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Appellabilità oggettiva e soggettiva La norma fondamentale relativa alle

sentenze dibattimentali.

Il tema dell’appellabilità in senso soggettivo ed oggettivo si connota di una peculiare delicatezza, soprattutto laddove pone in gioco in via diretta diritti fondamentali della persona che, coinvolti in una vicenda processuale dall’esito nefasto, rischiano di subire pregiudizi stabili e (tendenzialmente) definitivi a cagione di un sistema ispirato al principio di tassatività.

Si tratta, probabilmente, di un segmento della procedura penale che solo apparentemente si dimostra asettico rispetto a visioni di politica legislativa, sembrando contrassegnato invece da riferimenti oggettivi (il provvedimento da sottoporre a censura) e soggettivi (le parti del processo) che, vincolando in qualche modo il legislatore nella predisposizione delle relative soluzioni, rende esse manovrabili sul piano squisitamente tecnico.

Nella realtà, però, le cose stanno diversamente, costituendo il profilo della impugnabilità in senso oggettivo e, soprattutto per quel che concerne la posi- zione dell’imputato (ma, anche, del pubblico ministero), quello della impu- gnabilità in senso soggettivo il centro di valutazioni che intersecano e, entro certi limiti, bilanciano scelte di valore che, effettuate in un senso o nell’altro, spostano notevolmente il baricentro della forma di tutela apprestata a valori

15 Esamina le ragioni dell’opzione in favore del tribunale in composizione monocratica, con

l’usuale completezza, Spangher, Le impugnazioni, in Il giudice di pace. Un nuovo modello di giusti-

zia penale, a cura di Scalfati, Padova, 2001, 373, al quale si deve la notazione segnalata nel testo. Ma

v., anche, Id., Le impugnazioni, in La competenza penale del giudice di pace, D.lgs. 28 agosto 2000,

n. 274, Milano, 2000, 167, ove la scelta legislativa viene ancora di più criticata, in quanto elimina la

fondamentali.

L’appellabilità, infatti, non è materia anassiologica, una sorta di spazio neutro in cui il legislatore può muoversi senza incidere su interessi – del singo- lo, della giustizia, dell’ordinamento – meritevoli di tutela.

Al contrario, essa è il punto di convergenza di scelte assiologicamente orientate e il più delle volte, nei sistemi a Costituzione rigida come il nostro, finanche costituzionalmente orientate, entrando in gioco principi fondamentali quali la parità delle parti, l’obbligatorietà dell’azione penale, il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza.

È, inoltre, il punto di sfogo di scelte comparative in cui le soluzioni si bi- lanciano con il sistema dei modelli processuali alternativi in vista del consegui- mento delle finalità tipiche di essi, nonché con le soluzioni in concreto adottare sul tema della legittimazione investigativa delle parti.

È stato evidenziato, con estrema efficacia, che «[l]a ricostruzione dell’as- setto normativo relativo all’appellabilità oggettiva è prospettiva esegetica di non agevole decantazione»16.

Ed infatti, la sequenza di interventi legislativi che, unitamente alle prese di posizione della Corte costituzionale, hanno interessato il tema ha costituito la causa di avvicendamenti normativi che hanno coinvolto, come appena detto, essenziali scelte di valore e non semplicemente considerazioni di natura tec- nica.

Come è noto, il sistema originariamente delineato dall’art. 593 c.p.p. era fondato sulla regola generale dell’appellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero e dell’imputato17, regola

che soffriva di limitate eccezioni relativamente a fattispecie contravvenzionali ritenute in astratto – in caso di proscioglimento – ovvero in concreto – in caso di condanna – talmente blande (poco allarmanti, cioè, e quindi lievemente san- zionate) da apparire incompatibili con il dispendio di tempi e di energie tipico dell’accertamento penale di seconda istanza, oppure in ordine a tipologie di proscioglimenti – con formula “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” – capaci di produrre effetti tali da neutralizzare qualsiasi

16 Gaeta, Macchia, L’appello, cit., 348.

17 V., in questi termini e fra i tanti, De Caro, Maffeo, Appello, cit., 51; Tranchina, Di Chiara,

Appello, cit., 202. Sulla compatibilità costituzionale della previsione di un potere di appello del

pubblico ministero merita di essere segnalata la replica di Rocca, Sono gli appelli del pubblico mi-

nistero che inquinano il giusto processo, in Cass. pen., 2004, 4341, a Padovani, Il doppio grado di giurisdizione. Appello dell’imputato, appello del P.M., principio del contraddittorio, in Cass. pen.,

interesse all’impugnazione da parte dell’imputato.

Il sistema, però, è stato stravolto dalla l. 20 febbraio 2006, n. 4618, la quale,

nata purtroppo «sotto una cattiva stella»19, ha parzialmente ridisegnato – ed in

ciò si rinviene il punto maggiormente qualificante di un intervento legislativo che «pur nella sua laconica intitolazione […] investe il più ampio ambito del- le impugnazioni […] senza trascurare estemporanee incursioni nel tema delle regole di giudizio cui devono conformarsi il pubblico ministero ed il giudi- ce, rispettivamente, in sede di esercizio dell’azione penale […] e nel caso di pronuncia della sentenza di condanna»20 – il perimetro dell’appellabilità delle

sentenze di proscioglimento21.

La legge, difatti, mirava a superare una questione specifica e particolare, «senz’altro momento di crisi nel sottosistema dei gravami e certamente biso- gnosa di soluzione»22, scaturente dall’ipotesi in cui la condanna dell’imputato

fosse deliberata dal giudice di secondo grado, sollecitato dall’impugnativa del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento: «situazione in cui all’imputato, condannato per la prima volta in appello, è inibito promuovere un

18 Essa è definita da Lattanzi, Una legge improvvida, in Impugnazioni e regole di giudizio nella

legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di Bargis,

Caprioli, Torino, 2007, 485, il frutto di una iniziativa parlamentare estemporanea, che si dice ispirata da interessi personali, portata avanti disinvoltamente e senza dare peso alle osservazioni critiche da più parti formulate. Di legge disorganica parla, invece, Ferrua, La sentenza costituzionale sull’inap-

pellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell’imputato, in Dir. pen. e proc., 2007, 5,

611, per il quale «[u]na scelta radicale, come l’inappellabilità del proscioglimento, avrebbe dovuto inserirsi nel quadro di una generale riforma delle impugnazioni, volta a favorire, insieme ai diritti dell’imputato, anche la ragionevole durata del processo».

19 Filippi, La Corte costituzionale disegna un processo accusatorio “all’italiana”, in Il nuovo

regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, a cura di Filippi, Padova, 2007,

1.

20 Presutti, L’inappellabilità, cit., 1195. Come evidenzia, poi, Belluta, Ripensamenti sulla

“giustiziabilità” della sentenza di non luogo a procedere, in Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di Bargis,

Caprioli, Torino, 2007, 125, nel complesso «non si può dire che la novella in esame abbia posto mano alla materia delle impugnazioni con la dovuta calma e con la preziosa ottica sistematica che al legislatore andrebbe richiesta». V., invece, Spangher, Tra resistenze applicative ed istanze restaura-

trici, in La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di Gaito, Torino,

2006, 237, il quale ritiene che la riforma del sistema delle impugnazioni «present[asse] i tratti di una “filosofia” dai contorni precisi».

21 Per una compiuta sintesi dei lavori preparatori della legge c.d. “Pecorella” v., tra gli altri,

Gaeta, Macchia, L’appello, cit., 351; Valentini, L’iter parlamentare della riforma, in Impugnazioni

e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costitu- zionali, a cura di Bargis, Caprioli, Torino, 2007, 3.

controllo di merito restando, di fatto, privo di un secondo grado di giudizio»23.

Il testo dell’art. 593 c.p.p., nella versione modificata dalla legge appena citata, prevedeva che, salvo quanto previsto dagli artt. 443, co. 3, 448, co. 2, 579 e 680 c.p.p.24, il pubblico ministero e l’imputato potessero proporre appel-

lo contro le sentenze di condanna, fatta salva l’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda.

Ribaltando la prospettiva, dunque, in ragione di un’ipotizzata esigenza di garanzia del principio del doppio grado di giurisdizione, l’art. 593, co. 2 c.p.p. stabiliva che l’imputato ed il pubblico ministero non potessero appellare con- tro le sentenze di proscioglimento se non nelle ipotesi di cui all’art. 603, co. 2 c.p.p., ossia in caso di sopravvenienza di nuove prove dopo il giudizio di primo grado che risultassero decisive.

Come ha fatto notare attenta dottrina, nell’ambito della fattispecie i due presupposti attinenti alla prova (novità e decisività) si affiancavano ad un dato cronologico (la sopravvenienza della prova stessa rispetto al giudizio di pri- mo grado) e si annodavano con esso secondo una logica in cui «ciascuno dei requisiti richiesti incide ed è influenzato dalla presenza degli altri e la loro previsione congiunta si riflette sull’interpretazione della condizione comples- siva: la decisività delimita il novum probatorio la cui sopravvenienza qualifica entrambi»25.

Era evidente, comunque, che il regime di appellabilità delle sentenze di proscioglimento – stabilito in maniera indifferenziata alla luce del venire meno dei casi di esclusione previsti dalla precedente versione della norma26 – era

legato alla prospettazione, collocata necessariamente nell’atto di appello, di un’esigenza acquisitiva connessa alla sopravvenienza di nuove prove ed alla qualificazione di esse (sempre in chiave prospettica, ovviamente) in termini di decisività27, mentre l’ammissibilità dell’appello era subordinata ad una espres-

sa statuizione del giudice28.

23 Presutti, L’inappellabilità, cit., 1195.

24 Norme riguardanti, rispettivamente, il regime dell’appello avverso le sentenze pronunciate

all’esito del giudizio abbreviato, del patteggiamento, ovvero delle sentenze che dispongono l’appli- cazione di misure di sicurezza.

25 Presutti, L’inappellabilità, cit., 1209.

26 Presutti, L’inappellabilità, cit., 1203. V., inoltre, Spangher, Legge Pecorella, cit., 69. 27 Faceva notare Marzaduri, Così nell’assetto degli istituti il legislatore ricerca nuovi equilibri,

in Guida al dir., 2006, 10, 51, come la decisività potesse emergere anche a seguito di un’invalidazio- ne dei contenuti ricavati dal precedente materiale probatorio.

28 Faceva notare, difatti, Presutti, L’inappellabilità, cit., 1209, come 1mentre alla stregua della

Ragione per cui si era stabilito che qualora questi, in via preliminare, non avesse disposto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, avrebbe dovuto pronunciare ordinanza d’inammissibilità dell’appello e, entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento, le parti avrebbero potuto proporre ri- corso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado.

Le innovazioni apportate al regime di appellabilità delle sentenze di pro- scioglimento hanno fatto sì che da più parti fossero prospettati dubbi di legit- timità costituzionale29, censurandosi, in particolare, la violazione “irragione-

vole” del principio di parità delle parti, alla luce della considerazione che «il pubblico ministero è portatore di interessi pubblici che collidono pur sempre con quelli dell’imputato e, pertanto, precludergli l’appello contro una senten- za di assoluzione significa menomare ingiustificatamente e irragionevolmente uno dei due poli del contraddittorio processuale turbandone l’equilibrio»30.

L’altro, fondamentale, motivo di frizione con i principi costituzionali31 è

stato individuato nella violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, osservandosi come, sebbene la giurisprudenza della Corte costituzio- nale avesse affermato che il potere di appello del pubblico ministero non potes- se essere in nessun caso ricondotto all’obbligo di esercitare l’azione penale32,

comunque «limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non [potessero] che riverberarsi sulla completezza delle possibilità di esercizio dell’azione»33.

È chiaro (e lo è stato fin da subito) che un ruolo fondamentale nella risolu- zione delle problematiche poste sul tappeto dalla riforma è rivestito dall’orien- tamento costituzionale teso a negare l’attribuzione di un rilievo costituzionale

missibile, stando a quella dell’art. 593 comma 2 c.p.p. l’accesso all’appello è reso ammissibile dalla presenza di una richiesta di rinnovazione dotata dei requisiti stabiliti». V., inoltre, Scalfati, Salvo

eccezioni appellabile la sola condanna, in Guida al dir., 2006, 10, 57.

29 Non ravvisava profili di illegittimità costituzionale, invece, Scalfati, Salvo eccezioni, cit.,

54. V., inoltre, Gualtieri, Il secondo grado di giudizio, cit., 1821.

30 Ghizzardi, Il giudizio abbreviato tra teoria e prassi giurisprudenziale, Bari, 2006, 84. 31 Si è lamentata, inoltre, la violazione del diritto di difesa delle vittime del reato. V., in par-

ticolare, Corte di Appello di Brescia, Sez. II, ord. 10-14 marzo 2006. Sul punto, tuttavia, appaiono persuasive le argomentazioni di Frigo, Ignorati i profili di illegittimità ereditati dalla vecchia disci-

plina, in Guida al dir., 2006, 13, 94, secondo il quale: «Che i diritti delle vittime dei reati di agire e di

difendersi trovi la sua protezione costituzionale negli articoli 24, commi 1 e 2, della Costituzione non è certo revocabile in dubbio. Ma neppure si può dubitare del fatto che l’esercizio dell’azione civile risarcitoria o restitutoria nel processo penale non sia costituzionalmente dovuta».

32 Cfr., tra le tante, C. cost., 28 giugno 1995, n. 280; C. cost., 27 giugno 1997, n. 206. 33 Corte di Appello di Brescia, Sez. II, ordinanza 10-14 marzo 2006, con la quale è stato solle-

vato incidente di costituzionalità dell’art. 593 c.p.p. V., in dottrina, Ghizzardi, Il giudizio abbreviato, cit., 88. Nonché, con ricchezza di riferimenti bibliografici, Presutti, L’inappellabilità, cit., 1234.

al principio del doppio grado di giurisdizione34.

Mancando, infatti, una disposizione di rango super-primario che impon- ga al legislatore di prevedere un meccanismo di verifica delle sentenze penali diverso ed ulteriore rispetto al controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione, l’individuazione di parametri costituzionali effettivamente suscet- tibili di entrare in sofferenza per effetto della novella sembrava operazione priva di serie prospettive di successo, incontrando ostacoli insormontabili nelle tradizionali affermazioni della Corte costituzionale tese, in primo luogo, ad escludere che la facoltà di impugnazione del pubblico ministero costituisca una estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale.

Infatti, la Corte ha più volte ribadito che il potere di appello del pubblico ministero non può collegarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale, come se di tale obbligo esso fosse – nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell’accusa – una proiezione necessaria ed ineludibile.

Un orientamento, questo, sufficientemente consolidato e fondato su una serie eterogenea di dati che la Corte costituzionale ha con puntualità esaminato nelle varie occasioni in cui è stata investita della questione.

Nei lavori preparatori della Costituzione, ha innanzitutto evidenziato, non è dato rinvenire la “benché minima traccia” di un collegamento tra un obbligo siffatto ed il potere di impugnazione – in particolare modo, il potere d’appello – del pubblico ministero, quasi che quest’ultimo fosse un’estrinsecazione od una conseguenza necessaria del dovere di esercitare l’azione penale.

Dall’esame dei lavori preparatori risulta, infatti, che la costituzionaliz- zazione dell’obbligo di esercitare l’azione penale fu trattata sotto tre profili: quello concernente i rapporti del pubblico ministero con il potere esecutivo nel momento iniziale dell’azione penale; quello relativo alla possibilità di preve- dere eccezioni a tale obbligo nel senso di possibili sospensioni o ritardi nel suo esercizio e, infine, quello inerente al controllo del giudice sui possibili casi di mancata attivazione del pubblico ministero rispetto ad una determinata notitia

criminis.

I profili trattati, ritiene la Corte, sono tutti afferenti ad argomenti che at- tengono al momento iniziale dell’azione penale, senza il minimo, neanche im- plicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi d’impugna-

34 V., per tutti, Spangher, Appello nel diritto processuale penale, cit., 196. V., in giurispruden-

za, C. cost., 15 giugno 1995, n. 280; C. cost. (ord.), 4 luglio 2002, n. 316. Successivamente, quindi, il principio è stato ulteriormente ribadito in C. cost., 6 febbraio 2007, n. 26.

zione, di talché il dato storico è sintomatico di una opzione costituzionale tesa a distinguere nettamente il tema dell’azione da quello delle impugnazioni.

Ma, al di là di queste constatazioni – ha proseguito la Corte nel suo argo- mentare – si deve rilevare che tutto il sistema delle impugnazioni penali, ed in particolare dell’appello, tanto durante la vigenza del codice abrogato quanto sotto il vigore del codice attuale, depone nel senso che il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l’esercizio, non è riconducibile all’obbligo di esercitare l’azione penale35.

Inoltre, il Giudice delle leggi ha in più occasioni riconosciuto la compa- tibilità con il sistema costituzionale di una disciplina ordinaria che compendi disparità tra i poteri delle diverse parti processuali, in quanto connesse alla loro differente posizione istituzionale e funzionale36.

Ma v’è di più, poiché in dottrina non sono mancate prese di posizione orientate invece a censurare, proprio sul piano dei valori costituzionali, la pre- visione di un potere d’appello del pubblico ministero, in particolare concen- trando l’attenzione sull’ipotesi di provocazione di un nuovo grado di giudizio avverso una sentenza assolutoria di primo grado.

Oltre a sottolineare la “disutilità sociale” dell’appello del pubblico mini- stero37, si è rilevato, su questo versante, che l’iniziativa della parte pubblica

per un verso determina la violazione del diritto di difesa dell’imputato, il quale viene privato dall’iniziativa dell’antagonista del potere di incidere sui limiti della devoluzione al giudice del grado successivo38.

35 Così, in particolare, C. cost., 28 giugno 1995, n. 280. Ma v., altresì, C. cost. (ord.), 9 maggio

2003, n. 165; C. cost. (ord.), 21 dicembre 2001, n. 421.

36 V., per tutte, C. cost., 24 marzo 1994, n. 98; C. cost. (ord.), 21 dicembre 2001, n. 421. In

dottrina v., in particolare, Spangher, Ma la legge è necessaria: ecco perché. Servono più garanzie

ai diritti di difesa, in Dir. e giust., 2006, 5, 94, il quale ritiene infondata qualsiasi censura fondata

sull’asserita lesione del principio di parità delle parti in quanto «il principio di eguaglianza – di cui quello di parità è estrinsecazione – implica la necessità di trattare in modo omogeneo le situazioni omogenee e in modo differenziato le situazioni diversificate». V., per analoghe considerazioni, Fer- rua, Inappellabilità: squilibri e disfunzioni. No dal Colle per salvare la Cassazione, in Dir. e giust., 2006, 5, 89.

37 L’espressione è di Stella, Sul divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro

le sentenze di assoluzione, in Cass. pen., 2004, 756, il quale mette in evidenza come dalla sequenza

proscioglimento in primo grado-condanna in appello, riferita alla medesima persona, venga scossa la forza morale dei precetti penali, in quanto si insinua nella comunità il dubbio che i giudici condanni- no degli innocenti.

38 Il profilo di censura è evidenziato, fra gli altri, da Padovani, Il doppio grado di giurisdizione,

cit., 4029, il quale conclude sul punto rilevando che quando è appellante il solo pubblico ministero, l’imputato subisce una vera e propria amputazione del diritto di difesa, in vistoso contrasto con l’art.

Per altro verso, si è ravvisata nella fattispecie la lesione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, apparendo evidente alla dottrina che ha sottolineato siffatti profili problematici che «in appello il contraddittorio si riduce alla mera discussione, che […] non costituisce epilogo del metodo co- noscitivo che anima e innerva il contraddittorio, ma esercizio retorico, magari nobilmente svolto, ma irrimediabilmente insidiato dalla vacuità»39.

Il quadro di valori delineato dalla Corte costituzionale, alla luce del qua- le la giurisdizione di merito si è, in varie occasioni, determinata a ritenere l’infondatezza delle questioni di costituzionalità dedotte in relazione al nuovo testo dell’art. 593, co. 2 c.p.p.40, dunque, appariva fornire una edificazione si-

stematica idonea a proteggere rispetto a possibili censure l’innovato regime di appellabilità delle sentenze penali.

La Corte costituzionale, invece, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, l. 20 febbraio 2006, n. 46 – per violazione dell’art. 111, co. 2 Cost. – nella parte in cui ha escluso il potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento41.

Pur ribadendo, in linea con la consolidata giurisprudenza costituzionale, che il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato, la Corte ha precisato che alterazioni della simmetria di poteri e facoltà delle parti sono compatibili con i principi costituzionali esclusivamente se contenute “entro i limiti della ragionevolezza”, alla luce di una verifica da effettuare sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparità e l’ampiezza dello “scalino” rispetto a quest’ultima e mirando segnatamente ad acclarare l’adeguatezza della ratio e la proporzio- nalità dell’ampiezza di tale “scalino” rispetto a quest’ultima42.

Ciò posto sul piano generale e metodologico, la Corte ha precisato che anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà,