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Quale integrazione economica?

Immigrati e mercato del lavoro: costrizioni, scelte e strategie

2.2 L’Italia nel modello mediterraneo

2.2.1 Quale integrazione economica?

L’Italia si muove pienamente nel quadro definito dal cosiddetto modello mediterraneo di migrazione. Si riscontrano infatti elementi quali: il lavoro come occupazione rischiosa, la frammentazione e il peso della dimensione locale, grande varietà nelle presenze e difficoltà a delineare e attuare politiche d’inserimento adeguate. Secondo Pugliese è proprio in Italia che i contorni di questo modello trovano la più netta demarcazione.

Il peso del lavoro agricolo, l’assenza prolungata nel tempo di norme che regolassero l’immigrazione, la concentrazione nel terziario dequalificato sono solo alcuni degli aspetti che vanno citati in proposito. Inoltre, a caratterizzare il panorama italiano, interviene una situazione del tutto particolare che vede la presenza di lavoratori immigrati anche nelle regioni del Sud dove i tassi di disoccupazione sono elevati e non si ha una forte domanda di lavoro ad esempio nel settore industriale. Pertanto disoccupazione e immigrazione tendono a convivere.

La trasformazione dell’Italia da paese d’emigrazione a paese d’immigrazione, o forse sarebbe più corretto dire da paese di sola emigrazione a anche paese di immigrazione, è avvenuta in un arco di temporale non particolarmente ampio130: in circa un ventennio la penisola si è trovata al centro, non solo geografico, di flussi migratori massicci di fronte ai quali è stata mostrata sorpresa e incapacità di

129 Ambrosini M., (2006), Delle reti e oltre: processi migratori, legami sociali e istituzioni, disponibile su http://www.socpol.unimi.it/papers/2006-01-18_Maurizio%20Ambrosini.pdf p.11 130 Pugliese E., (2002),L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna

gestione.131 In parte anche oggi, nonostante l’ormai consolidata presenza di stranieri nel mondo del lavoro, nelle scuole e negli spazi del tempo libero, sembrerebbe resistere una collocazione, un ruolo sociale incerto e sfumato.132 La persistenza degli stereotipi quasi si autoalimenta se si osservano le dinamiche che interessano l’inserimento o l’incorporazione133 dell’immigrato nel sistema economico del paese di arrivo.

Per riflettere su queste dinamiche si rende necessario ricordare alcuni aspetti dell’Italia come meta delle grandi migrazioni e la rapidità con cui il fenomeno ha interessato il paese134, quasi favorendo una trasformazione dal basso dei contesti lavorativi a livello locale e nazionale, dando alla luce scenari imprevisti e poco regolamentati.135

L’Italia non ha un’unica immigrazione ma molte e diverse tra loro. Per il paese sembrerebbe corretto considerare l’esistenza di diversi sottosistemi migratori tra loro autonomi e definiti in base alle diverse opportunità di lavoro e d’insediamento136. Si tratterebbe di sistemi nati e consolidati prima degli anni Ottanta del Novecento di cui ancora oggi, pur con significative differenze, resta visibile una traccia. In particolar modo con riferimento al ruolo fondamentale svolto dal Nord e dal Centro dove le grandi città hanno attratto da subito una manodopera ampiamente differenziata.137 Nel corso degli anni Novanta inoltre si gettano le basi per l’emergere di nuovi sistemi migratori che collegano saldamente il paese all’Europa orientale e ai Balcani: si stratta, ad esempio, degli arrivi in massa degli albanesi seguiti nel decennio successivo da una forte immigrazione dall’Est europeo e testimoniata oggi

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Ambrosini M., (2005),Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 132 Colombo A., Sciortino G., (2004) Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 133

Zanfrini L., (2007),Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari

134 Colombo e Sciortino ricordano come la presenza di stranieri in Italia non è un fatto recente. A seconda del periodo storico è possibile individuare almeno tre figure: rifugiati, professionisti e braccianti. La maggior parte di questa quota di stranieri era di origine europea anche se potevano distinguersi extraeuropei e nazionalità poco rappresentate. Così è ricordato come anche il periodo del secondo dopoguerra ha segnato una forte mobilità costituita dalle migrazioni postcoloniali e dalle migrazioni di ritorno. E’ dalla fine degli anni ’70 del Novecento che si apre la “stagione” delle grande immigrazioni internazionali che segnano l’ingresso del paese nelle logiche dei sistemi migratori a livello mondiale.

135 Ambrosini M., (2010), Richiesti e respinti, Il Saggiatore, Milano

136 Colombo A., Sciortino G. (2004), Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna

137 Le grandi città del Centro e del Nord erano, a partire dalla prima fase dell’immigrazione, collegate a paesi come le Filippine e l’Egitto, la Sicilia alla Tunisia, le regioni del Nordest con i Balcani e l’Europa orientale. Cfr Colombo A., Sciortino G., (2004), Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna

dalla numerosa presenza di romeni, polacchi, ucraini. E’ in quegli anni che il tema dell’immigrazione sale alla ribalta presentandosi sostanzialmente come un problema da risolvere. A fronte di una forte strumentalizzazione delle politiche migratorie, e del crescere della tensione nei contesti metropolitani, si presenta la necessità di confortare l’opinione pubblica mostrando la capacità d’intervento dello stato su un tema come quello della clandestinità e sulla volontà di stabilizzare, nel lungo periodo, le politiche migratorie italiane. Attualmente non è facile tracciare un bilancio netto sulla questione. Propositi e cambiamenti messi in atto dalle leggi in materia di immigrazione e dalle politiche delle sanatorie hanno certamente contribuito a dare una maggiore visibilità a dinamiche e meccanismi che in buona parte operano sottotraccia, ciononostante resta un ampio cono d’ombra sull’operato delle istituzioni e delle forze politiche. La popolazione straniera presente regolarmente sul territorio mantiene una scarsa stabilità che va a riflettersi non solo sulle politiche che rientrano nell’etichetta dell’integrazione, ma anche sul futuro delle generazioni nate e cresciute in Italia. Soggetti che operano nel settore segnalano pertanto il permanere di un’inadeguatezza di fondo rispetto alla gestione degli ingressi, soprattutto quelli per lavoro, e un’inefficienza in materia di cittadinanza. Le richieste di interventi e riforme lasciano il campo a problemi che, nel contesto della crisi economica del paese, sono ritenuti più urgenti.138

Atteggiamenti e modalità di gestione della questione vanno di pari passo con la definizione della dinamiche d’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro. Le caratteristiche del lavoro “per” gli autoctoni si riflettono sugli esiti e sulle traiettorie del lavoro immigrato mostrando criticità e possibili strade da percorrere. Una domanda posta con frequenza riguarda il ruolo giocato dagli immigrati nell’offrire un lavoro concorrente, complementare o sostitutivo della forza lavoro locale. Rispetto a questo punto è stato messo in evidenza come non si verifichi una situazione di concorrenza139 ma di forte complementarietà anche in virtù del fatto che gli immigrati danno il loro contributo all’economia locale accettando i lavori

138 Fondazione Ismu, (2013), Diciannovesimo Rapporto sulle migrazioni, Franco Angeli, Milano 139 Cnel, (2012), Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali DG dell’immigrazione e delle politiche di integrazione Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano

perlopiù abbandonati dalla manodopera autoctona. Tuttavia non sembrerebbe ancora essersi compiuta una vera e propria specializzazione etnica da parte degli immigrati. Si condivide piuttosto la riflessione sulle modalità di inserimento nel lavoro per cui “gli immigrati sono come l’acqua, che si infiltra ovunque vi sono degli spazi aperti. E la concentrazione in particolari nicchie occupazionali è il risultato paradossale dell’efficienza delle reti sociali di alcuni gruppi di immigrati che dapprima li aiutano a trovar lavoro più in fretta, ma poi rischiano di <<intrappolarli>> in queste nicchie.”140 L’assimilazione nel lavoro inoltre si mostra ulteriormente dinamica dal momento che è possibile identificare dei modelli territoriali di inserimento nel mondo del lavoro141: il modello industriale del centro e del Nord-Est; il modello metropolitano tipico, ad esempio, delle aree di Milano e Roma ma sviluppato anche in altre città medio-grandi, si fonda sulla domanda di lavoro delle famiglie, la domanda di servizi e sulle attività indipendenti; il modello meridionale che si divide a sua volta in due sottomodelli, quello delle città è costituito dal lavoro domestico, quello delle campagne si articola sul lavoro stagionale, sulla pastorizia e sulla pesca. E’ bene ricordare che questi modelli non sono rigidi e fissi ma si sono trasformati nel tempo con la diffusione, ad esempio, del lavoro domestico e di cura anche nelle piccole e medie città del Sud.

Il processo di inserimento della forza lavoro immigrata si struttura lungo alcuni elementi per così dire portanti. Il primo è costituito dal lavoro nelle industrie che ha rappresentato un settore fondamentale nella richiesta di manodopera immigrata, tanto da ritenerla indispensabile al funzionamento o addirittura alla sopravvivenza stessa delle imprese. La seconda “strada” confluisce invece nel settore domestico e in generale nel servizio presso le famiglie. Insieme queste due ampie aree di assorbimento del lavoro immigrato restano tutt’ora significative della funzione specchio tanto richiamata nella spiegazione delle scelte e degli atteggiamenti di un paese alle prese con una popolazione immigrata in costante aumento.

140 Reyneri E., (2005), Sociologia del mercato del lavoro. Vol. 2: le forme dell’occupazione, Il Mulino, Bologna, p. 236

Per quanto riguarda il lavoro in fabbrica il caso italiano presenta delle dinamiche connesse alla persistenza di squilibri territoriali e settoriali che si articolano non solo sulla storica direttrice Sud-Nord ma anche in contesti locali ristretti, ad esempio nell’area centrosettentrionale, che si caratterizzano per precise specializzazioni. Queste realtà locali sono quindi state travolte da profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali e da un progressivo allontanamento tra la situazione economica e quella della società. La fabbrica diventa in questo senso un microcosmo dove tendono a prodursi e riprodursi stereotipi e tendenze alla svalutazione professionale.142 Ciononostante, la presenza degli stranieri nei processi produttivi è un fatto che a poco a poco diventa ben visibile e complessivamente accettato dalla popolazione autoctona. Anche se questo riconoscimento, forte specialmente nel settore dei servizi alle famiglie, stenta a legittimarsi: “si sono accolte le braccia ma rimangono ancora da riconoscere le persone”143.

Questo problema si riscontra, ad esempio, nei rapporti tra famiglie e collaboratrici domestiche cui è chiesto un forte investimento da un punto di vista emotivo a fronte, talvolta, di una certa distanza e chiusura al confronto con la cultura o semplicemente con le proprie aspettative. Il comparto del lavoro di servizio presso le famiglie rappresenta un tratto particolarmente distintivo dell’immigrazione in Italia e del più ampio processo di femminilizzazione dei flussi. Zanfrini evidenzia almeno cinque gruppi di motivazioni che hanno contribuito, non solo a una marcata etnicizzazione, ma anche alla forte, e quasi esclusiva, presenza delle immigrate in questo settore. La prima rimanda al venir meno della figura della casalinga a tempo pieno: molte donne sono impegnate nel lavoro retribuito fuori dalle mura domestiche e, in contesti di ricchezza, dispongono di una buona dose di tempo libero che non dedicano alla cura della casa. Un secondo gruppo di fattori rimanda alla concezione

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Accanto alla prospettiva della fabbrica o in generale del luogo di lavoro come laboratorio per sperimentare e consolidare forme di convivenza e avvicinamento interculturale, si affaccia la realtà della discriminazione in diverse forme. Si può constatare una discriminazione all’ingresso e una discriminazione nelle condizioni di lavoro. Quest’ultima va a manifestarsi in vari modi, dalla definizione delle qualifiche al momento dell’assunzione, alla disparità retributiva, dalle forme contrattuali improprie a forme particolari di trattamento da parte di colleghi e superiori. Zanfrini ricorda anche la questione della discriminazione nei percorsi di carriera che abbraccia l’esperienza delle donne lavoratrici e che si amplifica nel caso delle donne appartenenti alle minoranze etniche. Cfr Zanfrini L. (2007), Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari. p. 199 e ss

dei compiti di assistenza come qualcosa di privato. Si insiste in modo particolare sull’insufficienza dei servizi di welfare e alla necessità di assicurare varie forme di assistenza a una popolazione “invecchiata”. Anche se attualmente poco significative, un terzo ordine di motivazioni guarda alla presenza del personale di servizio come un simbolo del prestigio e dello status della famiglia.

Di maggior importanza sono invece i fattori che insistono sulle caratteristiche del sistema di welfare. Nel caso italiano è manifesta la necessità di ricorrere all’assistenza privata che spesso, per l’assenza di controlli, non è istituzionalizzata. E’ in questa dinamica che si muovono gran parte dei processi di discriminazione, subordinazione e precarietà. Infine a contribuire alla dinamicità di questo settore è lo stesso processo di femminilizzazione delle migrazioni internazionali e l’ampia disponibilità di offerta di lavoro per le mansioni di assistenza.144

La forza lavoro immigrata, soprattutto quando si discute sul welfare, assume negli anni più recenti una dimensione di indispensabilità. Ciò non fa che porre una sfida sia in termini di inserimento, e reinserimento, nel mondo del lavoro, sia in termini di “sostenibilità” in determinati settori. La componente immigrata resta penalizzata, “fissata” e indirizzata in una dimensione di bassa qualificazione, percorso che varrebbe sia per i soggiornanti di lungo periodo sia per le seconde generazioni.145 Ad esempio, dal quarto rapporto annuale sullo stato del lavoro degli immigrati in Italia, emerge uno spreco dei cervelli, inteso come mancata valorizzazione del capitale umano e dei crescenti livelli di istruzione nei paesi di provenienza: pur in presenza di personale istruito, un’occupazione di tipo manuale è la principale forma di impiego della forza lavoro straniera. Sempre secondo il rapporto “la quasi totalità dei lavoratori stranieri svolge un lavoro alle dipendenze e poco meno dell’80% è impiegato con la qualifica di operaio”146 e “pertanto chiara e confermata la scarsa presenza di lavoratori stranieri tra i ruoli dirigenziali e simili un tratto caratteristico della presenza immigrata nel mercato del lavoro italiana è la tendenza al lavoro in

proprio fatto prevalentemente di più o meno piccole attività commerciali; solo in

144 Zanfrini L., (2007) Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari. p. 205 e ss

145 Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione, (2014), Quarto Rapporto annuale gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia

pochissimi casi è possibile parlare di vere e proprie attività imprenditoriali”147, (Fig. 1). Affermazione quest’ultima che merita certamente di essere inquadrata nella riflessione sul lavoro autonomo.

Figura 1 Occupati 15 e oltre per profilo professionale, genere e cittadinanza (v%) Anno 2013