Una donna vestita di nero si guardava intorno con fare sospettoso. Fu allontanata da due agenti di polizia, nascosti nel portone della signora Freer.
Uscirono in punta di piedi mentre lei, distratta, fissava la mia porta. La donna fuggì in tempo e suppongo che non l'abbiano raggiunta perché dopo un po’, non molto a lungo, la polizia si nascose di nuovo nello stesso posto. Li ho visti lanciarsi con voluttuosità sulle prostitute indifese. Ho osservato le loro facce gioiose mentre le trattenevano per lo chignon, dal corpetto; li ho visti dediti al piacere della caccia. Avrei voluto ululare e spaventarli ma io non sono capace del più lieve sospiro. Li vedo e non c’è niente che io possa fare. Dopo tanti mesi spogliata della mia carne, i sentimenti della mia condizione umana ritornano, furiosi, intrappolandomi in un’inavvertita vulnerabilità. Sento le cose, come prima, ma sono sentimenti che riguardano solo la mia estrema impotenza, la mia sensibilità e la malattia.
Adoro quelle donne. Sono la mia unica compagnia. Dalla strada mi parlano con le loro risate provocanti. Ho appreso le parole scurrili del loro misero vocabolario, sapendo che nascondono ansie simili alle mie. Le stesse cose possono essere dette in altri modi. Se, da viva, ho cercato di non ascoltare i loro affari deplorevoli, ora aspetto per seguire, passo dopo passo, la sordida avventura di un'esistenza che non conoscerò mai completamente. Non so cosa fanno durante il giorno. Ce ne sono alcune scortesi e violente, e altre mortificate e timide. C'è chi molesta e chi si aspetta di essere molestata. Ci sono donne consumate dagli anni e ragazzine dal seno ancora piatto. Non sanno che sono qui, ignorano che ascolto i loro dialoghi con l'avidità di una persona sorda. Le pareti della mia casa sorreggono i reni durante le loro sveltine, è su di me che si appoggiano, sono io che le sostengo anche se non lo sospettano. Sospiro sollevata quando finiscono e sono felice quando riscuotono. È un lavoro rischioso e duro. A volte ricevono solo colpi. Ti restituiscono l'umanità perduta, Sofía Teófila de los Dolores, loro sono lo specchio in cui mi moltiplico, all'infinito, in migliaia di Sofia. Loro sono la fessura e la via di fuga attraverso la quale scappo da queste quattro mura che si sgretolano dall’interno ma rimangono intatti esternamente. Sono la mia salvezza perché né il peccato né la virtù sono ormai alla mia portata.
Non ho visto Dio, forse si sta nascondendo dietro un brutto ricordo, un episodio triste. Loro sono il mio presente. Non posso fare altro che aspettarle ogni notte mentre mi immergo nel mio
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passato, nel tentativo di trovare la circostanza che mi ha portato in quel letto, dove hanno interrotto il lieve processo del mio invecchiamento.
La donna che era stata trattenuta davanti alla mia porta aveva un corpo mingherlino come quello di Rosalia, la Yoruba38 negra il cui vero nome avevo sempre ignorato. I suoi occhi spiritati e la sua bocca, con quelle grosse labbra, apparivano sotto il flamboyán di fiori rossi fiammeggianti, quando mi cercava per la cena, per un bagno, per dormire. Quando mi arrampicavo sui suoi grembi, le sue ginocchia affilate maltrattavano la tenera pelle delle mie natiche. Non fu mai dolce, né affettuosa o tenera. Avrei dimenticato la sua faccia ruvida e brutta se solo Rosalía non avesse stretto un forte legame con il tempo in cui la voce mi spaventava così tanto. La voce proveniva dappertutto vagando come un'anima in pena lungo il cortile interno, dalla cucina, dalla terrazza sulla strada, e dalla strada saliva e scendeva. Viaggiava di nascosto nelle ceste delle negre e nelle acque delle giare, contaminando la mia innocenza. La voce e Rosalia erano una cosa sola. Le si aggrovigliava tra i suoi capelli, si nascondeva in una piega dei suoi vestiti, si mescolava anche al suo odore. Tornava dal mercato con i polli e le uova avvolte nella voce. Metteva le sue mani nella frutta e raccontava dei vicini inghiottiti dalle celle del Castello del Morro.
Fu lei a dare la notizia che la Loggia massonica era stata assalita dai soldati. Le notti erano tinte dal colore rosso delle loro vampate di calore, la loro corsa asfissiante nel chiudere le finestre, e gemeva competendo con il miagolio dei gatti. Sussurri rotti dai colpi sulle porte, dal calcio dei fucili sul muso dei cani e le oscenità urlavano al chiaro di luna. Ebbi degli incubi e Rosalia portò la sua stuoia per dormire ai piedi del mio letto, impertinenza che mia madre le permise.
Mio padre si occupava dei suoi affari come se nulla fosse, non partecipava a niente che potesse infastidire gli spagnoli. Eppure, il suo rapporto con Armando, con i vicini e gli amici arruolati in guerra, bastarono per renderlo sospettoso di tradimento alla monarchia. Per una ragazza alta come me, con gambe che terminavano con due occhi inquisitori, non era difficile capire cosa stesse succedendo intorno a lui. E anche se non andavo a scuola o in collegio, uscivo poco e mi confrontavo con poca gente, per Rosalía stavo raccogliendo dati così come le altre ragazze collezionavano stampe: Antonio Maceo e i suoi fratelli, suo padre e sua moglie montavano cavalli attraverso la Sierra Maestro, con un gruppo di ribelli che diventava sempre più numeroso. Piansi quando Rosalía me ne parlò e mi disse che a María Eufemia Cabrales le era
38 Gli Yoruba (Yorùbá nell'ortografia Yoruba) sono un vasto gruppo etno-linguistico di circa 40 milioni di persone e
diffuso nell'Africa occidentale. Sono presenti soprattutto in Nigeria (costituiscono il 30% della popolazione nigeriana), ma anche in Benin, Togo e Sierra Leone. Nel periodo della tratta degli schiavi molti abitanti di queste
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morta una figlia, di fame, di diarrea, di infezione, di tante cose che possono colpire una creatura minuscola e delicata. La immaginavo, a Maria Eufemia, mentre seguiva la sua mulatta, con i capelli sporchi e i vestiti laceri. Sporca, lei era sempre pulita. Viso graffiato, era così bella. Con i piedi spaccati, lei ha sempre indossato belle scarpe. Della natura conoscevo solo le piantagioni di caffè coltivate da mio nonno. Cercavo di immaginare la vegetazione selvaggia e i suoi pericoli, e stavo male per la donna che affondava le sue scarpe tra il fango e le spine. Una di quelle mattine in cui la luce fingeva la normalità, mentre il sole riverberava, Rosalía mi portò fuori casa. Camminammo a lungo, salendo e scendendo per strade, pendii e scale, girando a destra e a sinistra, per poi finire in un vicolo polveroso tra capanne con tetti di paglia. Quello era il quartiere degli schiavi liberati, dei liberti, degli schiavi emancipati. Si sentiva l’odore della miseria, l'odore della cacca di cane confuso al sudore rancido degli uomini. La mia schiava accelerò di fretta allontanando i bambini che mi guardavano attoniti, volendomi accarezzare i vestiti, terrorizzandomi con la loro sporcizia ed i loro sessi nudi. Le negre straccione salutarono Rosalia, sembra essere conosciuta in questo posto. Ci fermammo di fronte ad un frammento di telaio vecchio, rosa a causa del sale marino e perforato dai venti, ultimo residuo di un veliero, che copriva l'incavo di una porta. Sollevò la tela da un lato ed entrammo nell'oscurità. Aspettammo qualche istante, immobili, tra la mia trepidazione e la sua pazienza. Un aroma dolciastro e speziato di erbe sbollentate consolava le mie povere narici. I miei occhi che, provenendo dalla luce, erano diventati ciechi, percepivano sfumature ombrose. La mano ossuta della mia schiava teneva la mia per impedirmi di voltarmi e di fuggire.
Il suo mutismo e il silenzio aggravavano il mio sconcerto. Quando iniziai a strattonare per sbarazzarmi dalla sua presa, la voce di un uomo iniziò a parlare nella lingua proibita, quella che portava grandi punizioni, sferzate e palle di ferro. Io non capii, ma Rosalia rispondeva, brevemente, seccamente. Il balbettare sonoro ed incomprensibile della voce anonima formulò qualcosa che doveva essere un invito perché venni subito spinta, senza tante cerimonie, in avanti e costretta da un gesto energico di Rosalia, a sedermi su qualcosa che le mie dita afflitte riconobbero come la trama grezza di una stuoia. Piegai le gambe sotto il vestito, aspettando che succedesse qualcosa di terribile e serio. Mi dissi: Sofia, se ti muovi sei morta. Rosalia e l'uomo che cominciava a profilarsi tra le ombre continuarono il loro incomprensibile dialogo. Cominciai a esplorare il posto, abituando i miei occhi a poco a poco, per sapere dove mi trovavo e quale strana cosa succedeva alle mie costole.
regioni furono deportati nelle Americhe, e si trovano comunità riconducibili al gruppo Yoruba anche in Brasile, Cuba, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Haiti, Giamaica, Trinidad, nei Caraibi e negli Stati Uniti.
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Un negro, di cui ebbi l’impressione solo del bianco dei suoi occhi, era seduto molto vicino, di fronte a me, sulla stessa stuoia, circondato da bottoni impossibili da indovinare.
Rosalia si sedette al mio fianco e mi accarezzava la testa, come si fa con un animaletto stordito. L’ascoltai ripetere la parola babalawo39, più volte in un tono interrogativo e interrogatorio.
Attraverso una giuntura della tenda di tela un raggio di luce penetrò e con il suo aiuto inaspettato vidi che il negro era vecchio e brutto, e le pieghe del suo ventre erano rugose e rilassate. I piccoli pezzi erano zuppiere di porcellana ricoperte di stracci colorati. C'era anche una quantità considerevole di oggetti difficili da classificare, legno e metallo, ammucchiati come giocattoli rotti. Leggende di Orichas, di misteriosi riti, di galli sgozzati e di stregonerie con ossa e capelli, mi riempirono di terrore.
Sicuramente lanciai un'esclamazione o un lamento, perché Rosalía mormorò, a voce bassa: - “ Che cos'hai, Sofia. Il babalawo è santo, non ti succederà nulla”.
- "Apri la tenda", disse il vecchio, "affinché la bambina non si spaventi”.
La luce si riversò, confermando ciò che i miei occhi avevano già decifrato. Quella non era una casa, non come quelle che ero abituata a visitare. Sembrava la tana di una bestia. Ma la mia paura uscì dalla porta e si trasformò in curiosità. C'era uno strano fantoccio con gli occhi di lumaca che richiamava la mia attenzione e su lui riposi i miei occhi.
Il vecchio sorrise:
-Eleguá40. Eleguá apre la strada.
Quale strada? Pensai. Ma non ebbi il tempo di pensare troppo perché il negro tirò fuori da quel disordine una collana fatta con anelli di gusci di noci di cocco e iniziò una litania della quale capii il mio nome, Sofia, Sofia, Sofia ... ripetuto come una chiamata, come un'invocazione. Rosalía si chinò al mio orecchio e sussurrò: “la regola di Ocha”41. Ma mentre il vecchio
seguiva la sua litania, non mi arrischiai a fare domande. Il vecchio aveva una ciotola d'acqua in cui mi bagnai la fronte, obbligandomi a fare, molte volte, il segno della croce.
39 Il Babalawo (padre dei segreti) è uno dei maggiori sacerdoti della religione Yoruba. È considerato molto potente,
grazie alle cerimonie segrete di evocazione della divinità Orunmila. Il Babalawo è riconosciuto come lo stregone più potente della magia africana. Probabilmente deriva dal termine Bukono della religione tradizionale vudù.
Secondo la tradizione, il segreto della cerimonia non deve essere mai svelato, perché causerebbe un caos spirituale
40 Eleguá è una delle divinità più rispettate nella religione yoruba e nei culti sincretici correlati,
quali santeria e candomblé, in cui è talvolta identificato con Sant'Antonio o San Michele, spesso viene confuso con il demonio e considerato una personificazione del male.
41 Tra le religioni di origine africana che si sono conservate a Cuba si distingue la Santeria o Regla de Ocha. Il nome
di Santeria o Regla de Ocha deriva dal culto degli orichas, cioè le divinità attorno alle quali si sviluppano tutte le forme di religiosità che si producono in questo contesto. Queste forze sovrannaturali, sono spiriti e divinità associate agli elementi della natura e che possono influire sulla vita dei credenti sia positivamente che negativamente, motivo
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La collana cadeva sul tappeto e il vecchio si chinava per osservare, attentamente, la disposizione degli anelli di cocco. Mormorava qualcosa tra sé e sé, poi prendeva la collana e la gettava ancora e ancora, e ogni volta le noci di cocco cadevano in modo diverso, e il numero di coloro che cadevano dal lato bianco e dal lato scuro non era mai lo stesso. Il vecchio mi mise due lumache nelle mani chiuse, chiedendomi di distribuirli tra i miei pugni, in modo che non potessi vederli. Poi mi chiese di aprire le mani. Si stava chiedendo qualcosa, qualcosa che mi era proibito capire, ma le lumache risposero, a seconda della loro posizione, in una mano o nell'altra. Rosalia era silenziosa, immersa in un profondo stato di attenzione. Quando il vecchio negro finalmente mise via la collana, parlò con Rosalia a lungo ed in modo agitato nella sua lingua Yoruba.
Partimmo tardi la mattina. La prima cosa che la mia schiava fece, quando lasciammo il quartiere dei liberti, fu pulire le mie scarpe. Poi mise in ordine il mio vestito, i nastri dei miei capelli, il pizzo del vestito a ruota. Durante il viaggio di ritorno verso casa gli chiesi insistentemente della cerimonia, perché mi aveva portata da quell'uomo, se era un indovino e cosa le aveva detto di me. Non ottenni niente. Non mi disse nulla e anche oggi non so cosa sia successo lì. Rosalía non ebbe bisogno di comprare il mio silenzio. Non avrei mai osato rivelare un segreto così proibito. Sapevo che si trattava di qualcosa di pericoloso di cui non valeva la pena parlare. La minaccia di qualcosa di terribile si avventava sui miei riccioli. Non l'ho mai detto a nessuno.
Una notte avvenne uno strano rituale nella mia stanza. Mia sorella dormiva e dormivo anche io. Mi svegliai con lo svolazzare di un piccione, lo osservai con dissimulazione.
Rosalía aveva immobilizzato l’animale dalle zampe e percorreva, con lui, tutta la stanza, gli spigoli, gli angoli, il mio corpo e il mio letto, sollevando il velo della zanzariera. Riesco ancora a sentire la brezza rinfrescante delle ali grigie mentre svolazzano sulla mia testa. Continuai la messinscena finché la schiava lasciò che il piccione fuggisse attraverso la finestra aperta. L'uccello voleva tornare indietro e lo fece. Cercò di rompere la trama della zanzariera che Rosalia aveva lasciato cadere. Un sospiro soffocato dalla mia bambinaia nera fu il pretesto per inventare che stavo uscendo dal sogno, aprii gli occhi, mi alzai e il piccione volò via.
Rosalía sembrava spaventata ma non mi diede una spiegazione. Lasciò la camera da letto chiudendo la porta con cautela, in modo che il rumore non svegliasse i miei genitori.
Abbiamo vissuto con la paura sulle spalle. Cominciarono ad essere venduti gli schiavi, i mobili, e anche se nessuno mi disse nulla, intuii che tra i bisbigli a porte chiuse si stava
per cui in ogni momento questi ultimi cercheranno di guadagnarsi i loro favori attraverso preghiere, invocazioni, sacrifici, offerte, i sistemi di divinazione e la realizzazione di cerimonie rituali.
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progettando un viaggio. Vendettero Rosalia, l'ultima schiava che ci rimaneva. Andò via senza salutare. Forse ci amava, forse ci odiava. Chi potrebbe saperlo? Non lo disse mai a nessuno ed è possibile che non l'abbia confessato nemmeno a sé stessa.
Poi mi hanno detto che mio zio Armando aveva lasciato Cuba. Mi portarono su un calesse e marciammo in una carovana, come se stessimo andando a fare una passeggiata. Ci imbarcammo, clandestinamente, su una spiaggia lontana dal Castillo del Morro, su una goletta inglese su cui feci il viaggio più divertente della mia vita, nonostante i visi lunghi e le lacrime che scorrevano, senza sosta, sulle guance di mia madre. Passai tutto il mio tempo osservando il gioco di delfini e dei gabbiani, divertendomi con le onde, finché non arrivammo in Giamaica. Tutto rimase a Cuba, il tavolo con la copertura di marmo bianco, le sedie a dondolo, la giara con la sua pietra filtrante e i flamboyan con i suoi fiori rossi.
Della casa nel quartiere di Santo Tomás mi è rimasto in testa, come un indovinello, il ricamo delle lastre del pavimento. Potrei disegnarli. Avevano uno sfondo giallo e in ogni angolo un disegno in tono rosso che, unito ai tre mosaici immediati, formavano un grande fiore geometrico con il suo centro e la sua corolla, con i suoi petali e il suo aroma di cera. Li ricordo perché mi piaceva giocare alla zampa zoppa, cercando di mettere il piede al centro di ogni fiore, saltandone uno per rientrare nel seguente.
Chi vivrà lì, ora?
Ricordo anche la sagoma della Sierra Maestra, dall'altra parte della baia. La baia, da qualsiasi parte tu la guardi, era, ed è ancora, una presa d'acqua che scivola nell'entroterra proprio come fa un uomo quando vuole raggiungere il più profondo mistero del corpo di una donna.
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