2. Riflessioni su un genere: il romanzo, bilanci e prospettive
2.1 Romanzo e romanzo storico
Il primo degli interventi che ho scelto di esaminare appartiene a quella che chi si è finora occupato degli scritti dell’autrice ha definito la triade dedicata a Manzoni.7 Senza voler trascurare il discorso su Manzoni, che vedremo nel capitolo successivo, ho in questo frangente voluto considerare l’intervento del 1951 nell’ottica del più generale problema del romanzo e, in particolare, di quello storico, che costituisce uno dei nodi fondamentali del pensiero bantiano. Nello specifico, l’autrice, ripercorrendo le origini del genere, formula qui un proprio giudizio sul senso del romanzo storico, vagliandone forme e strumenti, proprio negli anni in cui le sembrava avere nuova vita. Queste sono infatti le sue parole:
[…] perché non darci la pena di un capitolo in cui si esamino le condizioni e le possibilità attuali di un genere che, in questo momento, si direbbe prendere quota? Vogliamo dire il romanzo storico. Il quale non è morto. […] Basterebbe dare una scorsa ai bollettini di libreria per convincersi che mai i problemi e le tentazioni che lo provocarono hanno cessato di stimolare, sia pur capricciosamente, gli ingegni più diversi. 8
La riflessione bantiana sul romanzo storico parte proprio da colui che, dopo averne fornito l’esempio primo e più illustre, su di esso aveva anche a lungo dibattuto. È infatti dalla riflessione di Manzoni che Banti trae una brillante considerazione: partendo dall’autocritica che, nel discorso Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione9, Manzoni muove nei confronti del genere che l’aveva reso grande, relegandolo «pressappoco, tra le curiosità»10, la scrittrice tenta di individuare quali fossero i motivi che avevano spinto l’autore a criticare tale genere. Nel suddetto discorso, secondo l’analisi bantiana, Manzoni legittimerebbe fin troppo il termine storia, lasciando invece al romanzo lo spazio di un «dogmatico conformismo».
7 La triade cui faccio riferimento è quella composta, oltre che dall’intervento in questione, dagli articoli: Ermengarda e Geltrude, apparso su «Il nuovo Corriere», in data 5 agosto 1953, ed in seguito in «Paragone Letteratura», a. V, n. 52, aprile 1954, pp. 23-30, e Manzoni e noi, pubblicato su «Paragone Letteratura», a. VII, n. 78, giugno 1956, pp. 24-36. Entrambi raccolti poi nel volume Opinioni, cit. Cfr. anche cap. 3.1.1 e 3.1.2.
8 Anna Banti, Opinioni, cit., pp. 38-39.
9 Il riferimento è al discorso Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia
e d’invenzione, pubblicato da Manzoni per la prima volta in Alessandro Manzoni, Opere varie,
Stabilimento Redaelli dei fratelli Richiedei, Milano, 1870.
Secondo questo parere critico, il limite del pensiero manzoniano è infatti proprio questo e Banti lo esplicita molto chiaramente:
La colpa è del nostro Manzoni. E non per aver condannato il romanzo storico, ma per aver servito, almeno nelle intenzioni, troppo devotamente la storia, e così poco - anzi nient’affatto - il romanzo.11
Il giudizio è sicuramente forte, ma espressamente fondato sulle pagine del Discorso, nelle quali l’autrice rileva che «se per il valore e il significato attribuito al primo termine [storia] non c’è da stare in pensiero, per il secondo [romanzo] l’affermazione si limita all’enunciato, e, insomma, ad un dogmatico conformismo».12 Tant’è che, come ricorda Banti, dei grandi nomi internazionali del romanzo dell’Ottocento, Manzoni nel suo Discorso coinvolge unicamente Scott e la Scudéry, due grandi autori del romanzo storico, mentre lei stessa, a discapito di quanto dichiarato dall’autore, non manca di ricordare come in realtà l’influenza del «romanzo» nella formazione dello scrittore fosse stata ben più ampia.
Per Banti, la forza del romanzo storico sta dunque proprio nella compenetrazione di queste due componenti: quella storica e quella romanzesca, che, fuse insieme, consenono di dar vita al verosimile, che, secondo questo giudizio critico, è l’essenza stessa dell’opera letteraria. I limiti di Manzoni starebbero dunque nel non aver adeguatamente valorizzato quel «vero veduto dalla mente», che egli stesso aveva avuto il merito di individuare per primo. Queste le parole dell’autrice:
La sua difesa del fatto avvenuto contro le insidie del fatto inventato, a tutto scapito dei diritti appena intravisti del fatto supposto, rattrista chi ricorda quel suo eccezionale rilievo: «Il verosimile è un vero… veduto dalla mente per sempre, o per parlar con più precisione, irrevocabilmente».13
Proprio su tale considerazione manzoniana - come afferma Fausta Garavini nell’introduzione al Meridiano - le riflessioni bantiane risultano emblematiche della «meravigliosa disinvoltura con cui Banti maneggia la storia, tessuto liso che la sua immaginazione rammenda dove le piace, per il senso e la necessità della sua narrazione,
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 40.
incurante di strappi alla verità documentaria».14 La scrittrice sintetizza infatti, in maniera mirabile, la propria concezione di romanzo storico:
[…] la storia, mentalmente ricreata, coincide con l’espressione più alta della letteratura, e […] il romanzo vero altro non è che moralità, scelta morale in un tempo determinato: la suprema ambizione della storia, scienza, appunto morale.15
Come si vede bene dalla citazione, alla riflessione sulla «storia mentalmente ricreata» quale nucleo fondante del romanzo storico, Banti aggancia il discorso sulla moralità, intendendola come un insieme di valori umani, che deve caratterizzare qualsiasi romanzo, in particolare quello storico. Una componente, quest’ultima, che è particolarmente significativa per l’autrice, tant’è che ne ribadisce l’importanza in quasi tutte le sue letture critiche.
Dal romanzo storico, Banti si sposta quindi a considerare il romanzo in generale, riflettendo su quello che è il «problema centrale di ogni romanzo». Se infatti il limite del romanzo storico sta nel rischio di dare un’eccessiva centralità del fatto avvenuto, lo stesso rischio, secondo questo parere, si può estendere a qualsiasi genere di romanzo. In altri termini, ciò che la scrittrice intende dire sembra essere che, se consideriamo il romanzo come messa in figura, ovvero rappresentazione sotto forma di metafora, di nodi problematici inerenti alle domande esistenziali dell’io, il rischio è - ed è tanto più pericoloso nel romanzo storico - che la metafora risulti troppo debole e quindi troppo evidente il legame con la realtà storica che ne soggiace.
Partendo da tale considerazione, Banti porta come esempio per un confronto quella letteratura neorealista che in quegli anni era di grande novità. Tale narrativa, che ha come oggetto «la cronaca», manca, secondo la scrittrice, del necessario filtro di distanza, di cui si è appena puntualizzata la necessità, e proprio per questo non ne apprezza la resa. Scrive infatti l’autrice a proposito del romanzo neorealista:
E per quale ragione questo tentativo di resa meccanica, imparziale; di scrittura spezzata e sterile, se non per rispettare una verità istantanea, per lasciare intatta ed eterna un’ora del nostro tempo? […] questa narrativa, tanto sospettosa di artifici, quanto soggetta alle più dure regole ci sembra come all’embrione del postulato di romanzo storico.16
14 Fausta Garavini, Introduzione, in Anna Banti, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano, 2013, p. XX.
15 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 41. Il corsivo è mio.
Dunque, questa narrativa è presentata essenzialmente come soggetta alle stesse questioni con cui si misura il romanzo storico. Il pericolo appare a Banti il medesimo: il rischio, che per il romanzo storico è quello di rivelarsi una creazione con “troppa storia” e “troppo poco romanzo”, le sembra concretizzarsi nel romanzo neorealista. Quest’ultimo infatti, nel tentativo di resa oggettiva di un’istante determinato del proprio tempo, appare alla scrittrice eccessivamente condizionato dalla cronaca. Secondo questo giudizio critico, tali considerazioni sembrano peraltro trovare conferma pure da un punto di vista linguistico, dal momento che la lingua manifesta il medesimo appiattimento cronachistico. Anch’essa infatti è «solo apparentemente senza scelta, […] come solo in apparenza è senza scelta lo svolgersi di quei fatti».17
Quindi, nonostante l’autrice rienga che «la storia si estenda fino a ieri, fino all’ultimo minuto del nostro vivere»18, le testimonianze più nobili e dunque più riuscite – che Banti definisce sempre «realiste» e mai neorealiste19 – risultano, asuo avviso, le «meno dirette», quelle cioè dove la metafora è meglio costruita o, in altri termini, quelle dove c’è più romanzo:
Nelle testimonianze meno dirette e più nobili, si direbbe che la cronaca si allontani di un passo e si risolva in proiezione meno diretta, servita da una scrittura allucinata di semplicità e come di una scabra incertezza.20
Il parallelismo tra romanzo realista e romanzo storico viene chiaramente esplicitato nei seguenti termini:
[…] la memoria che ha fatto in tempo a scegliere […] suggerisce e trasferisce il fatto crudo dall’ordine dell’avvenuto a quello del supposto. In questo caso la cronaca è sorpassata, la storia è raggiunta, il romanzo realista è già romanzo storico.21
Come si vede dalla citazione, per Banti risulta fondamentale la distanza interposta dalla memoria, «che ha fatto in tempo a scegliere» e che, scegliendo, consente di passare dal fatto «avvenuto» a quello «supposto», che è ciò che per la scrittrice ha valore letterario. Il romanzo storico quindi, non diversamente da quello realista, non è mera riproposizione storica, ma attraverso la metafora storica comunica dei significati:
17 Ivi, p. 42.
18 Ivi, p. 41.
19 Sul giudizio di Banti sulla narrativa neorealista si confronti il cap. 7.
20 Anna Banti, Opinioni, cit., p. 42.
Ogni romanzo tessuto sui dati contraddittori della condizione umana, non ha problemi di tenuta diversi da quelli del rapporto storico, dove gli anonimi salgono dallo sfondo come protagonisti. Che, a tutt’oggi, è ancora il miglior modo di fare la storia.22
A tal proposito mi sembra interessante appaiare una riflessione analoga, fatta da Contini nel suo Un anno di letteratura, appena cinque anni prima:
Romanzo storico è uno schema che ne vale un altro, cioè non ha significato fino al momento in cui un inventore non lo riempia di contenuto.23
Tale considerazione, oltre ad essere esemplificativa di quanto detto finora, mi sembra ben evidenziare come il pensiero di Anna Banti ben s’inserisca all’interno del vivo dibattito culturale coevo.