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OTTOBRE: Il corpo di Sofía

Quando lasciammo la Giamaica e vidi le montagne Azzurre per l'ultima volta, ero felice di aver sposato Armando. Cosa ne sarebbe stato di me, da sola a Kingston, in una famiglia estranea? Ero tra i miei, mi circondavano per prendersi cura di me durante la mia gravidanza, e mia madre assisteva alle mie spaventose nausee con un affetto duplicato dalla speranza di un nipote. Era ammirevole l'indipendenza del mio corpo, ingrassava senza chiedermi il permesso. Ero sottomessa alla sua volontà, senza consultarmi e senza chiedermi alcun permesso. La mia pancia aumentava di volume in modo sconsiderato e io, quel figlio che sapevo che stava lì, l'ho sentito crescere a dismisura, con stranezza. Tutto in me ingrassava e cresceva. Non sapevo più come sistemare i miei seni e, senza gli abiti adeguati, camminavo sul ponte della nave con gli scamiciati aperti che mia madre usava per stare in casa. Solo noi donne avevamo una cabina, una stanza molto stretta con poca aria. Gli uomini dormivano sul ponte, tra i materiali per la ferrovia e i sacchi di mercanzia.

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Fu un viaggio molto scomodo. Quando approdammo a Puerto Limón, il nostro sollievo nel vedere gli alberi di cocco fu grande. Poi proseguimmo con un carretto su un sentiero impossibile, perché il treno non era ancora pronto.

La stranezza scomparve durante il parto. Il mio corpo tornò ad appartenermi di nuovo, non ci fu nient’altro che dolore. Il parto andò abbastanza bene e decisi volentieri di continuare la mia carriera di madre, dimenticando tutte le seccature e le sofferenze della carne.

Armando ampliò la sua attività di panificazione ed io avevo qualcosa con cui intrattenermi. Per non vivere nella stessa casa di suo fratello, nonché mio padre, e continuare così con le discussioni fastidiose, andammo in un'altra casa, sempre in questa valle, dove le montagne mi vennero incontro da quando arrivai. La fortuna crebbe, lavoravamo dall'alba al tramonto tra forni e farina. Penso che fosse un periodo florido. Armando aveva bisogno di me e io ero occupata tutto il tempo. La città era così piccola che gli era molo facile tenermi sotto il suo controllo. Al panificio avevo Armandito al mio fianco per tutto il giorno. Il pane è qualcosa di cui si necessita ogni giorno, che non conosce feste comandate, e per me non c'erano domeniche o giorni di riposo. La mia seconda gravidanza fiorì tra il lievito e legna da ardere.

Mio marito lasciava un segno sul mio corpo, anno dopo anno. E il mio corpo, alienato, ritornava da me come un'onda nelle sofferenze di ogni parto. Quando la mia presenza nel panificio non fu più necessaria e non avevo altro compito se non quello dell’educazione, e Armando smise di essere un giovane uomo sulla via della maturità, la mia reclusione divenne più rigorosa. Senza la presenza di mio padre, il suo potere su di me era assoluto.

Dell'esistenza del mio corpo ne dava attestazione la sarta. Sapeva che io esistevo grazie a quell’insignificante nastro che annunciava la misura, attraverso la voce della sarta, delle mie circonferenze, delle mie lunghezze e delle mie larghezze. La sarta si trasformò nel notaio che dava fede alla mia esistenza, autenticata nel quaderno dove scriveva le mie misure e le mie dimensioni. Deve essere questo il motivo per cui le donne amano così tanto i vestiti, perché non puoi coprire ciò che non esiste. Armando detestava le mie sarte, le mie camicette e le mie gonne e tutto ciò che confermava la giovinezza del mio corpo.

Sarei potuta morire in uno dei miei undici parti e nessuna legge o giudice avrebbe nominato Armando come responsabile. Ci sono crimini che non hanno mai punizione. Non mi chiese mai se volevo avere così tanti bambini.

Il mio corpo ... Lo conobbi nella sua interezza quando lo vidi morto, ora nessuno, nemmeno io stessa, può disporne. È rimasto in balia della sua decomposizione.

Chi mi tolse la vita non aveva né rabbia o sentimento. Fu un’azione fredda e spassionata. Mi hanno ammazzata come si uccidono i ladri, per eliminare quello scoglio tra il suo desiderio e

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l'oggetto del suo desiderio. Con una certa ripugnanza, forse. Forse con un dispiacere, ma ormai non mi rimane più scelta. E io fuori di me, ma dentro di me più che mai, mi guardai per la prima volta.

Passai dal sogno a questo stato senza rendermene conto, senza alcuna transizione.

Quanto darei per guardarmi allo specchio, l'immagine è più certa del corpo che proietta. Vedermi nuda, con i capelli sciolti; vedere me stessa nel gioco delle carezze senza pudore e senza vergogna, mantenendo la gioia in quella campana di vetro, amarmi nella duplicità, nello sdoppiamento ...

Ora sono in un altro territorio, sul pendio insaponato dove scivolano le mie inconseguenti evocazioni, verità che sfuggono sempre nella nebulosa del falso e del vero. I ricordi sono ricreazioni della mia mente, non avrò mai alcuna certezza. Per questo motivo so che non raggiungerò mai la fine di questo viaggio inutile, non ci sarà mai una spiegazione che non esistono cause primarie, perché ce n'è sempre un’altra, e un’altra e un’altra ancora, alle spalle. Per interrompere questo peregrinare dietro un punto iniziale che spiega tutto, devo solo decidere la fine per conto mio. Non seguirò più percorsi tortuosi che invento per calmare l'assenza di sentieri. Mi fermerò quando voglio, in un supremo atto di libertà sovrana. Dirò, arrivo fin qui, da qui in poi non passo! L'esercizio della mia volontà è stato così debole, così povero, così incoerente ... Non so cosa succede all’interno di una persona quando si impone agli altri. Sempre soggetta alla volontà degli altri in tutte le decisioni importanti, mi risulta avvincente catturare, ora, quella grande e terribile determinazione. Se fossi viva la definirei suicidio. Dato che sono morta, non so come chiamarla.

Le strade, che cercavano di recuperare la loro vecchia vita notturna con la presenza di donne prudenti che aspettavano i loro clienti, sono tornate al silenzio. Non ci sono clienti e senza di loro, ogni offerta è inutile.

Prima che la milizia tornasse a pattugliare le strade, lo stesso giorno in cui si udì il rombo di due cannoni, lo stesso giorno in cui vidi gli scolari che passavano sventolando piccole bandiere, chiusa la farmacia, al momento della pausa, arrivò mio cugino Alberto e con tutta la tranquillità di chi non ha paura delle sorprese, tirò fuori le armi conservate sotto il mio letto e le consegnò ad un altro che stava aspettando sotto la finestra. Un'auto che si allontana nella direzione opposta al rumore dei cannoni e al frastuono di un evento imprevisto, mi avverte che la storia continua ad intrecciare pigramente la trama dei suoi giochi violenti.

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