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4. Matilde Serao

4.1   Le  virtù  di  Matilde

Le virtù di Matilde è il primo degli articoli che Anna Banti dedica a Serao. Pubblicato per le pagine di «Oggi» - rivista che esordisce proprio nel 1939 e con la quale l’autrice collabora attivamente nei suoi primi anni di attività giornalistica, tanto con contributi di critica letteraria, quanto soprattutto con articoli di costume - il testo ripercorre, in breve, la vicenda biografico-letteraria di Matilde Serao. Sembra dunque essere già in nuce quell’interesse biografico da cui prenderà forma, oltre vent’anni dopo, la biografia di Matilde.

Dell’articolo di costume l’intervento in questione mantiene l’esordio, Banti sceglie infatti di addentrarsi nell’argomento passando attraverso un cappello introduttivo nel quale tratteggia la vita delle «bambine di grande vitalità», nate nell’Italia del «terzo venticinquennio del secolo decimonono».9 E, benché lo stile di Banti e quello di Serao siano in genere tutt’altro che assimilabili, nel definire la vita di queste giovani fanciulle, la scrittrice sembra, a prima vista, richiamare quella medesima «vena popolaresca»10 che lei stessa ascrive a Serao. A ben guardare però, le raffigurazioni sociali dell’autrice sono uno strumento per andare oltre: la polemica, benché sempre sapientemente orchestrata attraverso un magistrale utilizzo della tecnica dell’ironia, non manca mai.

Ebbero mani e piedi coperti di geloni, si lavavano con l’acqua fredda, andavano a scuola gonfie di camiciole e di flanelle: quanto a ginnastica non ne facevano neanche un po’, ma, con qualche «ciappotto», rimediavano il primo paio di calze avanti di compire il settimo anno.Quando toccavano il quindicesimo pareva loro di navigare in cielo dalla gioia e dalla timidezza che si ritrovavano in corpo. Quasi per compensare e rimeritare il destino di tanta felicità si alzavano alle sei d’estate e inverno, e riempivano la giornata in modo scrupoloso, rubando il tempo della romanza, del sospiro, della lettura proibita, del diario.11

Queste donne, di cui la descrizione di Banti rappresenta la grande vitalità, sono raffigurate sopportare condizioni di vita tutt’altro che leggere, in maniera estremamente energica. La polemica tuttavia non manca e si esprime attraverso l’ironia dell’autrice, la quale asserisce che era senz’altro per compensare «il destino di tanta felicità» che era stato loro concesso che le poverine si alzavano all’alba e lavoravano indefessamente. Ed

9 Anna Banti, Le virtù di Matilde, cit., p. 5.

10 Cfr. Renato Bertacchini, Anna Banti tra il Manzoni e Matilde Serao, in «Persona», a. IV, n.1, 1° gennaio 1963, p. 4.  

ancora – toccando un argomento a lei molto caro – per polemizzare contro il destino di queste bambine e ragazze, a cui il tempo della cultura non era concesso, l’autrice afferma che, destinate a diventare mogli e madri, le fanciulle «rubavano il tempo» della lettura e della scrittura. Raffigura così una società – che non doveva essere poi tanto diversa da quella del 1939 – dove per le donne non era contemplato uno spazio di espressione, ma anzi, come si vede qui, gli unici spazi che potevano esistere erano sentiti come una colpa. Fatto quest’ultimo su cui molte scrittrici, coeve e successive, proporranno ragionamenti analoghi. Il quadro sociale delineato risulta quindi un ottimo sfondo da cui far risaltare, per contrasto, la figura di Serao.

È infatti a questa generazione, che la scrittrice ascrive «un buon numero di ottimi ingegni, femminilmente incarnati»12, tra cui proprio Serao, della quale, a questo punto, è riuscita a mettere in luce la differenza rispetto alle coetanee. La descrizione che ne dà è, a mio avviso, efficacissima: poche parole, scelte con cura; il tono leggero di un discorso gioviale e l’espressività del linguaggio in grado di rendere perfettamente la forza espressiva di un’autrice di cui Banti tiene a sottolineare, prima che la grandezza come scrittrice, quella come donna. È infatti proprio da questa forza, da questa sua “sanità”, che sarebbe derivata, secondo la nostra autrice, la sua grande capacità di romanziere:

Dicono che la sonorità del suo riso facesse tremare i pavimenti: doveva godere, a giudicare dalle sue vicende e dalla sua operosità, di una salute di ferro; e credo che a vivere si divertisse eccessivamente. Era così sana che non si rifiutò mai un boccone indigesto e un romanzo.13

Di questo carattere, di cui viene sottolineata come un refrain la marcata vitalità, tanto negli occhi svegli, quanto nel riso divertito e nell’appetito tenace, la scrittrice ricorda la natura: «una di quelle nature che amano pavoneggiarsi, assumere parti spropositate, e, con perfetta naturalezza, rientrano nei loro panni un minuto dopo e si umiliano senza bruciore».14 Il legame tracciato da Banti tra gli aspetti biografico-caratteriali di Serao e la sua produzione letteraria è colto anche da Rita Guerricchio, che, parlando proprio di quest’articolo, scrive:

12 Ibidem.

13 Ibidem.

Il raccordo vertiginoso istituito fra l’interno casalingo e la vocazione letteraria della Serao, rientra, ora come in seguito, nel corredo di attrezzi con cui la Banti affronta le sue prove di carattere critico-storiografico: è dal rapporto di un biografico primo piano con la panoramica sull’opera che scaturisce l’occasione del giudizio e della gerarchia.15

Guerricchio evidenzia, a mio avviso correttamente, quanto nelle prove critico-storiografiche di Banti risulti fondamentale l’importanza assegnata al dettaglio. Nella maggior parte dei casi è infatti dal particolare che il critico parte per definire la poetica e per valutare le realizzazioni degli autori che esamina.

Esaminando i contenuti dell’articolo, possiamo anche in questo caso constatare che il giudizio della nostra autrice è tutt’altro che piatto. Innanzitutto, dobbiamo tener presente che, in Matilde, la scrittrice poteva sicuramente scorgere una propria antesignana; oltre ad un’autrice di romanzi, Serao è stata infatti la prima donna italiana a diventare «redattrice ordinaria» di un giornale. E, anche se nell’articolo Banti ricorda non tanto i giorni de «Il Mattino», quanto l’esperienza romana di «Capitan Fracassa» – quando Serao lavorava come redattrice, in stretta collaborazione con quello che sarebbe diventato il marito, Scarfoglio, e con D’Annunzio – non manca di inserire tra le righe il suo personale parere: «(gran conquista)».

Sebbene ai propri esordi come critico, Banti mostra poi già una certa attenzione al problema della lingua, che, come abbiamo visto, l’avrebbe interessata molto anche negli anni successivi; a proposito dello stile di Serao scrive infatti:

Ma quello sguardo s’immagina di smalto, freddo e fisso, quando l’assillo dei ferri del mestiere arrivasse a dominarlo. Ferri che scottano e tagliano una volta che si sono cimentati e arrotati sulle definizioni del metodo, dello stile, di quella benedetta lingua italiana così facile da parlare, così dura alla penna. Le formule del «verismo», Zola, Flaubert, e il languido Bourget saltano e risaltano sulle solite padelle a ogni discussione letteraria. Con un sottointeso di furberia bonacciona Matilde tira a campare […]16

La scrittrice evidenzia dunque la difficoltà di Serao ad interagire con una lingua che è difficile da maneggiare, quasi anticipando i contenuti dell’articolo successivo, laddove la sua riflessione si incentrerà proprio sullo stile di Serao, discutendo la famosa accusa:

15 Rita Guerricchio, Vite vere e immaginarie di Anna Banti, in in L’opera di Anna Banti. Atti del

Convegno di studi a Firenze, 8-9 maggio 1992, a cura di Enza Biagini, cit., p. 75.  

«Matilde non sa scrivere»17. Come si può vedere dalla citazione, Banti individua poi una parentela con la narrativa verghiana, con cui ritiene che Serao si sia confrontata. E, dopo aver ricordato le critiche mosse dal carducciano Scarfoglio, scrive che «avere un problema in comune con Giovanni Verga non è, purtroppo, a questi giorni un motivo di orgoglio».18 Un’affermazione che, considerando gli altri giudizi che la scrittrice dà dello stile di Verga e il «purtroppo» che capovolge il senso apparente della frase, è ancora una volta da intendersi come ironica. Ne è un’ulteriore conferma il fatto che subito dopo venga detto, con il medesimo tono scanzonato, che l’«ottimismo» di Matilde disattende le «indicazioni preziose» della critica e che l’autrice non smette di scrivere. Dunque, come si vedrà meglio nell’articolo successivo, è proprio quando si avvicina a Verga, che, secondo la nostra autrice, Serao ottiene i risultati migliori.

Per quanto riguarda la produzione di Serao, dobbiamo tener presente che per Banti la parabola della scrittrice napoletana nasce, si sviluppa e si estingue quasi interamente nell’ultimo quindicennio del diciannovesimo secolo; della produzione novecentesca salva infatti solo Suor Giovanna della Croce. È questo pertanto l’arco di tempo che il critico prende in esame: ricorda Cuore infermo e Fantasia, puntualizza come Serao portasse in dote un saggio del suo «modo migliore» nel racconto di argomento romano Le virtù di Checchina, e apprezza come nel Ventre di Napoli si vedano concretamente realizzate le «attitudini di osservazione e di resa autentica e scabra» di Matilde. Mi pare inoltre interessante notare – per quanto la cosa certamente possa non stupire – che, per definire tali modalità di raffigurazione, la scrittrice si serve di un’analogia pittorica, parla infatti di un vero e proprio «microcosmo pittorico alla Migliaro».19

Banti non manca poi di individuare anche le «turbinose sovrapposizioni verbali», che caratterizzano lo stile dell’autrice. E, in quest’occasione, il riferimento alla lingua di D’Annunzio non mi sembra del tutto assente; il collegamento non viene esplicitato, tuttavia non mi pare che egli resti discosto, tant’è che viene anche richiamata più volte nel corso dell’articolo, la sua vicinanza con Serao. Queste le parole della scrittrice:

Che la Serao lavorasse con lentezza, con fatica, è un asserto che non convincerà nessuno: la sua stesura tradisce propositi affollati sulla carta e incalzati da turbinose

17 Faccio qui riferimento ad un pregiudizio comune, che si origina da un’opinione espressa da Scarfoglio in una lettera a Ojetti. cfr. Infra.  

18 Anna Banti, Le virtù di Matilde, cit.

sovrapposizioni verbali. La scelta è al lettore, come nelle vendite all’asta. Quando la prima curiosità è soddisfatta e i pezzi migliori son messi da parte, il tritume di sgombero, le chincaglierie si vorrebbero prendere in mano e farsene raccontare storielle di famiglia […]. Tira, tira, quelle minutaglie non si staccano, esse sono incorporate all’impalcatura del romanzo, incorporate, talvolta sostituite all’osso.20 Banti coglie il gusto della parola, quella parola ricca, sovrabbondante, che forma e dà corpo alla pagina; lamenta però quei casi, i meno riusciti, in cui tale gioco di sovrabbondanza diventa l’essenza stessa della pagina. Cita ad esempio La conquista di Roma e Riccardo Joanna.

L’autrice considera invece che «l’opera che la rappresenta intera» sia Il paese di Cuccagna, di cui contesta il giudizio poco riconoscente dei lettori coevi, e nota come in questo romanzo anche «i languori e i sapori dolciastri paion legati ad un ufficio suggestivo».21 Secondo questo parere critico, in tale opera, l’attitudine di osservatrice e quella di affabulatrice di Serao sembrano compenetrarsi, arricchendosi l’una con l’altra. La scrittrice ritiene infatti che l’unico difetto del Paese di Cuccagna sia l’assenza di «un respiro più largo e più severo per poter dominarsi e dominare», la mancanza cioè di una prospettiva di riferimento nazionale, come quella che trova invece raggiunta dall’opera di Verga. Assunto, quest’ultimo, che conferma peraltro il valore indiscusso che lo scrittore ha per Banti.

Al contrario, un buon risultato in questa direzione Banti lo riconosce a Suor Giovanna della Croce, di cui, ancora una volta, dà un’efficace descrizione pittorica.

[…] i temi regionali non si accavallano, ma si isolano in aspetti squadrati da fortissime ombre e con accenti di una insolita morale fermezza. Le pagine sul dormitorio pubblico rispondono ad una tradizione di caravaggesco squallore, i lunghissimi lamenti delle claustrate soppresse s’intonano ad un ritmo sinceramente patetico: dalla figura della protagonista il superfluo e l’inespresso si staccano e cadono senza sforzo. Su questo libro la Serao avrebbe dovuto posar la penna per finire in bellezza.22

Un aspetto fra quelli rilevati che mi pare significativo notare – sul quale avremo modo di tornare – è il fatto che la protagonista è una monaca. Mi sembra infatti che, considerando le già viste opinioni bantiane sul personaggio della monaca di Monza, si possa quanto meno affermare che la scrittrice vede in questa figurazione una buona

20 Ibidem. Il corsivo è mio.

21 Ibidem.  

opportunità per mettere in figura dei personaggi complessi, adatti cioè ad incarnare la problematicità.

Banti, infine, con la stessa schiettezza con cui è solita porsi, non si trattiene dal presentare un’opinione che avrà poi occasione di ribadire numerose volte, ovvero che sarebbe stato meglio se Serao avesse scelto di fermarsi lì. Come già anticipato, il giudizio di Banti sull’ultima produzione di Serao è infatti assai negativo.