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SETTEMBRE: Una mulatta che viene e che va

Sotto il mio letto ci sono sempre più armi. Sono tornati due volte, c’è sempre mio cugino Alberto Boix accompagnato da qualcuno. La stessa mulatta intrattiene le guardie stabilendo con loro un rapporto di familiarità che mi disgusta. Quella donna non deve conoscere la sensibilità, mi dico, altrimenti non potrebbe fare quello che fa.

Quando parlo di insensibilità, è perché la conosco bene. So quando appare, come si manifesta e come si appropria dei sentimenti e dei sensi fino a raggiungere il limbo dell'indifferenza. Alcuni patrioti cubani che hanno subito torture dicono che esiste uno stato del prigioniero che i torturatori evitano. È quando il corpo, svuotato di tutti i suoi fluidi ed escrementi, diventa insensibile, tanto che l'indifferenza nei confronti della morte si appropria dell'anima dei torturati. Allora tutti gli interrogatori si rivelano inutili. La carne si trasforma in una massa priva di nervi e paure. Anche la mia carne e la mia anima hanno raggiunto quello stato. È successo gradualmente, da una sottile tortura subita di anno in anno, da un periodo di tempo che ormai ignoro. Ora comprendo che era una tortura. Prima credevo che fossero le buone maniere che una donna doveva soffrire. Piccole proibizioni che si stavano accumulando senza che me ne accorgessi. Non sporcare le tue mutandine, Sofia, siediti sul water. Non uscire per strada da sola, Sofia. Non parlare con gli sconosciuti, Teófila. Non toccarti lì, togli le mani, ti prenderà il diavolo. Morditi la lingua, Sofia, non rispondere a tua madre, Teófila, non parlare quando i grandi parlano. Non piagnucolare, Sofia, sei già molto grande, non dimenticare le tue

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preghiere. Non origliare i discorsi delle persone anziane, Teófila. Conserva i tuoi nuovi scarponi per la Domenica, durante la settimana potresti rovinarli. Rimani a letto durante il ciclo mestruale, è pericoloso muoversi molto. Non guardarti così tanto allo specchio, la vanità è peccato. Non guardare i ragazzi con tanta impudenza, possono credere che tu sia facile. Non alzare il vestito così tanto quando sali le scale, e non correre così veloce, che ti si vedono le gambe. Stringi il corpetto che ce l’hai floscio e il busto potrebbe deformarsi. Non metterti al sole, figlia, macchierai e scurirai la tua pelle. Lavati il viso con acqua di riso, diventerai molto carina. Lavati i capelli con l'acqua piovana, te li lascerà morbidi e belli. Non montare a cavallo come un uomo, figlia, può rovinarti.

Stringiti la vita per renderla sottile. Pettina i capelli che hai un aspetto disordinato. Per avere occhi luminosi, usa un po’ di limone. Per prenderti cura delle mani, usa questa crema di mandorle. Non mangiare così tanto, potresti ingrassare. Devi mangiare di più, stai perdendo peso. Siediti con la schiena dritta, metti le mani sul grembo, non piegare il collo. Hai una vita sottile, sei diventata bella, figlia, sei molto bella, ma non guardarti così tanto allo specchio, la modestia è il miglior ornamento di una donna. Non salutare gli uomini; aspetta che lo facciano prima loro. Non ti alzare per salutare un uomo, deve farlo lui. Se sei per la strada, è lui che ti deve far passare. Se un uomo viene solo a farci una visita, non trattenerti con lui nel soggiorno. Se non c'è nessuno a casa, non riceverlo. Non parlare con uomini che non ti abbiano presentato. E mai, mai, mai, dire ad un uomo di galanteria, hai sentito? Non provocarlo con sguardi, non apparire audace. La discrezione è il miglior ornamento di una donna. Imparai a mentire e questo apprendimento durò tutta la vita. Le puttane, con i loro volti imbrattati di trucco, sono meno inconcludenti di me, pulita e senza trucco. Smisi di guardarmi allo specchio. Ad ogni modo, in Giamaica mi risultava scomodo. Mia madre l'aveva messo all’altezza di mio padre, che è molto alto, e io dovevo stare in punta di piedi per vedermi il naso. Con Armando non ebbi questo problema. Durante la mia prima gravidanza crebbi tanto quanto lui.

Ma quando ero ancora una bambina, imparai a nascondere le mie curiosità e i miei desideri così bene che nessuno capì mai cosa c'era tra me e il francese. Più di centomila cubani abbandonarono l'isola nello stesso periodo in cui partimmo anche noi, e a Kingston c'erano quasi diecimila espatriati. Ho ancora ricordi freschi di quando ci avvicinammo a Kingston, dal mare. Gli squali nuotavano negligentemente intorno a noi, ignorando i tesori e i naufragi in fondo alle acque cristalline. Mi rallegrai nel vedere la scoscesa cordigliera. Dicono che quando i re di Spagna chiesero a Cristoforo Colombo come fosse la Giamaica, lui accartocciò un foglio di carta e glielo mise davanti. E così è. Le forme delle Montagne Azzurre suggeriscono i desideri della tua immaginazione e Kingston sembrava un anfiteatro di colline. In molte parti si

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potevano vedere le colline piene di fitto fogliame e in altre, avvicinandoci, la semina di canna, di tabacco e di caffè. Quella era la nostra nuova patria. C'era tristezza nella nostra famiglia, ma anche eccitazione davanti all'aspettativa di una nuova casa, libera e senza repressione. Mio padre era angosciato dall’idea di pagare i salari perché la Giamaica aveva già abolito la schiavitù. Mia madre era preoccupata per la casa in cui avremmo vissuto, e io ero preoccupata per come avrei potuto comunicare con la gente, visto che non conoscevo l’inglese. In brevissimo tempo constatai che non avevo bisogno di nessun altro linguaggio se non del mio perché noi cubani costituivamo un gruppo chiuso che usava la propria lingua, aggrappandoci ad essa perché non avevamo nient'altro a cui aggrapparci. Le nostre parole, il nostro accento e le nostre espressioni più familiari ci sostenevano.

Frasi e nomi di cose che non sarebbero mai stati permessi a Cuba, in Giamaica non solo erano tollerate, erano usate, ripetute, ed enfatizzate. Con molto diletto imitavamo Rosalia, il suo modo di inghiottire le lettere e di usare la esse, come una cinese.

In Giamaica c'erano più neri che mulatti, più mulatti che bianchi, c'erano anche persone provenienti dall'India Orientale e fuggiaschi francesi provenienti da Haiti. Ogni gruppo si era stabilito in un posto e c'erano dei confini riconoscibili che nessuno doveva varcare. Mio padre comprò un piccolo canneto. Altri erano alla ricerca di un modo per guadagnarsi da vivere perché, per la maggior parte dei cubani, specialmente per quelli che erano stati espulsi, la miseria era terribile. Tanto che la Congregazione Evangelica creò un comitato di beneficenza per aiutarli. Sì, i protestanti aiutarono i cattolici. Alcune cubane non volevano accompagnare i loro mariti in esilio, per evitare di morire di fame insieme ai loro bambini, e quei cubani senza moglie erano oggetto di grande commiserazione. L'esilio produce cambiamenti straordinari nella vita delle persone, le coppie vengono distrutte e ne nascono altre. Si commettono tradimenti e le amicizie più affettuose si infrangono. È come se, abbandonando la terra natia, si abbandonasse anche lo scheletro che ci ha sempre sostenuti, senza il quale le abitudini e le usanze non saprebbero dove appoggiarsi. Forse è per questo che la peste fece tante stragi tra i cubani. Non so come la mia famiglia sia sfuggita al vaiolo. Forse vivendo in campagna.

Molti morirono e molti altri rimasero con i volti segnati, come se un vulcano interiore avesse creato piccoli crateri per permettere alla rabbia di fuoriuscire. Crebbi in Giamaica sentendo parlare di patrioti che viaggiano da un'isola all'altra, rotta rischiosa, al fine di evitare le navi spagnole, diffidando persino dei banchi di corallo, prendendo e trasportando le notizie di guerra. Madrid inviava rinforzi e le cose non andavano bene come avevamo sognato. Ad ogni nuova notizia, la nostra speranza andava riducendosi. Quando venimmo a conoscenza di quello che era successo agli studenti di medicina fucilati, avevo solo dodici anni. Anni dopo, quando

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la grande guerra andò in agonia, gli emigranti iniziarono ad abbandonare Kingston per tornare a Cuba. Successe dopo che Antonio Maceo disse di no a Martinez Campos a Los Mangos de Baraguá. Gagliardia inutile, avevamo perso la guerra, eravamo stati sconfitti. Ho detto avevamo perché allora sapevo già e capivo che avevo una patria. Poco dopo Antonio Maceo arrivò in Giamaica, su una nave da guerra spagnola di nome Fernando il Cattolico ... Lui arrivò e altri se ne andarono; La Giamaica si stava spopolando di cubani, senza contare quelli rimasti nel cimitero. Quindi ero già fermamente convinta che il destino dei cubani era quello di vagare senza meta per il mondo.

Il francese della Giamaica, che ne sarà di lui? Era lì, con i suoi genitori, in fuga da qualcosa, non seppi mai da cosa, qualcosa che successe ad Haiti. Tutto finì negli sguardi, nei sorrisi, nei desideri, nei gesti. Mai udii la sua voce né conoscevo le sue parole. Aveva la mia età o ero un po’ più grande, non lo so.

Non sapevo neanche quale fosse il suo nome. Le frontiere non scritte della lingua e la provenienza impedirono il nostro avvicinamento. La piccola Chiesa cattolica aveva, inoltre, divisioni insormontabili tra uomini e donne: uomini, a sinistra, donne, a destra. Dalla nascita delle mie regole, la mia famiglia aveva raddoppiato la sua vigilanza e non mi lasciava mai da sola. Il francesino arrivava a messa all’interno di un carrozza o di un calesse, che sono la stessa cosa, delle persone benestanti. Con lui c’era una ragazza agli albori della pubertà, suppongo fosse sua sorella. Io potevo contemplare il francese a mio piacimento, perché occupava una posizione a sinistra, e, con il corridoio libero tra noi due, potevo osservarlo dalla punta della panca, a destra. Lui, un paio di file davanti a me, e io più indietro. Lui sapeva che lo guardavo. A volte ridacchiavo nervosamente e arrossivo quando girava la testa per lanciarmi un'occhiata fugace. Dalla fronte, sotto il cornicione delle sue folte sopracciglia, usciva il naso, dritto, scendendo verso le labbra sottili che scivolavano in un mento delicato come quello di una donna. Aveva il viso di un uomo ancora ammorbidito dall'immaturità. Con quali lievi ci dicemmo così tanto! Quanta immaginazione e abilità mettemmo nel nostro gioco! Fu in questo periodo che iniziai a sentirmi la proprietaria del mio corpo. Il mio corpo si sottometteva ai miei desideri con una fedeltà che ho amato. I miei occhi, specialmente le mie palpebre, furono più obbedienti dell’aprire o chiudere un ombrello. Riuscii ad abbassare le maniche del mio vestito lasciandomi le spalle nude al momento giusto. Le protuberanze del mio corpo esplodevano senza chiedere il permesso, i miei seni persero il loro pudore, non si adattavano più alla ristrettezza del mio vecchio vestito. Sofia, stai modellando il corpo di donna, diceva mia madre e sorrideva senza avere la minima idea che sua figlia si offriva proprio con quella sfrontatezza che lei tanto condannava. Mi tolsi una benda di velo con la quale cercavo di schiacciarmi il

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busto, un segreto che contava sulla complicità di mia sorella perché era lei che me lo allacciava da dietro. Offrii al francese tutto, i miei occhi, le mie labbra, il mio seno, i miei fianchi, quel ventre tiepido e sodo che normalmente accarezzavo sotto l'anonimato delle lenzuola, mentre pensavo alle sue mani. Quando gli altri abbassavano gli occhi, lui, a capo chino, sorrideva guardandomi con il mento sepolto nel colletto della camicia bianca. Con lui imparai un nuovo piacere; Una volta mi rifiutai di andare in chiesa, fingendo di stare male, con il solo scopo di immaginare la sua irrequietezza e il suo dispetto. Poi ricetti un punizione: la Domenica seguente nascose il suo profilo e dovetti accontentarmi di contemplare solo la sua nuca. Mi piaceva che mi punisse, era la conferma della mia importanza. A volte ci sfioravamo uscendo dalla chiesa, nella confusione dei carri, delle automobili e dei cavalli. Guardarlo in faccia fu un'avventura emozionante. Nei suoi occhi c'era un'espressione un po’ furba e proprio per questo affascinante. Sono sicura che se fossimo stati soli, saremmo scappati entrambi nella direzione contraria, spaventati. La presenza degli altri ci proteggeva e ci lasciava aperte tutte le fantasie, tutte le possibilità, tutte le porte della sensualità.

Non so come sarebbe finita questa storia se un giorno fossimo usciti allo scoperto. Arrivò Armando. Era andato tutto bene e stava venendo a cercarci. Per me, era solo un po’ cambiato. Per lui, io fui una gran sorpresa. Non si stancava mai di guardarmi, di sorridermi. Mi divertiva e mi lusingava che quest'uomo grande e buono mi osservasse con i suoi occhi grigi pieni di ammirazione.

- Quanto sei diventata bella, Sofia. Non hai un fidanzato, ammiratori?

- “ È troppo giovane per quelle cose” disse mia madre, e sospirai perché se lo sapesse! La mia esperienza con il francese mi rivelò l'infatuazione di Armando, sapevo già dove si localizzava il desiderio.

Non ho mai sospettato fino a che punto sarebbe arrivata quella passione. Non mi disse mai niente.

Mi seguiva e faceva battute, si avvicinava con dei pretesti, mi regalava fiori, marmellate, cioccolatini, ma non successe più niente. Un giorno, mia madre, prese le mie mani, entrambe sedute nel corridoio della nostra casetta, mi disse che lo zio Armando voleva sposarmi; che aveva parlato con mio padre; che era un uomo buono e un gran lavoratore; che la differenza di età era un punto a favore per me, perché l'esperienza della vita è la cosa più importante che un uomo possa offrire ad una donna; che dovevo pensare che eravamo in un paese straniero, che avremmo continuato a viaggiare, che nessuno sapeva cosa poteva accadere, che l'unica cosa certa era la famiglia e che saremmo dovuti rimanere insieme. Che mio zio, proprio perché mio zio, mi avrebbe protetta e lei e mio padre sarebbero sempre stati lì al mio fianco, per

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proteggermi. Mi chiese di pensarci bene, che fossi ragionevole, che nessuno mi avrebbe costretta ma che Il buon senso avrebbe dovuto prevalere. Armando amava me e io, col tempo, avrei imparato ad amare lui.

Quando finì di parlare, la prima cosa che pensai fu che avrei preferito molto di più che la mia mano l’avesse chiesta il francese. Stavo per rivelare la verità e dire tutto ma non lo feci perché capii che quello era esattamente ciò che mio padre voleva evitare: lo sradicamento, l’insicurezza, il rischio, la separazione della famiglia. La mia testa si chinò senza che io facessi il minimo sforzo, da sola, per conto suo, mentre ricordavo la mia avventura segreta delle domeniche, l'incenso che il suo naso aspirava, le litanie sussurrate dalla sua bocca, come alzava la sua mano destra per fare il segno della croce. E mi domandai perché non mi fece mai arrivare un necrologio, un biglietto, una lettera? Perché non andò mai oltre la stupida vendetta? Avvertii, improvvisamente, una rabbia terribile contro il francese, la collera arrossì il mio viso e non potei evitare l'umiliazione. Mi ero esposta, gli avevo offerto il mio corpo e le mie labbra, e non era estraneo alla mia generosità. Ma lui non rischiò nulla mentre io rischiai una buona lezione se mia madre mi avesse sorpresa.

Mia madre mi guardava con ansia. Mi infastidivano le sue mani sulle mie. Le ritirai. Mi dava fastidio il fatto che fosse un’intermediaria e che Armando non lo avesse chiesto prima a me. Le caratteristiche di mia madre, invecchiata, ricordavano quelle della donna che accompagnava il francese. Non la ragazza, ma quella donna che più che sua madre sembrava sua nonna. Era un essere tutto grigio dalla testa ai piedi.

Aveva, su ciascun lato della bocca, due linee che estendevano gli angoli verso giù, come se il tempo fosse stato disposto a negargli la possibilità di una risata. Di quell'uomo che accompagnava lei e la ragazza, ricordo molto poco, quasi nulla. Ma di lei ho tutto ben impresso nella mente. Avevo paura di incontrare i suoi occhi, nonostante non fossero cattivi. Era lo sguardo più triste che avessi mai visto. Temevo che lei avesse intuito il nostro gioco, e molte volte sentii, sulla mia pelle, il suo strano sguardo. Il francese, d'altra parte, non sembrava aver alcuna paura. Molte volte li vedevo inclinarsi in sussurri intimi. Anche gli occhi della donna erano grigi, così come il suo vestito e il colorito malaticcio della sua pelle. Non so di che colore fossero i suoi capelli, nascosti sotto una tocca antica e ridicola, legata sotto il mento. C'era qualcosa in lei, a parte il suo disinteresse per la vita, che mi era familiare. Forse spaventò così come spaventa uno specchio che restituisce un'immagine sgradevole.

Mia madre, ignorando questi pensieri, aveva preso di nuovo le mie mani tra le sue:

- Figlia, sei così bella, e noi in questa situazione di impotenza, senza patria e senza sicurezze. È per il tuo bene, capisci?

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Pensai alla donna grigia: - Sì, lo voglio.

- Sei sicura?” Mi guardò sospettosa.

Mi fece pena; voleva il mio consenso e io glielo diedi: - “Sicura. Prima è, meglio è!”

- “Non vuoi pensarci un po’ ? Non voglio che dopo tu dica che ti abbiamo obbligata”. - “Non ho niente su cui riflettere. Quando dico di sì, è perché lo voglio”.

Mentii. Stavo pensando ad altro. Pensavo a ciò che avrebbe detto il francese quando mi avrebbe vista uscire dalla chiesa al braccio di un uomo grande e attraente, vestita di bianco. Ma il francese non mi vide perché non ci fu né chiesa né abito bianco. Non c'era tempo per chiedere rinunce. Zio e nipote si sposarono davanti al giudice.

Armando, a quel tempo, era un uomo attraente, con una buona immagine, serio e molto astuto. Non mancavano i sorrisi e vi posso anche assicurare che la tenerezza non gli era estranea. La severità e l'ostilità apparvero poco dopo, quando si rese conto che c'era una parte di me nell'oscurità, una parte che non conoscevo neanche io stessa. La sua gelosia iniziò così, in un modo che non riuscivo a comprendere. Scoppiò una lotta sorda tra lui e mio padre. Io vivevo tra due fuochi, ero una moglie senza aver smesso di essere una figlia. Era una moglie senza aver smesso di essere una nipote. Si rimproveravano reciprocamente a causa mia, accusandomi di non avermi sorvegliata abbastanza. Controversie di autorità, nelle quali non presi mai posizione e che, in un certo modo, mi lusingavano. Immagino che vi erano già vecchi disaccordi e io rappresentavo l'imbuto in cui confluivano.

Già sposata, rimasi in casa. Non vidi mai più il francese. Nulla cambiò sostanzialmente nella mia vita; continuai a vivere con i miei genitori e Armando ritornò in Costa Rica, dove era riuscito ad avviare un'attività di panetteria.

Tutto rimase come prima. L'unica differenza la fece il letto dell'hotel Spanish Town in cui trascorsi la mia luna di miele. Entrai guidata dalla curiosità e me ne andai senza che la mia curiosità fosse stata soddisfatta. Armando mi prese con cautela, come se il mio corpo fosse di vetro delicato o di porcellana fragile. Pensavo che le cose fossero così, e se mai ci fosse stato, da parte mia, il desiderio di giocare come facevo con il francese, Armando mi avrebbe rimproverata. Ora capisco che, più che la mia bellezza, fu la mia sensualità a provocare la sua