• Non ci sono risultati.

APRILE: Sofía vede passare un ragazzo yankee

Ebbi l’opportunità di vedere un carnevale per la prima volta quando vivevamo già nella strada al di sotto di Trinidad, nel quartiere di Santo Tomás, dove si era sistemata la mia numerosa famiglia, prima che iniziasse il commercio degli schiavi, quando nessuno pensava ancora alla guerra. A Santiago di Cuba la musica e il ballo sono presenti a tutte le ore, di tutti i giorni, di tutti i mesi dell'anno. Alle porte delle case, i negri, seduti, suonano instancabilmente gli strumenti che essi stessi costruiscono. Cantano senza perdersi d’animo, tenendo il tempo con i piedi, con le spalle, con le braccia. Non c'è un solo muscolo del corpo lasciato senza muoversi. Sì, ballano fino a rannicchiarsi.

Lo schiavo della casa dall'altra parte della strada, con aspetto selvatico datogli dalla durezza dei suoi lineamenti, ripeteva senza ombra di stanchezza lo stesso ritornello dedicato a chissà quali amori disperati:

33Non ricordi, dolce bayamesa,

che eri il mio sole splendente?

Tutto ciò accadeva nei giorni correnti. Il carnevale è un'altra cosa, è qualcosa di indescrivibile. E quel carnevale, il primo della mia vita, era quell'altra cosa. L'intera città entrò in un trambusto assordante. Strade e case tremavano per il baccano. Nella Plaza de Armas, di fronte alla vecchia villa del conquistatore, miracolosamente in piedi grazie ai lavori di mantenimento finanziati dall'orgogliosa monarchia; nella Plaza, di fronte al

33 È una frase tratta da La Bayamesa (o no te acuerdas) di José Formaris, Francisco Castillo e Carlo Céspedes. Ci

sono quattro canzoni famose a Cuba che hanno il titolo La Bayamesa. Due di loro sono meglio conosciute: Sindo Garay e Céspedes, Castillo e Fornaris. Ma alcuni dimenticano che ce ne sono altri due che portano anche quel titolo: quella di Perucho Figueredo, l'inno nazionale cubano e una quarta canzone anonima cantata dai mambí nei campi degli insorti. Dalle informazioni storiche La Bayamesa risulta essere la prima canzone d’amore cubana, cantata da Francisco Castillo il 27 Marzo del 1851 alla finestra di Luz Vazquez, allora mambí.

36

Palazzo del Governo, dei cui cortili e balconi interni sentii sempre parlare ma non vidi mai; nella Plaza dove i concerti della banda militare e le passeggiate domenicali conducevano ad una competizione tra le ragazze in età da marito; la folla era concentrata in Piazza per poi distribuirsi in tutta la città, organizzata in comparse che condividevano un tema, uno stile, un certo tipo di costumi.

I pagliacci, idioti negri travestiti con i capelli tinti color cremisi34, i vestiti bianchi delle mulatte, agitavano le strade approfittando coscienziosamente del permesso di essere felici. Una schiavitù alleviata da questi giorni di libertà, da momenti di indipendenza nel calendario delle dure giornate quotidiane e delle catene di ferro. I meticci e i figli delle coppie miste saltano sui sampietrini coperti dalle loro parrucche gialle e dalla barbe finte, imitando i loro padroni senza che questi si offendano perché in questo giorno ogni scherzo o burla è permessa. L’ottone e il rame, simulando l’oro e l’argento, adornano i costumi degli arabi. Tamburi, lumache, semi, mazzi di vimini secchi, tutto serve a inebriare l’animo. Mi è stato proibito di uscire di casa, ma nessuno mi impedisce di arrampicarmi sul davanzale e di contemplare la festa come una piccola prigioniera. Rosalia e mia sorella mi accompagnano. Da una finestra adiacente, mia madre prende un panchetto per contemplare la sfilata dell'umanità sudata e urlante.

Mio padre e i miei zii si sono buttati in strada, ciascuno con una bottiglia di rum in mano, soffocando di calore dietro le loro maschere di cartapesta, ubriachi di allegria e dal permesso di commettere ogni abuso. Hanno le mani pronte per palpare ondeggianti natiche nere e il sangue che arde di desideri. Per questo motivo chiudono le chiese, in modo che i Santi non vedano i diavoli liberi di peccare a loro piacimento.

La strada della Trinidad si agita, si infiamma e canta:

Oh Misericordia, Oh Misericordia, Attenta alla luna se c’è.

Le porte aperte permettono l’entrata a persone conosciute e sconosciute che si appropriano dei salotti e delle cucine consumando, senza alcuna preoccupazione, tutto ciò che risulta commestibile.

I negri sono mascherati da bianchi e i bianchi da negri, uomini travestiti da donne e le donne da arlecchino. La sofferenza della carne si strugge in un delirante dimenamento.

34Il crèmisi, o chermisi, è una tonalità di rosso luminosa e chiara che, contenendo alcune componenti di blu, tende

37

Passa una processione di negri mascherati da negri, con labbra ingrandite tramite l’arte del vermiglio e la pelle colorata di nero, per quanto possibile, con il bitume. Indossano panni sporchi e ballano freneticamente per rimarcare la caricatura di se stessi. Si rappresentano per come li vedono gli altri, assumono l’aspetto dell’altro e lo assecondano. Si insultano a vicenda per mostrare agli altri quanto vengono insultati. L’umiliazione può essere la più terribile arroganza, l’umiltà la più severa accusa, la più sfacciata insolenza.

Ma io sono piccola, non posso capire la portata della parodia, mi rattristo, mi dispiace, mi vergogno, mi spaventa. Rosalia, la schiava, mi copre gli occhi. Forse anche lei ha chiuso i suoi. Gli do la mia mano, rido in modo stravagante e continuo a guardare questa incontenibile frenesia che gli spagnoli rispettano perché, se così non fosse, la rivoluzione esploderebbe senza rimedio.

Il sole scioglie il trucco ma il movimento non cessa. La lunga fila, inquieta e rumorosa, continua a passare dietro le sbarre che mi proteggono. Mi proteggono?!

Non mi conosci? Dice una voce familiare, prendendomi di sorpresa e infilando due lunghe corna tra le sbarre. È uno che è salito fino al corridoio, indossando la testa di un toro con gli occhi chiari ed umani, percettibili attraverso due fori marcati da un cerchio nero. Fa buuuuuuuuuh! Attraverso il muso ed io inizio a piangere. Mia madre dal suo posto urla un rimprovero:

- Non spaventare la bimba, Armando! Così grande ma non sai ancora come ci si comporta … Dietro il cartone dipinto spunta il viso sorridente di mio zio ed allora mi spavento il doppio e torno a piangere. Lui ha venticinque anni, io cinque. Si allontana trascinato da un’enorme arpa di canna che lo spinge, senza pietà, inchiodata ai suoi fianchi. Ha legato la maschera alla sua nuca e con il mostruoso toro avanza e, con la maschera portata al rovescio, si allontana, inghiottito, divorato, trascinato dall’orgia di colori.

Rosalia mi conforta. Smetto di piangere e mi lascio distrarre dai sonagli e dagli strumenti. Passano, ora, alcuni vestiti di nero con la testa avvolta in fazzoletti rossi, stormi di rapaci che spuntano dappertutto. Mia madre corre per proteggere la porta.

Un enorme biscione, vari metri di carta dipinta, avanza su gambe nere e canta, minacciante:

Guarda i loro occhi, sembrano fuoco, Guarda i loro denti, sembrano spilli.35

38

Io so che i neri usano la parola filé per riferirsi agli spilli e, in effetti, i denti della biscia sono aguzzi. Il biscione è steso sul pavimento. I neri escono dal suo ventre e gli ballano intorno:

Che muoia la biscia... Calabasón, son, son.

La biscia è morta, sángala, giovanotto...

Si fece tardi e mia madre ci allontanò dalle finestre, chiuse accuratamente per prevenire esagerazioni. Tardai molto ad addormentarmi. Durante tutti quei lunghi giorni di carnevale temetti che la maschera di cartone di mio zio Armando sarebbe ricomparsa per spaventarmi nuovamente con il muso e le corna e che l’orribile e feroce biscia sarebbe ritornata con gli occhi accesi come il fuoco. Fino a poco tempo fa, nei suoi terribili momenti d’ira, vedevo un toro dietro al viso di Armando, come se la maschera fosse la sua pelle e gli occhi di fuoco stessero dietro. Anche ora, dietro alla faccia triste dovuta alla sua reclusione, la violenza è in agguato. Se non fosse perché in prigione, sarebbe già qui a prendersi cura dei suoi beni e dei suoi figli. Se penso a lui, rinchiuso in un sotterraneo con l’aria maleodorante di feci, provo compassione.

Immagino gli uomini nella prigione, le voci di comando, le armi, le grida, i lamenti, i cattivi odori, il riso e i fagioli marci. Se io fossi prigioniera (non lo sono?) scriverei insulti sulle pareti. Persa ogni speranza libererei tutte le mie bassezze, terrorizzerei i miei carcerieri e a chiunque voglia sottomettermi, con la sola furia, la sola rabbia.

Mi spaventa l’inferno di questo vuoto senza fine e senza ritorno. Rimanere in questa stanza oscurata, contare i granelli di sabbia che si accumulano sui miei oggetti più cari. Mi pesa l’assenza degli altri, lo sbattere delle pentole, la dentizione del piccolino alla quale non voglio pensare. Questo eccesso di pace mi opprime.

La mia veglia non viene interrotta dalla pia benedizione del sonno. Mi rode l’innocenza, la mia innocenza. Una vita senza peccato è peggiore di una vita perversa. I crimini hanno la consolazione della redenzione, l’espiazione è redentrice. Lo stupore di colui che è innocente davanti alla giustizia è difficilmente tollerabile. È il richiamo al vuoto, l’accusa al nulla. Perché io? perché a me? non ho fatto niente, non me lo merito, tutte queste domande si incatenano senza che nessuno risponda. Mi sento stupida, un imbecille. Eppure, da qualche parte, ci deve essere una spiegazione.

39

Qualcosa accade perché le strade sono vuote. Prima, le prostitute emergevano dalle ombre contrattando l'altro lato della vita, quello che non conobbi mai, quello di donna sottomessa. Vivendo sempre libera, so che succedono molte cose che mi sono state negate. Ho imparato a distinguere lo sfregamento di una gonna rialzata in fretta, i passi che si allontanano e le parole volgari di una donna mal pagata. Fuori c’è una vita parallela che mi è sempre sfuggita.

Forse ero occupata ad ascoltare i rumori personali. La voce minacciosa, l’anima mia vessata … la contabilità di routine delle mie disgrazie non mi permetteva di frequentare il branco anonimo che, come i topi, esce risentito dai nascondigli sordidi per sfogare le sue miserie nella penombra pubblica.

Di giorno passano i vicini. Li conosco, ignorano che li osservo. Ecco Minore Keith con la sua americana moderna, con la testa scoperta. La signora Freer attraversa la strada per non salutarlo. Sono in lite da quando lui le vendette alcune tavole di quercia che in seguito si rivelarono essere caobilla. La signora Freer lo scoprì quando le tavole si riempirono di termite. È incredibile che questo grande impresario di treni e piantagioni venda legna al dettaglio nel cortile di casa sua. Si è fermato a guardare la mia finestra. I suoi occhi blu mostrano un leggero cenno di curiosità. Starà pensando di comprare casa mia? Sarebbe difficile per me vivere con Cristina, sua moglie, rimasta mezza malconcia dopo essere caduta, a Londra, nel vuoto di un ascensore. Cristina è la zia di Rafael Yglesias, il migliore acquisto fatto da Keith in questo paese. Il suo sguardo speculativo misura la mia casa con lo stesso metro usato per misurare le traversine ferroviarie.

Tira fuori l'orologio e lo rimette nella tasca del gilet. Un soffio di vento scuote leggermente le tegole e inizia a tremare. Qualcosa si scuote allegramente nella mia stanza. È uno dei soliti tremori della stagione secca e non dura a lungo. Sulla strada, Keith è rimasto rigido. Non si appresta a correre né intende tornare a casa. Come previsto. Il movimento passa e lui si avvia. È diventato corpulento il ragazzo yankee che venne a cercar fortuna e la trovò. Dalla sua corporatura iniziale si intuisce che ora le prelibatezze non mancano sulla sua tavola, e non mi riferisco alle banane che coltiva ed esporta in gran quantità. Non deve avere ormai l'agilità che lo rese famoso quando saltò sul treno in marcia, approfittando del fatto che il macchinista, durante il viaggio inaugurale, rallentò prima del ponte Birrís. Eroica stampa: la bandiera nordamericana spiegata al vento, il gringo36 Keith che attraversa il ponte seduto sulla locomotiva e alle sue spalle la profonda valle del fiume infuria. E il

36Gringo è un termine ispano-portoghese di uso corrente in America Latina per designare in generale gli stranieri di

40

povero macchinista nero diventò pallido per la paura. È sparito il famoso impresario, ma per strada rimane un certo aroma di ferro e fumo. Probabilmente è un odore che Keith indossa così come gli altri indossano un garofano nei loro baveri. Tutti loro sono così, suo fratello Enrique ha costruito ferrovie in Perù e in Cile, e iniziò colui che portò via il mio corpo. Armando non lo sopportava, diceva che i nordamericani sono peggiori degli spagnoli e che non ci lasceranno in pace finché non prenderanno possesso di Cuba. Li reputava i peggiori perché sono più astuti e perché il denaro è più potente delle pallottole.

L’impresario fece la sua fortuna sulle ossa dei braccianti e dei guardiani di ogni razza e colore, uomini provenienti da ogni parte del mondo; neri giamaicani, cinesi, svedesi, e Dio sa cos’altro … Molti non torneranno mai più nelle loro terre e molti altri sono stati sepolti tra i binari. E gli italiani, ah gli italiani … arrivarono germogliati dalla selva, un’orda febbrile che fuggiva dalle zanzare, dalla diarrea, dalla malaria, un’orda che scappava dalla fame e dalla febbre gialla, cagati nei pantaloni a causa della dissenteria. Stormo di anatre ferite da fucili da caccia, si schiantarono nelle chiese e sui gradini della Cattedrale, sfidando la città con gli occhi sporgenti e l’odore di miasma. Le persone si sono riunite dietro le sbarre del Parco Centrale per vederli. Gli italiani stavano dietro le sbarre del Duomo. La strada in mezzo rappresentava l'area di nessuno. In quei giorni il ritiro della banda militare fu sospeso perché i musicisti suonavano le opere e gli italiani le cantavano.

Anche io andai a vederli. Come non farlo visto che tutto succedeva vicino a casa mia. Armando non lo seppe mai, né io glielo raccontai. Erano molti e disperati, orgogliosi nella loro miseria e disgrazia. Volevano tornare al loro vino e agli spaghetti, ed erano venuti a reclamare il loro stipendio e il biglietto di ritorno. Uccelli migratori che implorano la carità di Cristo. Uomini indifesi senza un grembo su cui poggiare la testa e senza nessuno che lavasse loro le camicie. All’improvviso l’atrio si riempì di donne che volteggiavano a casaccio con cestini di pane, cibo e vestiti usati, appartenenti ai loro mariti. Furono le donne di San José e di Cartago a sostenere lo sciopero degli italiani. Keith le odiò perché senza di loro quei poveracci, vinti dalla fame, sarebbero ritornati alla pala e alla dinamite, a tendere le rotaie accontentandosi della sconfitta. Le donne, cupe e malinconiche, uscirono dalla Bibbia per curare i piedi piagati. Avrebbero strizzato il loro seno, se necessario, per dargli da bere. Ce n’erano alcuni così giovani che suscitavano nelle donne la voglia di farli addormentare, intonando loro una ninna nanna; piccioni abbandonati, desiderosi di ritornare al nido, inorriditi dal loro primo volo. Questi furono coloro che ottennero un tetto sotto cui soccombere il rimorso. Le donne erano odiate da Keith e dal governo e non poterono fare altro che contemplare come i giorni passavano e gli italiani riprendevano le forze

41

riempiendo interi fogli di carta con le loro richieste. Si ringalluzzirono, esigerono, gridarono. Tutto fu inutile.

Un giorno l’atrio apparve deserto. Mi dissero che gli italiani erano andati via, che lasciarono la strada e che in seguito erano stati visti seduti sulle rocce del Limón in attesa di una barca. Alle donne che si presero cura di loro e li accolsero rimase, sotto la quotidianità così bruscamente interrotta, la gratitudine di quegli uomini caduti in disgrazia.

Se ne andarono senza ottenere quello che volevano, senza il pagamento dell’ultimo salario. Il gringo lo ha tenuto per se. Ha fatto alla sua maniera, Minor Keith. Lui, l’oro lo cerca anche nelle radici degli alberi. Ho visto Cristina indossare un gioiello lavorato a mano, con molta pazienza, da un orafo più vecchio di Colombo. Mi chiedo se Armando avrà lo stesso aspetto fragile degli italiani quando il suo carceriere entrerà per lasciargli il pane.

Basta con i ricordi tristi e con Armando. Ho iniziato a esplorare le mie capacità. Se non voglio sparire, devo provare che posso ancora fare qualcosa. Non so come sia successo. All'improvviso sono riuscita ad oltrepassare la porta e sono scivolata lungo il corridoio per raggiungere il soggiorno. Ne è valsa la pena. Ora posso trasportami dove voglio, eccetto fuori casa. Sono terrorizzata dagli spazi aperti. Nel soggiorno c'è un alito di vecchiaia che non è nuovo, c’è sempre stato. La pesante tenda verde muschio cade coprendo la finestra, ed i cuscini di seta sul divano hanno l'impronta dell'ultimo dorso che vi riposava. Fu Felix Montero, dopo aver suonato tre note al pianoforte, o fu uno degli ufficiali che poi venne a indagare sul suo nascondiglio, quando era già partito per continuare il suo futuro errante. La grande cassa di legno dell'orologio sembra una bara sistemata distrattamente dal proprietario di una impresa di pompe funebri. La sua porta di vetro, chiusa, lascia intravedere l’accurato pendolo: segna l’ora nella quale si fermò la corda. Manca il portacarte d’argento, qualcuno lo ha portato via lasciando cadere sul tappeto i biglietti da visita. La lampada da terra, con piccoli fiocchi ramati, era posizionata a pochi centimetri dal suo solito posto. Mi sono seduta sulla sedia a dondolo immaginando di muoverla con gli impulsi del mio desiderio. Ma non si muove. Non riesco nemmeno a sollevare il coperchio del pianoforte. Poi suono a memoria un valzer creolo di quelli che il generale Maceo apprezzava così tanto, suono come se la partitura ce l'avessi davanti ai miei occhi. Dal muro, in una cornice di gesso dorato, la mia faccia mi guarda con riprovazione.

Che fine avrà fatto la fotografia di Valiente che Armando strappò e gettò al primo piano? Io non ho raccolto i pezzi. Mi dirigo verso la sala da pranzo. C'è un vaso di fiori vuoto e segni di persone che si sedettero davanti al tavolo perché alcune sedie sono fuori posto. Nessuno ha avuto l’accortezza di rimetterle in fila. Ho fatto un giro in cucina, il fuoco non scoppietta

42

più nel ferro e le porte, socchiuse, lasciano vedere la cenere. Sul mulino a pietra, il macinacaffè sorregge il sacco pieno e asciutto. Il ghiaccio si è sciolto già da molto tempo nel frigo, ma sotto il barattolo del filtro c’è il segno di una macchia di umidità. Nella stanza del cucito mi siedo davanti alla macchina da cucire dimenticata e provo a girare la maniglia. Il dispositivo non ubbidisce ai miei comandi. Anche come fantasma sono un disastro! Ma perché devo sollevare il coperchio del piano e spostare la macchina da cucire? Chi se lo aspetta da me? Voglio farlo, ci provo e mi sento persino ansiosa. Mi stanco. Mi ribello. Se ora, anche ora, devo rispettare requisiti impossibili, allora il mio viaggio è finito. Torno in camera da letto e mi rimetto al mio posto.

Passa gente per la strada, poca, ma passa. Lascio che siano gli altri ad inventarmi e ad immaginarmi. Sarò una creazione aliena, quindi. Non lo ero già prima? Qual è la differenza? Viva o morta non fa differenza. C'è sempre un compito che nasce dal nulla e da tutti. Irrimediabilmente c'è una punizione se non viene svolto, ma ora non vedo altra punizione che stare qui girando attorno a me stessa, in questo accanimento di spiegazioni