• Non ci sono risultati.

Armida e i campioni cristiani trasformati in pesci.

Nel campo cristiano ‘vengono festeggiati i cinquanta cavalieri che, sfuggiti al controllo di Armida, hanno dato il loro decisivo contributo nella battaglia notturna appena conclusa. I cavalieri raccontano a Goffredo le loro peripezie vissute al seguito di Armida, ben presto rivelatasi una potente e prodigiosa maga, capace persino di mutarli a suo piacimento in animali’ (Tomasi, p. 628).

149 È Guglielmo a raccontare a Goffredo le loro peripezie X 59 7 - 60: ‘Al fin del re britanno il chiaro figlio / ruppe il silenzio, e disse alzando il ciglio: // “Partimmo noi che fuor de l’urna a sorte / tratti non fummo, ognun per sé nascoso, / d’Amor, no ’l nego, le fallaci scorte / seguendo e d’un bel volto insidioso. / Per vie ne trasse disusate e torte / fra noi discordi, e in sé ciascun geloso. / Nutrian gli amori e i nostri sdegni (ahi! tardi / troppo il conosco) or parolette, or guardi’

Continua Guglielmo (X 61): ‘Al fin giungemmo al loco ove già scese / fiamma dal cielo in dilatate falde, /

e di natura vendicò l’offese / sovra le genti in mal oprar sì salde. / Fu già terra feconda, almo paese, / or acque son bituminose e calde / e steril lago; e quanto ei torpe e gira, / compressa è l’aria e grave il puzzo spira’.

Si tratta di un luogo presso il Mar Morto dove, secondo la narrazione biblica, sorgevano le città di Sodoma e Gomorra, punite da Dio con una pioggia di fuoco per i peccati contro natura.

Si noti la metamorfosi – collocata nel passato – dalla terra feconda, fertile ad una palude dalle acque bituminose e calde, uno stagno in cui – come si legge a X 62 1-4 – l’uomo galleggia.

Ma se il paesaggio esterno è connotato dalla marca della sgradevolezza maleodorante, il castello entro cui

sorge è caratterizzato dalla falsa bellezza, che è tratto distintivo di Armida. Cioè, si tratta ancora una volta di metamorfosi perché la maga ha trasformato la bruttezza naturale dei luoghi in una bellezza artificiale e magica grazie ai suoi malefici: cfr. X 62-63: ‘Siede in esso un castello…/…/…non so con qual arte / vaga è là dentro e ride ogni sua parte. // V’è l’aura molle e ’l ciel sereno e lieti / gli alberi e i prati e pure e dolci l’onde ….’ E si noti la reticenza di Guglielmo: ‘i marmi io taccio e l’oro / meravigliosi d’arte e di lavoro’, in cui è anticipato il concetto di un’arte, di un lavoro che rende preziosa, meravigliosa la materia, grazie ad una lavorazione, e quindi ad una metamorfosi, della materia stessa.

E poi, il prodigioso artificioso di un banchetto in cui le primizie di ogni stagione sono contemporaneamente tutte presenti: cfr. X 64, in particolare 5 sgg.: ‘Era qui ciò ch’ogni stagion dispensa, / ciò che dona la terra o manda il mare, / ciò che l’arte condisce; e cento belle / servivano al convito accorte ancelle’.

Ma la scena centrale ai nostri fini è X 65-69: ‘Ella d’un parlar dolce e d’un bel riso / temprava altrui cibo

mortale e rio. / Or mentre ancor ciascuno a mensa assiso / beve con lungo incendio un lungo oblio, / sorse e disse: “Or qui riedo”. E con un viso / ritornò poi non sì tranquillo e pio. / Con una man picciola verga scote, / tien l’altra un libro, e legge in basse note. // Legge la maga, ed io pensiero e voglia / sento mutar, mutar vita ed albergo. / (Strana virtù!) novo pensier m’invoglia: / salto ne l’acqua, e mi vi tuffo e immergo. / Non so come ogni gamba entro s’accoglia, / come l’un braccio e l’altro entri nel tergo, / m’accorcio e stringo, e su la pelle cresce / squamoso il cuoio; e d’uom son fatto un pesce. // Così ciascun de gli altri anco fu vòlto / e guizzò meco in quel vivace argento. / Quale allor mi foss’io, come di stolto / vano e torbido sogno, or me ’n rammento. / Piacquele al fin tornarci il proprio volto; / ma tra la meraviglia e lo spavento / muti eravam, quando turbat in vista / in tal guisa ne parla e ne contrista: // “Ecco, a voi noto è il mio poter” ne dice / “e quanto sopra voi l’imperio ho pieno. / Pende dal mio voler ch’altri infelice / perda in prigione eterna il ciel sereno, / altri divenga augello, altri radice / faccia e germogli nel terrestre seno, / o che s’induri in selce, o in molle fonte / si liquefaccia, o vesta irsuta fronte. // Ben potete schivar l’aspro mio sdegno, / quando servire al mio piacer v’aggrade: / farvi pagani, e per lo nostro regno / contra l’empio Buglion mover le spade”. / Ricusàr tutti e aborrìr l’indegno / patto; solo a Rambaldo il persuade. / Noi (ché non val difesa) entro una buca / di lacci avolse ove non è che luca’.

Si tratta di una scena centrale per la comprensione del tema della metamorfosi nella Liberata.

Si tratta di un vero e proprio rito magico di metamorfosi in cui Armida rinnova i tratti della Circe omerica (Od. X 229 sgg.) riletta attraverso l’Alcina ariostesca (OF VI 35 sgg.).

Armida si allontana dal banchetto ancora estremamente melliflua (‘parlar dolce’, ‘bel riso’); ma quando

torna – prima metamorfosi di sé – ha ‘un viso’ ‘non sì tranquillo e pio’. Con una mano agita una bacchetta magica, con un’altra tiene aperto un libro di incantesimi e legge a bassa voce.

150 Viso torvo; bacchetta magica; libro di incantesimi: tutti segnali di una magia che sta per compiersi. Si noti che a livello profondo la lettura di incantesimi si riconnette al potere metamorfico della parola.

La maga legge le formule magiche e Guglielmo dice di aver avvertito mutare, modificarsi la ragione e i suoi desideri, e anche la sua natura e la sua dimora: i cavalieri cristiani subiscono una metamorfosi in pesci: metamorfosi per la quale Tasso ha sicuramente presente Dante, Inf. XXV 112-138, locus postillato da Tasso in questo modo: ‘mirabile nell’espressione di queste trasmutazioni sovra ogni poeta’, e Ovidio, modello di Dante, soprattutto per quanto concerne l’indugio nei dettagli della trasformazione in atto (e anche Petrarca, canzone delle metamorfosi: RVF 23).

Tra l’altro, nel corso della revisione romana, Tasso maturò il proposito, poi non realizzato, di cassare l’episodio, per eccesso di meraviglia ((cfr. Lettere poetiche, XXXVIII 5 e XL 2: SCRIVERE!!!)), il che è conferma diretta della connessione meraviglia / metamorfosi.

Per quanto concerne la fonte ovidiana, essa è Met. III 670-682 (ma anche i vv. seguenti, in verità): exsiluere viri, sive hoc insania fecit.

sive timor, primusque Medon nigrescere coepit corporee t expresso spinae curvamine flecti. incipit huic Lycabas: ‘in quae miracula’ dixit ‘verteris ?’ et lati rictus et panda loquenti naris erat squamamque cutis durat trahebat. at Libys obstantes dum vult obvertere remos, in spatium resilire manus breve vidit et illas iam non esse manus, iam pinnas posse vocari. alter ad intortos cupiens dare bracchia funes bracchia non habuit truncoque repandus in undas corpore desiluit: falcata novissima cauda est, qualia dimidiae sinuantur cornua lunae.

Balzarono in piedi gli uomini, non so se per follia o per timore, e per primo Medonte cominciò ad assumere un colore nero in tutto il corpo e a curvarsi, sporgendo in fuori la spina dorsale. Licabante stava per chiedergli: “In che mostro ti stai trasformando?”, ma mentre parlava si ritrovò il grugno dilatato e il naso schiacciato, mentre la pelle indurita si copriva di squame. Libi, nel tentativo di far ruotare i remi inceppati, vide le sue braccia contrarsi e le mani risalire, perdendo la loro forma e mutandosi in pinne. Un altro che aveva teso le braccia per tirare le ritorte funi, non le trovò più: piombò giù nell’acqua, incurvandosi col corpo monco, in fondo al quale spuntava una coda falcata, simile a una mezza luna.

L’episodio ovidiano concerne la trasformazione di marinai in pesci da parte di Bacco; i marinai non avevano intenzione di ascoltare le istruzioni di Bacco: solo uno di loro non era contrario alle indicazioni di Bacco, pertanto venne escluso dalla metamorfosi, e guidò Bacco verso la destinazione da lui indicata. A livello contenutistico, al di là del tratto comune della metamorfosi in pesci, non sfugga che Bacco trasforma i marinai perché restii alle sue indicazioni e similmente Armida trasforma i crociati in pesci per mostrare i suoi poteri terribili nel caso essi non si adeguino alle sue prescrizioni.

Notevolissima, come ha indicato La Penna, la ripresa dello stile ovidiano nella descrizione minuta delle mutazioni delle singole parti del corpo.

Si noti poi un termine come ‘meraviglia’ (67, 6) che ci dice ancora una volta del legame meraviglia / metamorfosi.

Non sfugga poi che Armida espressamente dice di essere completamente padrona di loro e che dipende dal suo volere se essi subiscono trasformazioni in uccelli o in radici o in pietre o in fonte o in animali: e qui quasi è sfoderato un intero repertorio ovidiano di metamorfosi (numerose in Ovidio le metamorfosi in questi elementi naturali: moltissimi individui ad es. sono trasformati in uccelli specie nel momento della morte: es. Scilla e Niso, e moltissimi sono trasformati in fonte, spesso perché immobilizzatisi, paralizzatisi in atteggiamenti piangenti).

151 Ma, dice la maga, se i crociati desiderano evitare queste metamorfosi, occorre che si convertano alla religione islamica (X 69): ‘farvi pagani’ e muovere le spade contro l’empio Buglione (empio, in singolare contrapposizione con l’attributo usuale di ‘pio’: e di ‘empio Goffredo’ già parlava l’uomo sul ponte levatoio del castello di Armida): come si vede, le punizioni della maga pagana sono assolutamente antitetiche alle punizioni divine di marca dantesca: se nella Commedia le metamorfosi dei dannati all’Inferno sono dovute ad un piano divino, secondo una ferrea legge di contrappasso, qui le metamorfosi compiute da Armida (Armida-Circe: Armida che compie metamorfosi sugli altri) sono non la punizione per aver deviato dalla retta via della religione cristiana, bensì sono disponibili all’uso per chi – crociato cristiano – non rinunci alla religione cristiana, deviando così dai dettami di una maga pagana e dalle norme di un paganesimo che pretende conversioni forzate al loro credo.

Significativa l’osservazione di Tomasi (p. 672): ‘Le diverse metamorfosi che minaccia Armida ai cavalieri non sono altro che delle punizioni per l’unica, vera metamorfosi che vuole imporre ai cavalieri, cioè di rinnegare la propria religione e combattere contro i cristiani’: anche se andrebbe corretta in un punto: non ‘punizioni per…’, ma ‘punizioni previste nel caso in cui essi non vogliono sottostare all’unica, vera metamorfosi’ (forse Tomasi intende: ‘punizioni la menzione delle quali stimola l’unica, vera metamorfosi’, ‘la menzione delle quali è diretta all’unica, vera metamorfosi….’)

Si noti infine che l’unico crociato a convertirsi al paganesimo è Rambaldo, evidentemente degno di biasimo e disprezzo in una prospettiva cristiana e crociata.

Significativo anche che – coerentemente con una trasformazione in pesci che pare essere anche di tipo amoroso-erotico (cfr. interpretazione allegorica delle Metamorfosi ovidiane da parte di Giovanni Del Virgilio: nudi come pesci, etc.) – la maga rinchiuda i crociati in una ‘buca di lacci’, lì dove i lacci, le catene sono, è evidente, primariamente quelle propriamente di una prigione in senso stretto, ma non possono non richiamare ai lacci d’amore, in cui quei lacci metamorficamente si trasformano: la prigione di Armida è una prigione dovuta, anche e soprattutto, all’abbandonarsi a inclinazioni peccaminose nella sfera dell’eros. Nonostante questo, si noti l’eroismo e l’ortodossia dei crociati che (ad eccezione di Rambaldo) tengono fede al proprio credo.

Quando poi i campioni cristiani imprigionati da Armida sono finalmente liberati da Rinaldo, possono recuperare le proprie armi: X 71 7-8: ‘…. (Rinaldo) di quell’arme loro / fa noi vestir che nostre in prima foro’. Si vestono delle armature e delle armi indossate dai pagani che li stavano conducendo prigionieri come dono al re d’Egitto: armi che precedentemente erano loro appartenute.

Anche Rinaldo nel XVI canto grazie alla liberazione da parte di Carlo e Ubaldo si riveste poi delle sue armature che aveva abbandonato presso il giardino di Armida.

Il recupero delle armi da parte dei prigionieri di Armida anticipa, come anticipazione figurale, il recupero delle armi da parte di Rinaldo nel XVI canto: cioè, un tratto che potrebbe apparire di micro-metamorfosi è figura di una più accentuata metamorfosi (e questo inevitabilmente conferisce spessore alla micro- metamorfosi: i crociati prigionieri di Armida ri-diventano crociati in senso stretto grazie alla riacquisizione delle armi: dalla prigione coercitivo-erotica (senza armi) passano ad uno stadio in cui non sono più, come invece in precedenza, totalmente disarmati in ogni senso di fronte alle insidie di Armida.

ARMIDA-Circe: trasformazione in pesci Monica Bisi

Cap. II, par. II: Circolarità del mondo magico nella Gerusalemme Liberata

La figura chiave che ci permetterà di rilevare le caratteristiche proprie al mondo magico e alla sua espressione letteraria sarà naturalmente Armida. Da quando entra in azione essa mette in gioco in modo concreto tutti gli elementi che il Tasso ha voluto inserire – non a caso – nella sua prima appararizione al canto IV: dall’inizio la maga è dissimulatrice, mostra e nasconde, assume un volto diverso dal proprio pensiero: “Vela il soverchio ardir con la vergogna, / e fa manto del vero a la menzogna” (IV, 25). Il suo

152 giardino è effetto di un tale artificio che in esso sembra che la natura imiti l’arte; il suo palazzo si rivela un’illusione; le sue parole dissimulano a proprio vantaggio. Il personaggio della bella maliarda aiuta a costruire e a caratterizzare il paradigma di uno dei lati della dialettica binaria disegnata sopra: novella Circe,

Armida trasforma gli uomini in pesci e poi li restituisce alla vita umana, opera dunque nell’ordine della ripetizione, dell’antifinalismo, della reversibilità, ha a che fare con la figura chiusa del cerchio e, con le bellezze di cui riempie il proprio giardino, nasconde il disordine dietro un’illusoria armonia.

Grazie a tutte queste sue proprietà, essa è anche uno degli ostacoli maggiori all’impresa dei crociati. Il suo primo tentativo di fermarli si realizza nell’ordine della retorica, il secondo e il terzo in quello della magia, il quarto torna ancora ad appoggiarsi al potere della parola. Nel momento in cui entra in scena, tenta, con un lungo discorso intessuto di menzogne, di persuadere Goffredo ad aiutarla a ritornare sul trono di cui sarebbe stata ingiustamente privata; davanti al rifiuto del Buglione, essa conquista a sé numerosi cavalieri che, attratti dal suo fascino, abbandonano il campo e, una volta trasformati in pesci, sono tenuti prigionieri per lungo tempo nel suo palazzo; infine adesca anche Rinaldo, lo trattiene presso di sé effeminando attraverso i piaceri le sue doti di guerriero cristiano e, quando egli viene liberato dai due compagni, cerca di impedirgli di partire con parole e gesti di disperata amante. Tutti i suoi sforzi, però, non fermeranno Goffredo e il suo esercito diretti verso la città santa, né riusciranno a irretire definitivamente Rinaldo nei lacci d’amore.

Armida come Circe e Proteo Nota:

DELIO CINTI, Dizionario mitologico

CIRCE. Figlia di Elios e di Perseide; famosa maga che, dopo avere avvelenato suo marito, re dei Sarmati,

venne ad abitare in un’isola vicina alla costa occidentale della penisola italica, a poca distanza dal capo Circello. Mutò in un mostro marino la ninfa Scilla, per gelosia di Glauco. Mutò in maiali i compagni di Ulisse, sbarcati nella sua isola. L’eroe andò a liberarli; ma s’innamorò di Circe, ed ebbe da lei due figli, che furono Telegono e Adrio.

Su Circe (cui può essere assimilata Armida), cfr. Maurizio Bettini – Cristiana Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino…: quarta di copertina:

C’è chi racconta che li trasformasse tutti in maiali prima ancora di chiedere come si chiamassero, chi invece sostiene che prima se li portasse a letto e poi ne mutasse uno in leone, un altro in toro o in ariete o in gallo. Altri dicono infine che non li tramutava affatto, ma semplicemente sapeva rivelare chi già erano, facendone affiorare la natura nascosta di porci o di asini. Figlia del Sole e di una ninfa, ambiguamente oscillante fra dea e maga, femme fatale e dama soccorrevole, amante vendicativa e divinità benigna, prostituta e madre di eroi, signora della natura selvaggia e maestra di raffinati lussi, da secoli la figura di Circe si modula sulla doppia natura dei pharmaka cui è affidato il suo potere: pozioni potenti, in grado di produrre lugubri degradazioni, ma anche luminose sublimazioni, capaci di rendere l’individuo migliore o addirittura di trasformarlo in dio. Cap. II. La ricerca del senso, pp. 87 sgg.: Tra le figure dell’Odissea Circe sembra a prima vista una delle più facili da analizzare. Ma, a studiarla da vicino, i problemi e le questioni intorno al suo personaggio si addensano a dismisura. Proprio per questo il racconto omerico di Circe ha stimolato nei secoli molte ricerche di senso, tanto più accanite quanto più la storia non sembra averne uno (…) Nel corso dei secoli varie letture si sono avvicendate in cui Circe ha rivestito di volta in volta i panni della maga maligna, della capostipite di genealogie illustri, del simbolo dell’adescamento erotico, di dea della reincarnazione, di prostituta, di moglie assassina e di amante delusa. È così che Circe è diventata un mito.

E i miti, si sa, sono oggetti misteriosi, fluidi e plurivoci. Questa magmaticità – il loro libero trasformarsi di bocca in bocca, di penna in penna, il loro passare mutante da un genere all’altro (poesia, prosa, storiografia, teatro), da una forma espressiva a un’altra (parole, musica, danza, pittura) – è una delle ragioni del loro successo. Nessuno ha ancora trovato un modo per rispondere univocamente alle domande di significato sollecitate da questo genere di figure, che non si lasciano facilmente irreggimentare in schemi e strutture di significato coerente. Per la verità, molto dipende da come si intende e definisce il mito. Per alcuni si tratta di

153 una funzione psicologica specifica, di un universale della mente umana. Per altri il termine non ha invece alcun referente nella realtà psicologica, ma costituisce piuttosto una costruzione della modernità occidentale, una comoda etichetta inventata per isolare e declassare come fandonie certi racconti o, al contrario, sacralizzarli come depositi di arcana sapienza (…). Meglio allora dichiarare subito in che senso (…) utilizzeremo il termine. Per “mito di Circe” si intenderà semplicemente una catena di rappresentazioni culturali, una collana di testi – riscritture o interpretazioni – collegati fra loro da rapporti di imitazione, riuso, esegesi. (…)

DELIO CINTI, Dizionario mitologico

Simile a Proteo è Glauco: GLAUCO. Pescatore di Boezia il quale, avendo visto alcuni pesci da lui posti su di una certa erba riprender forza e saltare nell’acqua, mangiò quell’erba e subito si sentì spinto irresistibilmente a gettarsi in mare. Oceano e Teti fecero di lui un dio marino e gli diedero la facoltà di predire il futuro. Secondo alcuni mitografi, fu questo Glauco che costruì la nave Argo e poi partecipò alla spedizione degli Argonauti come timoniere. Secondo altri, Circe amò questo dio marino, il quale però le preferì la ninfa Scilla. Per gelosia, Circe mutò la ninfa in un mostro del mare e avvelenò le acque in cui essa e Glauco stavano immersi. (…)

Su Glauco (cui può essere assimilata Armida) cfr. Marinella Corsano, Glaukos. Miti greci di personaggi omonimi, Ateneo, Roma 1992: Premessa: I tre personaggi omonimi citati nell’Ibis da Ovidio

(vv. 555-558), che augura le peggiori sorti al suo nemico, costituiscono l’oggetto di questa ricerca. Si tratta di Glaukos dio marino, dotato di poteri profetici, collegato ad Antedone, città della Beozia, e per il quale il tuffo nel mare rappresenta il momento centrale della propria divinizzazione; di Glaukos figlio di Sisifo, sovrano di Corinto, sbranato dalle cavalle che allevava a Potnia in Beozia; e infine, del piccolo Glaukos figlio di Minosse, re di Creta, che trovò la morte cadendo in un’anfora piena di miele, dalla quale fu poi tratto e riportato in vita. Tre personaggi accomunati dall’avere lo stesso nome, proposti come diversi e distinti tra loro, le cui vicende sembrano svolgersi indipendentemente l’una dall’altra. Gli studiosi che hanno preso in considerazione tali personaggi hanno sottolineato la presenza, nelle relative tradizioni mitiche, di elementi comuni, per risalire all’esistenza di una figura unica, poi differenziatasi in personaggi diversi, di una divinità originaria che proverrebbe da Creta, considerando queste tradizioni come un unico mito con diverse varianti (…). Conclusione: L’omonimia indicherebbe (…) che con quel nome si vuole connotare