrici coeve a Banti, oggi quasi del tutto sconosciute, autrici di romanzi d’appendice:
Amalia Liana Negretti Odescalchi (1897-1995), detta Liala proprio dal Vate, e Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri (1892-1940), detta Mura.
Il romanzo «femminile» si adegua a una classe piccolo borghese le cui figlie rifiutano il lavoro domestico ed hanno imparato a reclamare di «vivere la propria vita», pronte tuttavia al matrimonio, che le provveda, almeno, della domestica tutto fare. Ed ecco le nuove narratrici, anch’esse «tutto fare»: nel senso di un compromesso tra la moda straniera e le esigenze del costume nazionale.37
L’autrice rileva dunque una miscela di ingredienti nazionali e influenze straniere, capaci di «innestare il quotidiano sullo straordinario, il particolare sull’ovvio»38, e nomina come esempio i romanzi di Luciana Peverelli.39
Questa narrativa di compromesso, pure attraverso la mediazione dell’esperienza straniera, getta, secondo Banti, un ponte verso le proprie «radici ottocentesche», verso quei temi della famiglia, della casa, della maternità, che, ben sviluppati nell’Ottocento, le sembrano portati avanti nel Novecento da narratrici come Flavia Steno e Carola Prosperi.40 Una linea quest’ultima che a me pare sia stata evidenziata sapientemente, dal momento che la si può riconoscere come prevalente in moltissime narratrici. Ben inteso, non nel senso in cui l’ha interpretata buona parte di una critica oggi ormai datata, considerandola narrativa intimistica dai contenuti autobiografici, ma piuttosto nel senso di una produzione che presta attenzione a quella realtà che, come diceva Woolf, era quella in cui molte donne vivevano e che necessariamente si può ritrovare in ciò che hanno scritto. Non a caso Banti, sempre nell’articolo del 1961, dopo aver citato la riflessione di Woolf a proposito dell’immaginaria Judith Shakespeare, scrive:
[…] la storia millenaria della donna è diversa da quella dell’uomo; e prender coscienza della propria storia è il primo dovere, il primo atto di un essere non bestiale. 41
Tornando all’intervento in esame, questa letteratura, definita di compromesso tra la tradizione ottocentesca e le tendenze d’oltreoceano, si sarebbe evoluta, con l’avvento del fascismo, in un risultato che questo giudizio critico, citando l’esempio di Vanda Bontà42, giudica molto mediocre:
37 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 79.
38 Ivi, p. 80.
39 Luciana Peverelli (1902-1986) è stata una giornalista, scrittrice e sceneggiatrice, anch’essa oggi quasi del tutto sconosciuta.
40 Flavia Steno (1877-1946) e Carola Prosperi (1883-1981) sono state due giornaliste e scrittrici italiane, attive principalmente nella prima parte del secolo scorso.
41 La ragione contro l’istinto, in «Noi donne», cit., p. 12.
Chi vada a rileggersi, per esempio, quel Diario di Clementina che Vanda Bontà andava settimanalmente pubblicando su una rivista di mode fra il ‘40 e il ’43, non potrà fare a meno di sentirsi stringere alla gola, un nodo di disgusto. Era un confidarsi dismesso, non privo di abilità donnesca, della moglie del «soldatino» che coi teneri figli ne aspetta il ritorno vittorioso che la dispenserà del lavoro fuori casa, questa croce dei benpensanti del regime. Libri cosiffatti hanno più nociuto al nostro costume che una pubblicazione sfacciatamente immorale.43
Anche qui Banti scolpisce le proprie affermazioni in maniera lapidaria, sia da un punto di vista contenutistico che da uno più tecnicamente stilistico. Espressioni come un «nodo di disgusto» e «moglie del “soldatino”», nonché l’intera proposizione conclusiva, che si staglia secca ed inequivocabile, mi sembrano infatti delle prove evidenti di tale incisività.
D’altro canto, se questi sono esempi di non letteratura, ricongiungendosi all’iniziale affermazione, secondo cui la demarcazione tra ciò che può essere considerato letteratura e ciò che invece non ne è degno è cosa assai complessa da definirsi, la scrittrice fornisce anche modelli di ciò che può considerare un esempio letterario. Fa quindi il nome di Gianna Anguissola44, che dopo un esordio dei più felici, si è dedicata al romanzo rosa, con risultati tutt’altro che mediocri.
Proprio a partire da quest’ultimo esempio, l’autrice conferma la difficoltà di «operare tagli netti fra letteratura e non letteratura»; arriva inoltre a rispondere pure al proprio secondo quesito: è necessario favorire o scoraggiare questo genere?
Il problema, infatti, che ci ponevamo sul principio di questa riflessione, con due domande, non ci sembra solubile che nella risposta affermativa alla seconda di esse. Si può, cioè si deve anzi favorire, nel cosiddetto romanzo rosa, l’aspirazione a un livello più alto, a una più profonda coscienza artistica e morale. Distoglierne il lettore, ormai impestato di ovvie facilità, varrebbe in questo momento di evasioni sempre più rozze e sempre più largamente offerte, distoglierlo dall’esercizio stesso della lettura, tanto dire della civiltà.45
La scrittrice conferma dunque anche in questo genere, di largo consumo, l’importanza di una letteratura che funga da stimolo per chi legge. Ritiene infatti che anche questo, che è tradizionalmente ritenuto un romanzo di livello inferiore, abbia delle possibilità,
43 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 81.
44 Giannina Anguissola (1906-1966), scrittrice e pubblicista, raggiunge il successo con un’opera corale: Romanzo di molta gente, nel 1933; in seguito si avvicina al genere rosa.
rivelando una fondamentale apertura e, almeno in linea teorica, un’assenza di pregiudizi.