Vidi Maria. Ferma sul marciapiede della farmacia ad osservare la mia casa. L’uomo che l’accompagnava, rozzo e grossolano, la teneva stretta per il braccio. Forse temeva che potesse scappare. La mia vecchia cuoca, la mia servitrice fidata era irriconoscibile. Amica mia, anche se né io né lei ci siamo mai chiamate così. I suoi capelli erano legati da un nastro sgargiante, portava una blusa scollata e le sottovesti di colore vivace che svolazzavano tra le sue gambe, compiendo movimenti indecenti. Lontana da quella bambina timida, da quella contadina apprensiva e introversa che un giorno mi caricò su un carro, con gli occhi nascosti tra le trecce nere. Mi costò molto rivedere in lei la cauta domestica che viveva accanto a me nella sua uniforme scura, in quella donna dall'aspetto sfacciato e dalla scollatura insolente. Così introversa, come me, ora si comporta come se la strada fosse la sua casa. Ha guardato a lungo la casa, sorpresa da qualcosa che non riesco ad indovinare. Chissà, sarà sorpresa perché la casa è ancora sullo stesso angolo, che, dopo tutto, nulla è cambiato.
Passò don Pío Víquez e lei nascose il suo viso. In ogni caso, don Pio non l'avrebbe riconosciuta, anche perché non si rese mai conto della sua esistenza. L'uomo che era con lei aveva quell'aria di brutale innocenza tipica degli animali. Guardava la casa e guardava lei cercando, suppongo, di stabilire una relazione. Poi se ne andarono in fondo alla strada. Maria non voltò la testa. Mi abbandona tra i giorni spezzati dal peso delle assenze e dal ricordo delle notti alleviate dal sospiro di un bambino. Notti attente al gemito di un incubo, al cigolio di una branda, al tintinnio metallico di un vaso da notte. Mi lascia qui, confortata dal nitrito di un cavallo, con i passi frettolosi di qualcuno che ha paura, con l'andatura scoraggiata del poliziotto che ammazza il tempo durante il suo turno. Va via la mia cuoca lasciandomi cagionata in questa casa. Mi lascia come una lumaca nel suo guscio. Mi chiedo cosa succederebbe se venisse qui. Sospetterebbe della mia presenza?
È inutile che io mi ponga queste domande. Ad ogni modo non verrà. Deve avere una terribile paura di oltrepassare la porta. Così, dunque, calmerò la mia sete di rumori e di vita con il trambusto della strada e i mormorii dei curiosi, sempre in attesa di un volto spettrale o di un segnale che confermi loro l'esistenza di un mondo parallelo in cui ospitare il loro desiderio di eternità. Dopo che Maria sparì, la tentazione della materia tornò con rinnovata furia. Mi sono spostata in salotto per tentare di sollevare il coperchio del piano.
Ahhh … vorrei tanto vedere la materialità dei tasti infossati dalla pressione delle mie dita. Ho fallito nuovamente. Qualcosa di simile all’ira si fa largo in questa strana vita non mia. L’impotenza della mia condizione mi sprona. Che cosa faccio qui? La sola idea che il mio
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inferno consista nel rimanere definitivamente libera nella miseria dell’esistenza, consumata dallo scetticismo, sommersa dall’ambiguità, estranea al mio corpo e a tutti, la sola idea, dico, mi farebbe impazzire se fossi una persona normale. Ma non lo sono, non sono nemmeno una persona. Quando capirò che non esisto?
Se avessi una scatola di fiammiferi, darei fuoco a questa casa. Accendere un fiammifero richiede uno sforzo minimo. Sono tornata in cucina con la speranza di trovarne qualcuno vicino al piccolo tumulo della legna da ardere. La cucina è ancora fredda e desolata, come me, con le sue porte di porcellana bianca, il calderone coperto e il fornello socchiuso perché la tragedia sorprese Maria nel bel mezzo della preparazione della colazione.
Che fine avranno fatto i fiammiferi? Li cerco nel loro solito posto ma non vedo neanche la scatola. Li avranno consumati quelli che sono venuti ad indagare sul mio crimine; fumavano e lasciavano i mozziconi di sigaretta sparsi sul pavimento. In tutta la casa ci sono mozziconi. Non so se ce ne sono sul pavimento della camera da letto di Armando, anche perché se quello è un luogo che in vita evitai, figuriamoci ora.
Il fuoco segnò un giorno della mia infanzia. È uno di quei ricordi indimenticabili. Tutto iniziò di mattina presto. In casa non ci rendemmo conto perché sorse nel centro della città mentre noi vivevamo nella parte inferiore, verso il mare. Fummo allarmati dalle grida della gente, i ribelli! I ribelli! Era la prima volta che sentivo quella parola, provai a chiederne il significato, ma tutti si erano mobilitati e nessuno voleva ascoltarmi. Quindi per molto tempo ho associato i ribelli con il fuoco, fino a quando, captando frasi vaghe qua e là, capii che l’incendio che convertì in cenere i commerci era stata opera della casualità. Rimasi sempre con il dubbio. Si diceva però che l’incendio fosse dovuto ad una svista dei panettieri che lasciarono i forni sporchi. Rimasi sempre con il dubbio.
Il cielo si oscurò come solitamente succedeva quando minacciava la pioggia. Uscii dietro Rosalía e mia madre, verso la strada della Marina. Mia sorella stava dietro di me. Arrivate alla Plaza de Armas mia madre notò la nostra presenza, e disse: cosa ci fanno queste bimbe qui? Voleva farci ritornare con Rosalía ma era impossibile.
Tenendoci per mano fummo trascinate in cima al piazzale della cattedrale, da dove era chiaramente visibile la colonna di fumo che emergeva dalle spalle del Palazzo del Governo. Una folla enorme invadeva la piazza e saliva le scale della chiesa per vedere meglio. Da dove eravamo, un posto privilegiato dietro il parapetto, in prima fila, mi sentivo felice. I pompieri negri correvano con i picconi e le campane, tolón, tolón, tolón, spingendo le persone che si facevano strada con difficoltà, verso il retro del palazzo, avendo l'impressione che fosse il palazzo stesso che bruciava su tutti e quattro i lati.
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I pompieri si sporgevano e sparivano tra la massa grigia e densa che si estendeva provocando la tosse ai curiosi. Mia sorella si strofinava gli occhi e finì per affondare la testa nel vestito di tarlatana che mia madre era solita indossare solo in casa perché aveva una macchia di grasso che non andava via né con il sapone, né con la candeggina. Stavo facendo uno sforzo eroico per resistere al bruciore degli occhi, perché non volevo perdermi nulla.
Alcuni urlavano acqua, acqua! e altri rispondevano, non ce n'è, non ce n'è!
I soldati spagnoli allontanavano, a calci nel sedere, i guardoni delle prime file, costringendoli a ritirarsi verso il piazzale della Plaza. Si sentiva il rumore delle picconate e da lì capii che stavano evacuando le case alla nostra sinistra. Nonostante le urla e le grida, le fiamme si alzavano con la forza di un ciclone, seguite da uno spaventoso silenzio quando l'oscurità del fumo copriva lo scenario. Quel silenzio era per me più opprimente dei lamenti, e la mia anima andava via, per tornare quando le urla imperversavano nuovamente.
Una catena di schiavi con secchi d'acqua avanzavano guidati da un picchetto di soldati. Di mano in mano si passavano i secchi d’acqua, fiancheggiati dalle armi, in un inutile tentativo di placare le fiamme. Marinai inglesi, francesi e nordamericani, con le loro pittoresche uniformi, si unirono agli schiavi. Improvvisamente una voce che sembrava venire da ogni angolo della Plaza ululò, la rivoluzione, la rivoluzione! Poi le forze del ejército de guarnición37 iniziarono a sparare in aria, esortando la folla a disperdersi e, per il panico, gli spettatori si scontravano l'uno contro l'altro in un terribile smarrimento. Da dove mi trovavo potevo vedere i meno prudenti cadere a terra e gli altri che, calpestandoli, li superavano cercando ogni angolo per fuggire da quel posto. Mia madre e Rosalia si accucciarono dietro il parapetto, abbracciandoci, facendoci scudo con i loro corpi.
- Cosa state facendo qui?
Mio zio Armando apparve dietro di noi. - E tu cosa stai facendo qui?
La voce di mia madre non aveva mai avuto un tono così aggressivo. Il suo era peggio:
- Io lo so cosa sto facendo qui: rammaricandosi che le fiamme non avessero carbonizzato il Governatore.
Lo disse con rabbia a voce molto alta, sfidando gli spettatori, che si voltarono verso di lui. Senza aggiungere altro mise le sue mani sulla mia vita e mi sollevò, costringendo mia madre,
37 Sono conosciute come Ejército de Guarnición quelle truppe militari destinate alla protezione di palazzi, castelli,
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Rosalia e mia sorella a seguirlo. Dalle sue braccia vidi che il suo viso arrossiva mentre i suoi occhi brillavano di una forte eccitazione.
Aveva così tanta rabbia che, senza rendersene conto, mi stringeva. Seduta sull’angolo del suo gomito istintivamente non mi lamentavo. Avevo molta paura della sua espressione alterata, lo vedevo molto furioso.
Armando ci accusò. Mio padre sembrava più arrabbiato con lui che con noi.
Mia madre piangeva. Mio padre scaricò la rabbia su Rosalia e la povera donna ricevette qualche bastonata sui fianchi ossuti. Se la rabbia del padrone non riuscì a romperle la spina dorsale, dubito che dopo, quando fu venduta, qualcuno potesse danneggiarla, per quanto duro sia il rigore.
La diceria che l’incendio fosse stato provocato dai ribelli, quei misteriosi ribelli che invasero le mie fantasie e i miei sogni, rimase nell'aria fino a quando l'epidemia di colera cambiò l'orientamento dei terrori, e le fiamme degli incendi dove furono inceneriti i morti mi fecero dimenticare il fuoco precedente. La gente moriva tra laghi di merda. Il fumo odorava di peste e non c’era un angolo della città dal quale non uscivano le carrettate di vittime verso le colline, dove le pire attendevano il loro combustibile.
Non uscimmo più di casa. Mia madre e Rosalia bruciavano erbacce di uno strano odore in ogni angolo e un aroma di stregoneria e riti segreti accompagnò quei mesi della mia vita in cui continuavo a sbirciare nell'incomprensibile, e suppongo anche mia sorella.
A quel punto, la casa dei Maceo rimase vuota. L'intera famiglia fuggì, prima dalla sua tenuta di Majaguabo e poi dalla manigua, inseguiti dai soldati spagnoli. E iniziarono a vociferarsi cose su Antonio, che era andato con un certo Rondón per fare la guerra e che la sua mulatta fedele, Maria Eufemia, lo stava seguendo.
Armando scomparve per un po’ e tornò per poi andarsene nuovo nuovamente. Andava e veniva. Io cercavo di capire da sola. Quando volevo sapere e osavo fare domande, mi tappavano la bocca, lasciandomi senza la voglia di continuare a scoprire. Tutte le cose, anche le più innocenti, erano sussurrate come se le pareti fossero al servizio della corona spagnola. Anche io iniziai a tacere e a parlare a voce bassa. Persino le controfinestre, sempre chiuse, apparivano sospettose, ed era chiaro che i cattivi erano i soldati spagnoli. Per loro le conversazioni furono interrotte; a causa loro si cambiava il nome alle cose; per causa loro non si usciva per strada e si tenevano chiuse le controfinestre. Per loro abbiamo trattenuto il respiro quando suonava il colo battente della porta e le fessure diventarono di capitale importanza. Ero fermamente convinta che anche la questione della peste era legata agli spagnoli.
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