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L’approvazione dell’altro e il riconoscimento come momento di integrazione

Quali forme d’integrazione?

4.3 L’approvazione dell’altro e il riconoscimento come momento di integrazione

La seconda dimensione nella quale è stato possibile organizzare i temi emersi nei colloqui è quella dei rapporti, instaurati con gli italiani e non solo, della socialità come incontro, comunicazione e comprensione. Ancora una volta davanti agli occhi dell’osservatore si schiude un panorama dai variegati contorni: da un lato l’interazione con le protagoniste ha lasciato trasparire alcune contraddizioni e qualche incertezza, da un altro a colpire è la tendenza a ricondurre tutto al successo nel lavoro come prova, anche eccessivamente “sbandierata”, di un inserimento positivo e completo. Nelle parole, talvolta perfino nella gestualità, si coglie il desiderio di mostrarsi diverse rispetto alla figura omologante e svilente che tende a delineare il contesto di arrivo. Forse proprio per questo è molto forte il desiderio di richiamare l’attenzione sulla persona: in molti casi il fluire del racconto lascia spazio al voler presentare le capacità professionali come spia del valore personale.

Certamente l’inclusione non può dirsi assente ma si presenta come, pur a distanza di anni, un processo che deve essere costantemente coltivato. L’attenzione è posta in modo particolare sulle persone e sui rapporti interpersonali: al “buon lavoro” è fatta corrispondere la “buona integrazione” misurata, si potrebbe dire, in base al grado di approvazione che si ottiene da parte degli italiani che, in questo caso, sono considerati tolleranti verso lo straniero, anche se non sempre pronti ad accoglierlo.

Quando poi si cerca di capire in che modo si manifesta questa ricchezza di rapporti, sorgono alcune difficoltà e interrogativi.310 Non è stato possibile esplorare a fondo questa dimensione: la disinvoltura con cui parlano del lavoro, dei clienti e dei successi è in parte ridimensionata. Alcune ammettono di non avere molto tempo al di fuori del lavoro che resta lo spazio dove passano la maggior parte del loro tempo. Pur con qualche sfumatura la socialità appare ristretta a relazioni non particolarmente profonde sia con gli autoctoni, sia con i connazionali con i quali non si mantengono legami stretti ma sporadici. Solo in due circostanze si coglie un atteggiamento esplicitamente diverso. Nel primo caso si tratta di G. (I.8) che è in Italia da circa otto anni, non parla in modo approfondito di amicizie ma nel corso del colloquio spiega che ha dei contatti con alcuni connazionali, scrive articoli e traduce alcuni documenti delle pratiche dell’ufficio; la sua attività la porta ad avere molti contatti con i connazionali con cui passa molto tempo anche al di fuori delle occasioni di lavoro. Afferma di sentirsi inserita ma che c’è molta strada ancora da fare. Nel secondo si fa riferimento ad A. (I.4) che affronta con maggiore consapevolezza il problema delle amicizie quando ci si trova in un ambiente diverso da quello “di casa”: in questo caso la variabile dell’area di provenienza (la Tunisia) si “riappropria” di una valenza centrale. La differenza culturale spinge A. a ritenere impossibile coltivare in Italia delle vere amicizie perché, afferma, mentalità e abitudini sono troppo diverse e non è sicura del comportamento da tenere. Si vedrà in seguito che questa sua perplessità tende a manifestarsi anche in riferimento ad altri argomenti.

9 “Le ricerche sin qui condotte convergono tuttavia nel mostrare come gli immigrati tendano ad avere cerchie sociali più piccole e compatte dei nativi, cosa non sorprendente visto che una parte rilevante delle relazioni personali si forma nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, quindi generalmente prima dell’emigrazione. L’acquisizione di nuove amicizie è quindi un processo che richiede un certo tempo, ma sul quale incidono in misura rilevante l’età, le condizioni di vita, la partecipazione al mercato del lavoro e l’acquisizione della lingua italiana. Per quanto riguarda lo studio dei processi di integrazione, l’interesse maggiore è riservato alla composizione delle reti amicali e ai tipi di partecipazione sociale che sembrano incentivare maggiormente la nascita di relazioni inter-etniche” Istat, (2013), Integrazione. Conoscere, misurare, valutare, p 93 e ss

4.3.1 La cittadinanza e le seconde generazioni

Le considerazioni sui rapporti intrattenuti con gli italiani hanno riguardato diversi argomenti tra i quali sono emersi, nella quasi totalità dei casi, la questione della cittadinanza e, nel caso delle madri, il futuro dei figli.

Nella ricerca di approvazione e riconoscimento come esito del rapporto con le persone, la cittadinanza sembra quasi diventare una questione secondaria o in ogni caso non particolarmente determinante rispetto alla valutazione complessiva della loro esperienza. Anche qui si sono colte, talvolta, alcune piccole contraddizioni: riconoscendo l’importanza che questo tema assume nel quotidiano dibattito sull’immigrazione nel paese, alcune di loro hanno cercato inizialmente di non esporsi troppo sull’argomento per poi lasciarsi andare ad alcune considerazioni. Di fatto, con un’unica eccezione, è ampiamente condivisa la concezione della cittadinanza come un “pezzo di carta” utile ma non essenziale alla definizione del processo di integrazione: la quotidianità e i rapporti con le persone non sembrerebbero, nelle loro parole, dipendere da questa dimensione. Il fatto che questa posizione sia ugualmente espressa da quante sentono di essere tutelate loro status di cittadine europee e da quante non ne sono in possesso, rende tale constatazione ulteriormente interessante. Sorgono rispetto a questo punto alcuni interrogativi riassumibili come segue: “è realistico consacrare la centralità della dimensione giuridica rispetto alla natura intrinsecamente multidimensionale del processo di integrazione?”311. Tale domanda è significativamente riportata in un recente rapporto elaborato dall’Istat sulla valutazione e la misurazione del processo di integrazione: le perplessità sollevate

311 “L’analisi dei fenomeni demografici, in particolare di quelli migratori, è spesso condizionata dalla scarsa disponibilità dei dati. L’applicazione del criterio della cittadinanza per classificare una popolazione consente evidentemente l’adozione di fonti di dati che, rispondendo a finalità amministrative, si basano sui principi giuridici nazionali. […]Tenuto conto delle raccomandazioni delle Nazioni Unite per le statistiche sulle migrazioni internazionali, la normativa delle statistiche comunitarie in materia di immigrazione ed asilo, identifica infatti la cittadinanza come lo “specifico vincolo giuridico tra un individuo e lo Stato di appartenenza, acquisito per nascita e naturalizzazione (...), a seconda della legislazione nazionale”. Attraverso tale scelta si assume implicitamente che una popolazione immigrata rimanga “diversa” finché conserva la sua cittadinanza d’origine e poi si assimili ovvero si confonda con gli effettivi della popolazione del paese di accoglienza. Così facendo, l’analisi del fenomeno tende a riflettere più le legislazioni nazionali che gli effettivi percorsi individuali.” Istat, (2013), Integrazione. Conoscere, misurare, valutare p. 103

dalle parole delle intervistate in questa ricerca trovano in effetti conferma nel riconoscimento di dover fare uno “sforzo” di valutazione e comprensione dello scarto che può determinarsi tra una cittadinanza formale e una sostanziale. Giungere a questa consapevolezza e riconoscerne l’importanza comporta necessariamente il dover “tenere simultaneamente in considerazione le conseguenze economiche (il lavoro, la casa, la domanda di servizi pubblici, etc.) e le ripercussioni sociali, culturali e politiche (tra cui la naturalizzazione) che sono indissolubilmente legate alle esperienze migratorie”.312

Accanto a questa concezione strumentale della cittadinanza emerge in modo significativo un atteggiamento diverso rispetto ai figli o in generale alle seconde generazioni. Nella riflessione delle madri quella dei figli si presenta come un’esperienza fortemente diversa dalla loro: la strada dell’integrazione è vista priva di grossi ostacoli perché “sono ben inseriti”, al tempo stesso non si ignora il problema delle difficoltà che vivere eventualmente in un contesto altro possa provocare, in termini di aspettative di mobilità, dove le stesse società riceventi manifestano una “ansietà di assimilazione”.313 In questo caso si ritiene giusto e necessario che i figli arrivati da piccoli, o nati, in Italia siano facilitati nell’accesso alla cittadinanza perché qui di fatto crescono, costruiscono amicizie e coltivano la loro formazione. Alcune esprimono qualche preoccupazione in generale sui giovani e sulla fragilità che possono avere dalla doppia appartenenza e dalla confusione o dall’incertezza che questa può provocare. D’altra parte in almeno due occasioni si è potuto percepire un certo disagio di fronte al particolare attaccamento all’Italia manifestato dai figli; è nuovamente A. (I.4) a mostrare quasi una preoccupazione per il figlio di sei anni che è nato in Italia e si sente italiano. Nella veste di donna e di madre A. sente il bisogno, e la responsabilità, di ricordargli costantemente quali sono le sue origini tanto da lasciarsi sfuggire la frase “per fortuna lui non va alla scuola

italiana”. Rispetto a questo punto sembra interessante ricordare come le donne

migranti assumano il ruolo di custodi della cultura di origine e che siano al tempo stesso considerate fondamentali in veste di mediatrici tra i due mondi. La lontananza

312 Idem p. 104 313

Ambrosini M., (2005) Quando i minori sono “altri” in De Bernardis A., (a cura di), Educare altrove: l’opportunità educativa dei doposcuola, Franco Angeli, Milano

dalla famiglia di origine, dalla rete informale di conoscenze, dal vicinato, contribuiscono a indebolire la famiglia, e principalmente la donna, nella funzione educativa: il nuovo contesto comporta la nascita di “processi educativi spesso intrisi di ambivalenza tra attaccamento a codici culturali tradizionali e desiderio di integrazione e di ascesa sociale nel contesto della società ospitante, tra volontà di controllo delle scelte e dei comportamenti dei figli e confronto con una cultura che enfatizza i valori tra autonomia personale, dell’emancipazione e, non ultimo, dell’uguaglianza tra uomini e donne”.314

Nel caso di A. si può forse ipotizzare una certa preoccupazione rispetto alla possibilità che il figlio sia esposto a quei processi cui, in effetti, vanno incontro le seconde generazioni: un forte senso di discontinuità con l’esperienza dei genitori dal punto di vista dei comportamenti e delle aspettative e una crisi rispetto alla capacità di saper vivere in equilibrio tra i due mondi. Altre difficoltà sono quelle che provengono dal “mondo di qui” e dal disagio manifestato nel riuscire a gestire il “problema seconde generazioni”.315 La possibilità che i figli finiscano per sentirsi in bilico e rifiutati da entrambi gli universi è una preoccupazione molto forte nel pensiero di queste donne. Su questo punto, tuttavia, emergono alcune contraddizioni poiché, al tempo stesso, A. e le altre donne intervistate, nella loro veste di madri, ritengono che i figli siano, e si troveranno, in una situazione diversa dalla loro, fatta di maggiori possibilità di integrazione socio-culturale. Nel caso di A. probabilmente si può parlare di un’aspirazione a un’integrazione che sia essenzialmente selettiva e che come tale favorisca: “il processo creativo per cui le capacità e le abilità necessarie ad inserirsi con successo nel nuovo contesto non entrano in contrasto con

314

Maniscalco M.L., (2012), Islam europeo. Sociologia di un incontro, Franco Angeli, Milano p. 140 315 “In questo scenario, interrogarsi sulle seconde generazioni diventa un luogo privilegiato per discutere del futuro delle nostre società, del nuovo volto che stanno assumendo, delle nuove forme della coesione sociale di cui hanno bisogno, nonché della produzione di inedite identità culturali, fluide, composite, negoziate quotidianamente, in un incessante bricolage di antico e recente, di tradizionale e moderno, di ascritto e acquisito, di elementi trasmessi dall’educazione familiare cd elementi acquisiti nella socializzazione extra- familiare” Ambrosini M., (2004), Il futuro in mezzo a noi. Le seconde generazioni scaturite dall’immigrazione nella società italiana dei prossimi anni, in Ambrosini M., Molina S., (2004), (a cura di), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino

il mantenimento di forti legami familiari e comunitari e di riferimento identitari riferibili anche alle proprie origini”.316

Sebbene la riflessione sulle seconde generazioni sia da considerare un argomento autonomo è lungo queste sollecitazioni che si avverte nell’esperienza di queste donne il vivere l’inclusione come qualcosa che non si definisce in modo completo e la doppia appartenenza tende a sfumarsi piuttosto in una situazione di “sospensione” che viene interrotta, ma non risolta, dal contatto quotidiano con gli italiani.

4.3.2 La dimensione di genere, gli stranieri e gli stereotipi

Rispetto alla prospettiva del genere si è presentato un diverso grado di apertura e consapevolezza.

In primo luogo, nella maggior parte dei racconti, si può cogliere come

l’essere donna abbia avuto un peso maggiore dell’essere straniera in eventuali

situazioni spiacevoli o di difficoltà; altre volte invece ciò ha contribuito a generare tipici episodi di incomprensione ma non di vera e propria discriminazione. Nessuna di loro, infatti, ritiene di aver essere stata oggetto di episodi gravi, sia per la fortuna del loro percorso sia perché, affermano, molto dipende da come si decide di affrontare certe situazioni: di fronte al pregiudizio l’arma migliore è quella di dimostrare il proprio impegno e la propria serietà. Pertanto nella riflessione di queste donne un aspetto che torna con frequenza è l’importanza assunta dal doversi conoscere e dal dialogare.

Significativamente le osservazioni dell’imprenditrice tunisina non si limitano al “problema dello straniero” ma si aprono a una serie di considerazioni sul tipo di rapporto più consono da intrattenere con l’altro, prima di tutto perché donna: ciò richiede un comportamento, nonché un abbigliamento, adeguato sul posto di lavoro